Proliferazione nucleare: l'Europa e il rapporto transatlantico

Di Giovanni Gasparini e Raffaello Matarazzo Giovedì 27 Marzo 2008 14:37 Stampa

La politica di non-proliferazione dell’Unione europea è basata sul rafforzamento del sistema di accordi multilaterali e delle istituzioni a esso preposte. Per l’UE la non-proliferazione è un obiettivo fondamentale che va perseguito indipendentemente dalla natura politica del paese proliferatore. Gli europei attribuiscono un valore strategico al concetto di deterrenza e di contenimento attraverso sanzioni e ispezioni internazionali, e ciò spiega l’interesse secondario che essi manifestano per attivi sistemi di difesa.

La Strategia di sicurezza europea indica la proliferazione delle armi di distruzione di massa quale «potenzialmente la più importante minaccia alla nostra sicurezza».1 Lo stesso documento, dopo aver sottolineato il ruolo dei trattati internazionali che hanno permesso di limitare il fenomeno, riconosce che nell’ultimo decennio il processo di proliferazione di queste armi e dei vettori necessari per il loro impiego è in forte crescita. Ma non sono solo gli attori statali ad impensierire: il possesso e l’eventuale uso di tali armi da parte di gruppi terroristici è esplicitamente indicato come «lo scenario più terrificante».2

Nonostante la Strategia europea contro la proliferazione delle armi di distruzione di massa3 raggruppi le minacce sotto un unico cappel- lo, un’analisi più attenta dei processi di proliferazione non può prescindere dalle differenze che esistono fra le varie tipologie: nucleare, radiologico, batteriologico, chimico (NRBC).

Il caso più attuale e forse importante, date le potenziali conseguenze, riguarda la proliferazione di armamenti nucleari; il Trattato di non-proliferazione nucleare (TNP) infatti non sembra in grado di reggere le pressioni di regimi statali desiderosi di dotarsi di armi dall’enorme potenza distruttiva, e quindi particolarmente appetibili sia per bilanciare un’asimmetria sul piano degli armamenti convenzionali, sia per proteggere élite politiche da possibili interventi esterni tesi al cambiamento di regime.

Le aspirazioni di dominio regionale costituiscono un altro importante fattore di instabilità del sistema, anche perché l’introduzione di tali armamenti da parte di un attore può innestare un fenomeno di proliferazione a catena legato alle necessità di bilanciamento strategico da parte dei paesi vicini. Inoltre, lo sviluppo di capacità tecnologiche civili nel settore dell’energia nucleare e di network illegali di scambio di tecnologie incrementano le occasioni di proliferazione.

In realtà, la possibilità di dotarsi di tecnologia nucleare non costituisce un pericolo di per sé: il Giappone è da anni un paese «a soglia zero», ovvero che non possiede armi nucleari ma potrebbe dotarsene in breve tempo, grazie al possesso di capacità tecnologiche e industriali adeguate. Ciò che conta è, altresì, la volontà di acquisirle per utilizzarle con obiettivi politico-strategici, sfidando i regimi di nonproliferazione e le relative conseguenze in termini di isolamento e sanzioni.

Il problema della deterrenza Durante la guerra fredda il sistema di proliferazione era sottoposto al controllo dei due blocchi contrapposti, e le conseguenze nefaste di un potenziale impiego dell’arma atomica erano evitate tramite un sistema di deterrenza noto come MAD (mutua distruzione assicurata), in cui la possibilità di risposta in caso d’attacco nucleare rendeva l’attacco non conveniente. La fine del confronto fra blocchi e la presenza sulla scena internazionale di attori difficilmente assimilabili a questa logica d’equilibrio armato ha messo in discussione il tradizionale approccio al sistema di deterrenza, spingendo diversi paesi a confrontarsi con il problema della proliferazione su scala regionale. Gli stessi Stati Uniti non sembrano aver trovato ancora il giusto equilibrio fra la credibilità del proprio arsenale nucleare, in corso di ammodernamento, e la necessità di difese che garantiscano la sicurezza nel caso in cui la deterrenza fallisca. Il problema risiede anche nella convinzione che lo sviluppo di armi nucleari incrementi la possibilità che queste possano finire nelle mani «sbagliate» e che la capacità militare convenzionale americana venga in qualche modo controbilanciata dalla minaccia nucleare di regimi particolarmente aggressivi.

