La direttiva sui servizi nel mercato interno

Di Marco Giorello Giovedì 27 Marzo 2008 14:01 Stampa

La direttiva 123/2006/CE del Parlamento europeo e del Consiglio relativa ai servizi nel mercato interno (la cosiddetta «direttiva servizi»), recentemente adottata ed entrata in vigore lo scorso 27 dicembre 2006,1 dovrà essere trasposta negli ordinamenti nazionali dei ventisette Stati membri dell’Unione entro tre anni, vale a dire entro la fine del 2009 al più tardi.

La proposta originaria della Commissione risale all’inizio del 2004.2 Come è noto, i negoziati relativi a quella che è stata da molti definita «direttiva Bolkestein» sono stati tutt’altro che facili e i lavori legislativi in Parlamento e in Consiglio hanno attraversato momenti estremamente delicati prima che si potesse raggiungere un compromesso condiviso dai due co-legislatori comunitari e dalla stessa Commissione. La proposta è stata altresì oggetto di intenso dibattito in seno all’opinione pubblica, un dibattito che, in alcuni paesi più che in altri, ha talvolta assunto toni particolarmente accesi.

Indubbiamente, la direttiva servizi che è stata finalmente adottata differisce in più di un aspetto dal testo originariamente proposto dalla Commissione: alcuni settori che erano compresi nella proposta iniziale sono stati esclusi, il principio del paese di origine è stato sostituito da una clausola relativa alla libera prestazione dei servizi, altre norme sono state modificate. Tuttavia, può valere la pena in questa sede dare spazio ad un intervento improntato all’ottimismo.

Sarebbe infatti ingeneroso e controproducente qualificare la direttiva servizi come un’occasione persa o, addirittura, un passo indietro rispetto all’obiettivo della realizzazione del mercato interno dei servizi. La direttiva che è stata adottata contiene in sè un enorme potenziale in termini di modernizzazione, semplificazione amministrativa a favore tanto degli imprenditori quanto dei consumatori, superamento della frammentazione dei mercati in Europa e, in ultima analisi, quale volano per la crescita economica nella prospettiva della Strategia di Lisbona. Per questo è importante che l’occasione venga colta e che il lavoro di trasposizione negli ordinamenti nazionali avvenga in maniera seria ed efficace. La Commissione è oggi fortemente impegnata a fianco delle amministrazioni degli Stati membri al fine di garantire il raggiungimento di tale obiettivo. Ciò premesso, dopo alcuni brevissimi cenni sui motivi e gli obiettivi della direttiva, verranno affrontati un paio di punti relativi al contenuto della stessa, per concludere guardando ancora avanti, al lavoro di trasposizione nella prospettiva della scadenza di fine 2009. Quanto, innanzitutto, agli obiettivi economici della direttiva, è chiarissima l’importanza dell’economia dei servizi in Europa, oggi, anche nella prospettiva dell’impatto che tale settore ha (e probabilmente avrà ancora di più in futuro) sull’intera sfera delle attività produttive, ivi inclusa l’industria e il settore manifatturiero. Ma c’è un altro aspetto che è importante sottolineare, sopratutto in una prospettiva di storia del diritto e delle politiche comunitarie. La libertà di prestazione dei servizi e la libertà di stabilimento sono previste nel Trattato comunitario fin dalla fondazione della Comunità (economica) europea, nel 1957. Tuttavia per decenni l’azione comunitaria di realizzazione del mercato interno si è sviluppata essenzialmente, anche dal punto di vista legislativo, con riguardo ad un’altra delle libertà fondamentali del mercato interno, vale a dire la libera circolazione delle merci. Evidentemente il motivo è innanzitutto economico, essendo ovvio che nell’economia europea degli anni Cinquanta e dei decenni successivi la circolazione dei beni aveva indubbiamente un’importanza molto maggiore rispetto al settore dei servizi. Questo dato si riscontra tanto a livello legislativo quanto nella giu- risprudenza della Corte di giustizia relativa all’interpretazione delle norme del Trattato sul mercato interno – basti pensare che fino almeno alla prima metà degli anni Novanta le sentenze comunitarie in materia di libera circolazione delle merci sono sicuramente di gran lunga più numerose rispetto a quelle sui servizi. Dagli anni Novanta in poi l’azione comunitaria ha iniziato ad interessarsi maggiormente al settore dei servizi, ma in un’ottica – seppure di fondamentale importanza – limitata ad un approccio settoriale. Si pensi soprattutto alle liberalizzazioni e regolamentazioni dei servizi a rete (telecomunicazioni, trasporti, energia, servizi postali) e dei servizi finanziari.