Le recenti difficoltà incontrate dalla strategia della deterrenza, particolarmente verso gruppi terroristici e regimi statali «radicali», hanno fatto tornare d’attualità la questione delle difese missilistiche strategiche, perseguite con particolare interesse sia dall’Amministrazione Bush che, in diverso contesto regionale, da Israele.

Attualmente vi sono cinque paesi legittimamente titolari di una capacità nucleare (Stati Uniti, Russia, Cina, Regno Unito e Francia), due paesi non firmatari del TNP che hanno mostrato di avere tali armi (India e Pakistan), due paesi che sono, a diverso titolo, accusati di avere programmi per lo sviluppo, pur facendo parte del regime (Iran) o avendone fatto parte (Corea del Nord), due paesi che per motivi diversi hanno rinunciato alla corsa al nucleare (Iraq e Libia), e infine Israele, paese non firmatario del Trattato e probabilmente dotato di armi mai dichiarate. Iran e Corea del Nord stanno anche sviluppando sistemi missilistici adatti a portare le eventuali testate nucleari a distanze sempre maggiori. Il problema politico e strategico è quindi particolarmente attuale e importante anche per i paesi europei, e non è detto che i soli regimi giuridici sin qui sviluppati siano sufficienti ad affrontarlo in modo complessivamente efficace.

Il regime di non-proliferazione nucleare Dopo il collasso dell’Unione Sovietica, il rischio che parti del suo vasto arsenale nucleare potessero finire nelle mani di terroristi o di soggetti – statuali e non – «aspiranti proliferatori» è stato costante fonte di preoccupazione a livello internazionale. L’aspettativa che con la fine della guerra fredda il ruolo delle armi nucleari divenisse sempre più marginale nel sistema di sicurezza internazionale è andata largamente delusa. Nel corso degli anni Novanta il regime di non-proliferazione nucleare, pietra angolare dell’approccio europeo al problema, è riuscito a mantenere un buon livello di tenuta, fondamentalmente grazie al raggiungimento di diversi accordi fra Stati Uniti e Russia per lo smantellamento di parte dei loro arsenali. L’estensione a tempo indetermi- nato del Trattato di non-proliferazione nucleare, decisa in occasione della Conferenza di revisione del 1995, ha costituito uno dei momenti di massima fiducia nella sua capacità di contrasto alla diffusione di armi nucleari. A ciò si sono aggiunti sensibili miglioramenti anche nel sistema di salvaguardia messo in atto dall’Agenzia internazionale per l’energia atomica (AIEA).

Dalla fine degli anni Novanta, tuttavia, il regime di non-proliferazione nucleare ha fatto registrare un graduale processo di erosione che affonda le radici in diversi aspetti, contingenti e strutturali, connessi al sistema di sicurezza internazionale. Le manifestazioni più evidenti di questa tendenza sono il rallentamento del processo di riduzione degli arsenali dal 2000 in poi, la mancata implementazione del Trattato per il bando complessivo dei test nucleari (CTBT) – fondamentale per una maggiore stabilità e un carattere meno discriminatorio del regime di non-proliferazione – e il mancato avvio dei negoziati per la riduzione della produzione di materiale fissile, largamente richiesto come elemento di rassicurazione da molti Stati non nucleari.

Alcune lacune del Trattato di non-proliferazione che non si è ancora riusciti a sanare contribuiscono significativamente al suo indebolimento. Fra queste la prima è che se il Trattato consente agli Stati sottoscrittori il diritto di perseguire programmi nucleari a fini non militari, esso non dispone di alcuno strumento per intervenire nei confronti di uno Stato che sotto la copertura di un programma nucleare «pacifico» si avvia invece a realizzare armi nucleari. La seconda lacuna, ancora più strutturale della prima e recentemente evidenziata dal caso della Corea del Nord, è che il Trattato non configura nessuna effettiva misura coercitiva contro le parti che violino le sue disposizioni o che si ritirino da esso. Le ultime due Conferenze di revisione del TNP, svoltesi nel 2000 e nel 2005, non sono state in grado di risolvere questi nodi e hanno dato entrambe esiti negativi.

Il rapporto transatlantico Nonostante le difficoltà riscontrate dal TNP, l’Unione europea considera tale Trattato e il sistema istituzionale che fa capo all’AIEA quale fondamento della propria politica di non-proliferazione. Ma non tutti i paesi europei condividono lo stesso scenario strategico di riferimento e la stessa politica verso le armi nucleari. Francia e Regno Unito conservano uno strumento nucleare nazionale in corso di ammodernamento e dimostrano di credere ancora nel valore dissuasivo delle rispettive forze strategiche.

L’Alleanza atlantica sta sviluppando alcune iniziative che garanti- scono da un lato il rispetto dei trattati e il regime classico di deterrenza, che poggia anche sulla presenza di ordigni nucleari tattici dislocati in alcuni paesi dell’alleanza, dall’altro sviluppano alcuni sistemi di difesa e risposta in caso di crisi e attacco.

Al di là delle iniziative istituzionalizzate all’interno della NATO, gli Stati Uniti stanno da tempo avviando programmi nazionali e accordi bilaterali in due direzioni: verso l’incremento dell’efficacia dei regimi di non-proliferazione (con la Proliferation Security Iniziative, PSI) e nel settore delle difese anti-missile. Inoltre, gli Stati Uniti sono tendenzialmente più disponibili dell’Europa al ricorso all’uso della forza per evitare che un regime ostile si doti di armi nucleari.

Le diversità di approccio fra le due sponde dell’Atlantico sono recentemente emerse in modo esplicito in occasione delle discussioni bilaterali fra Stati Uniti e India per la stipula di una collaborazione bilaterale nel settore nucleare. L’India è una potenza nucleare che non partecipa al TNP, ma si è recentemente riavvicinata agli Stati occidentali anche in funzione di bilanciamento della Cina; Washington è interessata a rafforzare la cooperazione con questo paese, sebbene giuridicamente e politicamente ciò possa comportare un vulnus al regime di non-proliferazione attraverso il riconoscimento di fatto del nucleare indiano. Per gli americani conta maggiormente la natura del regime che vuole dotarsi di armi. Quello statunitense è dunque un approccio politicamente discriminatorio che si differenzia dall’eguaglianza giuridica secondo cui è la proliferazione in quanto tale a essere negativa. La risposta alle sfide poste da Iran e Corea del Nord si differenzia anche per il diverso grado di disponibilità di minacciare o usare la forza per ovviare alla proliferazione.

La strategia europea nei confronti dell’Iran Se si esclude il caso dell’Iraq, in cui peraltro la giustificazione dell’operazione contro il regime di Saddam Hussein in base ad esigenze di non-proliferazione si è rivelata pretestuosa, europei e americani stanno cooperando attivamente nei due principali scenari di crisi attuali, ovvero la Corea del Nord e il Medio Oriente.

L’Europa è un attore marginale della crisi coreana, eppure si potrebbe sostenere che la politica di sanzioni e dialogo diplomatico portata avanti nel Gruppo dei sei (in cui le controparti del regime totalitario di Pyngyang sono Cina, Corea del Sud, Giappone, Russia e Stati Uniti) rispecchia il «modello» di gestione della crisi iraniana proposto proprio dal quartetto di mediatori europei composto da Francia, Germania e Regno Unito, con la partecipazione dell’Unione europea. All’UE viene rimproverata una tradizionale debolezza politica e diplomatica nei confronti degli Stati proliferatori. Tuttavia, una più attenta analisi della condotta negoziale seguita dall’Unione europea nei confronti dell’Iran induce a ritenere che gli europei siano riusciti a ottenere degli obiettivi nel quadro della difesa del regime di non-proliferazione nel suo complesso, svolgendo un ruolo di mediazione a livello internazionale che si sta rilevando molto importante sia per la specificità del negoziato iraniano, sia più in generale per il futuro del TNP.