Tuttavia mancava finora uno strumento di portata generale, che coprisse il mercato interno dei servizi con dei principi tendenzialmente comuni a tutti i settori. Di qui l’idea della direttiva servizi, proposta dalla Commissione a inizio 2004 a seguito, fra l’altro, di un rapporto «sullo stato del mercato interno dei servizi» presentato dalla Commissione stessa nel 2002 nel quale erano state messe in evidenza le difficoltà e gli ostacoli che impedivano (e in gran parte ancora impediscono) il pieno funzionamento del mercato interno dei servizi.3 La direttiva servizi risponde a tali difficoltà sulla base proprio di uno strumento a vocazione orizzontale, vale a dire uno strumento che si applica in linea di principio a tutte le attività di servizi tranne quelle che sono esplicitamente escluse dal suo campo di applicazione, e che, inoltre, agisce in maniera complementare rispetto ad altri strumenti comunitari esistenti. Questo significa, in particolare, che la direttiva servizi troverà normalmente applicazione anche in settori parzialmente regolati da altre direttive per quanto riguarda gli aspetti che non sono oggetto di regole più specifiche in tali strumenti (ad esempio nel settore delle professioni regolamentate, dell’energia ecc.).

L’obiettivo fondamentale della direttiva è pertanto quello di favorire la piena realizzazione del mercato interno dei servizi attraverso una serie di regole volte a dare corpo alle libertà di stabilimento e di prestazione dei servizi, che, come accennato, sono già previste sotto forma di principi generali che hanno via via trovato sostanza nella giurisprudenza della Corte di giustizia relativa agli articoli 43 e 49 del Trattato CE. Le tecniche legislative utilizzate dalla direttiva sono varie, e non è possibile in questa sede procedere ad una descrizione di dettaglio del suo contenuto. È comunque importante sottolineare che, coerentemente con i concetti contemplati dalle summenzionate norme del Trattato, la direttiva pren- de in considerazione i due scenari nei quali le attività di servizi possono concretamente effettuarsi: lo stabilimento, vale a dire la presenza permanente di un operatore nella vita economica di uno Stato membro (concetto che nella direttiva comprende anche lo stabilimento degli operatori nazionali nel proprio paese) e la prestazione di servizi, che consiste nello svolgimento temporaneo di un’attività di servizio a carattere transfrontaliero, fra due diversi Stati comunitari. In via di massima approssimazione la ratio delle norme della direttiva relative alla libertà di stabilimento è quella di semplificare l’ambiente amministrativo e regolamentare nel quale agiscono le imprese di servizi, abolendo, riducendo o sottoponendo a valutazione le regole legislative o amministrative applicabili alle imprese stabilite sul territorio di uno Stato membro. D’altro lato, con riferimento alla libertà di prestazione dei servizi, la direttiva mira ad incoraggiare la penetrazione transfrontaliera delle imprese riducendo e inquadrando la possibilità per lo Stato dove viene prestato un servizio di applicare la propria regolamentazione (ad esempio i regimi di autorizzazione, le licenze, ecc.) al prestatore che agisce temporaneamente provenendo da un altro paese. Questo nella prospettiva di ridurre quanto più possibile i costi di transazione legati al passaggio delle frontiere, che possono essere particolarmente scoraggianti sopratutto per le piccole e medie imprese, fino talvolta ad impedire del tutto gli scambi tra un paese e l’altro (si pensi ai soli costi in termini di informazioni necessarie per conformarsi ai diversi ordinamenti giuridici, che oggi sono spesso sopportati anche per prestazioni transfrontaliere di carattere del tutto occasionale). Tale corpus di regole è infine accompagnato da una serie di altre misure, fra le quali merita un cenno particolare il sistema di cooperazione fra le pubbliche amministrazioni degli Stati membri che, supportato da un apposito sistema telematico in via di realizzazione (denominato IMI, Internal Market Information System), è destinato a facilitare il funzionamento dell’intero sistema previsto dalla direttiva e che, come si vedrà fra breve, ha un’importanza particolare per quanto riguarda lo scenario della libera prestazione dei servizi.