Dopo aver avviato nell’estate del 2003, vincendo le incertezze americane, un’iniziativa diplomatica guidata da Francia, Germania e Regno Unito che si poneva l’obiettivo di convincere il governo iraniano a interrompere il suo programma nucleare, nel marzo 2005 gli europei hanno ottenuto l’appoggio degli Stati Uniti alla loro iniziativa, pur senza la loro diretta partecipazione ai negoziati. Americani ed europei hanno posto come condizione la sospensione del processo di arricchimento dell’uranio da parte dell’Iran e il ricorso al Consiglio di sicurezza dell’ONU per l’applicazione delle sanzioni, in caso di fallimento delle trattative. Nel giugno 2005 l’elezione del leader radicale Ahmadinejad alla presidenza dell’Iran ha determinato un netto passo indietro nel negoziato, inducendo americani ed europei a deferire l’Iran all’ONU con l’accusa di inadempienza verso i suoi impegni internazionali.

In seguito all’elezione di Ahmadinejad, l’Unione europea ha continuato a puntare sul dialogo transatlantico verso l’Iran, nonostante l’escalation di minacce e accuse iraniane nei confronti di Israele e al mondo occidentale fatte dal presidente iraniano con chiari obiettivi di consolidamento del consenso interno, e nel giugno 2006 l’Europa e gli Stati Uniti hanno elaborato un nuovo pacchetto di incentivi e sanzioni da sottoporre all’Iran. Questi prevedevano fra l’altro: il riconoscimento formale del diritto dell’Iran alla tecnologia nucleare civile; l’assistenza alla costruzione di un reattore nucleare ad acqua leggera tecnologicamente avanzato (meno rischioso dal punto di vista della proliferazione nucleare); garanzie sulla fornitura di combustibile nucleare per il reattore; il sostegno all’adesione dell’Iran all’Organizzazione mondiale del commercio; l’accesso ai mercati statunitensi di attrezzature agricole e di materiali di ricambio per la flotta della compagnia aerea di bandiera iraniana; assicurazioni sul carattere temporaneo della moratoria sull’arricchimento dell’uranio, che potrebbe riprendere una volta verificata la natura esclusivamente pacifica del programma nucleare; la promessa da parte europea di riprendere le trattative per un accordo di cooperazione e commercio con l’Unione.

In seguito al rifiuto iraniano, l’ONU ha approvato la risoluzione 1737 che dispone le sanzioni. La risoluzione è stata approvata anche grazie all’intenso lavoro diplomatico che gli europei hanno condotto verso Russia e Cina per convincerli ad approvare le sanzioni e coinvolgerli maggiormente nel negoziato.

Per molti aspetti, dunque, la strategia negoziale perseguita dall’Unione europea nei confronti dell’Iran ha dato più risultati di quanto a volte non si sia disposti a credere. Anche per questo oggi l’ipotesi di un intervento militare americano contro Teheran è più remota (il Congresso degli Stati Uniti e l’opinione pubblica statunitense non sarebbero disposti ad accettarla) e il possibile riavvio di un dialogo diplomatico fra Stati Uniti, Siria e Iran per la ricostruzione dell’Iraq è molto meno remoto di quanto non fosse in passato. Le sanzioni sembrano avere qualche impatto, soprattutto scoraggiando alcuni paesi chiave a proseguire la loro cooperazione con Teheran. Sarebbe dunque un errore dichiararne un prematuro fallimento. La politica negoziale fino a oggi condotta dall’Unione europea non esclude, del resto, un graduale riconoscimento del ruolo regionale dell’Iran e un allentamento della minaccia militare, nella consapevolezza che questo approccio contribuirebbe a favorire le forze politiche interne al regime meno inclini allo «scontro frontale» con l’Occidente e aprirebbe la possibilità di una maggiore collaborazione di Teheran, nell’immediato, anche per la stabilizzazione dell’Iraq. Tutto questo, ovviamente, senza rinunciare all’uso delle sanzioni e alla minaccia di un loro possibile inasprimento nel caso di un ulteriore arroccamento iraniano.

Il contributo offerto dalla mediazione europea alla crisi iraniana ha permesso di rallentare il processo di proliferazione, ma non ha saputo sinora risolvere compiutamente il problema.

L’atteggiamento iraniano pone più in generale la questione della stabilità del Medio Oriente e dei dilemmi di sicurezza presenti nell’area, tanto da far emergere la desiderabilità di un piano complessivo di denuclearizzazione. Su questo aspetto però la politica europea e quella americana sono destinate a scontrarsi a causa del problema posto dall’arsenale israeliano.

Prospettive Il problema della proliferazione nucleare è destinato ad occupare un posto di primo piano nell’agenda transatlantica dei prossimi anni. Europa e Stati Uniti hanno assunto negli ultimi anni approcci di fondo divergenti nelle strategie volte a contrastare la proliferazione nucleare, ma l’osservazione dei casi concreti d’intervento mostra come l’unità delle politiche europee e la coesione transatlantica nella gestione delle crisi siano un fattore imprescindibile per il successo del regime di non-proliferazione. L’evoluzione degli scenari in questo ambito dipenderà in buona parte dalla condotta degli Stati Uniti e dell’Unione europea e dalla loro capacità di fronteggiare il problema in modo unitario, soprattutto nelle principali sedi multilaterali. Il disaccordo fra questi due attori viene infatti percepito come un chiaro segnale di debolezza dagli Stati che vogliono sviluppare armi nucleari, che solitamente sfruttano a loro vantaggio le contraddizioni che si aprono all’interno del fronte transatlantico. Del resto, l’obiettivo ultimo delle politiche di non-proliferazione è largamente condiviso dalla comunità occidentale; la vera differenza è nella disponibilità a impiegare la forza per garantire il rispetto dei principi di non-proliferazione.

La soluzione di fondo risiede nel concordare l’approccio basato sui trattati con la necessità di iniziative multidisciplinari che ne aumentino la credibilità e l’efficacia, includendo, se necessario, la minaccia e l’uso della forza.

Si tratta di favorire misure universali che comprendano: l’adozione di strumenti di verifica più incisivi; la riduzione degli incentivi a dotarsi di armi nucleari, tramite misure regionali e globali di confidence building tese a ridimensionare il dilemma della sicurezza; il rilancio del processo di riduzione e limitazione degli arsenali dei paesi nucleari «ufficiali», processo peraltro previsto dallo stesso TNP.

In Europa si dovrà aprire una difficile discussione circa il ruolo degli arsenali nucleari francese e inglese nella strategia complessiva europea, nonché rivedere la pianificazione nucleare in ambito NATO, adeguandola a scenari d’imprevedibile evoluzione.

La credibilità e l’efficacia dell’azione di non-proliferazione dipendono da europei e americani e possono essere affermati solo attraverso un processo di convergenza che comporti, da parte europea, una maggiore attenzione all’efficacia dell’impianto normativo e istituzionale di riferimento e, da parte americana, una disponibilità a condurre una politica unitaria in ambiti multilaterali.

[1] Consiglio dell’Unione europea, Un’Europa sicura in un mondo migliore. Strategia europea in materia di sicurezza, dicembre 2003, pp. 8-9.

[2] Ivi, p. 9.

[3] Consiglio europeo, EU Strategy against Proliferation of Weapons of Mass Destruction, 10 dicembre 2003.