Può essere interessante, a questo punto, soffermarsi brevemente sulla differenza tra il testo finale della direttiva e quanto era stato originariamente proposto dalla Commissione. Si è già detto che lo scarto riguarda in primo luogo la riduzione del campo di applicazione. Alcuni settori, per lo più oggetto di una dettagliata regolamentazione comunitaria specifica erano già stati esclusi nella proposta originaria (trasporti, servizi finanziari, materie coperte dalle direttive in materia di telecomunicazioni ecc.). Altri settori sono stati esclusi a seguito dei negoziati legislati- vi, in massima parte come conseguenza del compromesso raggiunto dal Parlamento in prima lettura. Si tratta, in effetti, delle più disparate attività di servizi: servizi sanitari, alcuni servizi sociali, servizi di sicurezza privata, agenzie di lavoro interinale, servizi audiovisivi, misure fiscali, giochi e scommesse, attività notarili. Va inoltre notato che non tutti i settori (e non ogni tipo di situazione) sono soggetti alla clausola di libera prestazione dei servizi prevista dall’articolo 16 della direttiva: ne sono stati esclusi, in particolare, i servizi di interesse economico generale. A proposito dei settori esclusi è tuttavia importante ricordare che, evidentemente, questi rimangono comunque pienamente soggetti ai principi generali previsti dal Trattato con riferimento alla libertà di stabilimento e alla libera prestazione dei servizi. Non mancano, d’altronde, anche nel recente passato, numerosi esempi di giurisprudenza comunitaria relativa a normative nazionali in settori oggi esclusi dalla direttiva servizi che la Corte di giustizia ha considerato in contrasto con gli articoli 43 e 49 del Trattato (è il caso, per esempio, delle restrizioni fiscali, dei servizi sanitari, dei servizi di sicurezza privata, delle agenzie di lavoro interinale, i giochi e le scommesse ecc.). Oltre alla riduzione del campo di applicazione, altre norme contenute nella proposta originale sono state emendate nel corso del processo legislativo. I casi sono vari, ma in questa sede merita un cenno, in particolare, il cosiddetto principio del paese di origine, inizialmente proposto dalla Commissione, oggetto di tante discussioni nella prima fase del negoziato e che (ancora una volta, per effetto del passaggio parlamenta- re in prima lettura) è stato sostituito nella versione finale della direttiva (all’articolo 16) dalla già menzionata clausola di libera prestazione dei servizi. Il principio del paese di origine era, in sostanza, una clausola di determinazione della legge applicabile e, seppure soggetta ad una dettagliata lista di eccezioni, prevedeva che, per quanto riguarda le regole relative all’accesso e all’esercizio delle attività economiche, gli operatori sarebbero stati soggetti esclusivamente alla legge del paese dove sono permanentemente stabiliti. Ovviamente, ma giova ribadirlo, tale principio concerneva il solo caso delle prestazioni transfrontaliere temporanee e non lo scenario dello stabilimento su base permanente. La clausola di libera prestazione dei servizi contenuta nella versione definitiva della direttiva mira egualmente a facilitare le prestazioni transfrontaliere, ma è congegnata secondo un diverso meccanismo giuridico. L’articolo 16 della direttiva servizi prevede, oggi, una forte limitazione della possibilità da parte dello Stato membro dove viene prestato un servizio (temporaneo) transfrontaliero di applicare la propria normativa relativa all’accesso e all’esercizio di attività economiche all’operatore stabilito in un altro paese. L’applicazione della normativa del paese ospitante sarà consentita solo nei casi in cui tale applicazione sia non discriminatoria, necessaria e proporzionata al raggiungimento di quattro obiettivi (di interpretazione restrittiva) enunciati esaustivamente nella stessa disposizione: l’ordine pubblico, la pubblica sicurezza, la salute pubblica e la tutela dell’ambiente. Altre deroghe alla clausola di libera prestazione dei servizi sono previste dal successivo articolo 17 della direttiva riguardo a settori o situazioni particolari. Non è possibile soffermarsi in dettaglio sull’impatto della clausola di libera prestazione dei servizi. È necessario però sottolineare, e con convinzione, che tale clausola non costituisce un capovolgimento della proposta iniziale della Commissione, ma, al contrario, rappresenta, per i settori a cui si applicherà, un sostanziale passo in avanti rispetto allo status quo ante, vale a dire la situazione derivante, oggi, dall’applicazione dell’articolo 49 del Trattato. Questa norma prevede infatti che siano vietate le restrizioni alla libera prestazione dei servizi. La giurisprudenza costante della Corte di giustizia ha interpretato, negli anni, l’articolo 49 del Trattato riconoscendo la possibilità per gli Stati membri di giustificare l’applicazione di normative indistintamente applicabili (che riguardano quindi, nello stesso modo, operatori nazionali e stranieri) che restringono la libera prestazione dei servizi laddove la loro applicazione sia motivata (vale a dire necessaria e proporzionata) per il raggiungimento di «ragioni imperiose di interesse generale». Tali ragioni sono, nel diritto comunitario, una lista aperta (unico limite, secondo la giurisprudenza è che non possono riguardare obiettivi di carattere economico, quali, ad esempio, la protezione di determinate categorie di operatori) in quanto rappresentano, in sostanza, gli obiettivi perseguiti dagli ordinamenti nazionali attraverso un dato provvedimento di regolazione dell’economia (è il caso della qualità dei servizi, della tutela dei creditori, del buon funzionamento del sistema fiscale ecc.).

È dunque rispetto a questa situazione che l’articolo 16 della direttiva compie un passo avanti sostanziale nella prospettiva dell’integrazione del mercato interno, in quanto – salvo i casi contemplati dall’articolo 17 – esso consente l’applicazione della normativa (non discriminatoria) dello Stato dove viene prestato il servizio nei confronti dell’operatore transfrontaliero solo nei casi in cui questo sia necessario e proporzionato per il raggiungimento dei quattro obiettivi ivi tassativamente enunciati. Si tratta pertanto, rispetto alla situazione precedente, di una forte riduzione delle possibilità di deroga al principio della libera prestazione. Dalla lista aperta delle ragioni di interesse generale di derivazione giurisprudenziale si passa, nella direttiva servizi, ad una lista chiusa. I quattro motivi enunciati nell’articolo 16 della direttiva (ordine pubblico, pubblica sicurezza, salute pubblica, tutela dell’ambiente) corrispondono, con l’aggiunta della protezione dell’ambiente, alle deroghe già menzionate nell’articolo 46 del Trattato e che, nell’inquadramento dell’ordinamento giuridico comunitario, svolgono la funzione di una sorta di clausola di salvezza di «ordine pubblico comunitario » corrispondente, nelle parole della Corte di giustizia, alla difesa, di carattere eccezionale, contro minacce agli «interessi fondamentali della collettività».4 Ciò detto, è comunque importante aggiungere che la limitazione dell’applicabilità delle norme del paese di prestazione non va tuttavia letta come una deregolamentazione fine a se stessa, dal momento che essa viene tra l’altro resa possibile (oltre che dall’esistenza di un già consistente acquis comunitario che ha in sostanza «comunitarizzato» determinati obiettivi di interesse generale, quali ad esempio la tutela dei consumatori, e che continuerà ad applicarsi contestualmente alla direttiva servizi) dal già menzionato sistema di cooperazione amministrativa che permetterà, in virtù di obblighi dettagliati, alle autorità del paese di prestazione di rivolgersi a quelle del paese di stabilimento per ottenere informazioni, controlli e provvedimenti nei confronti dei prestatori transfrontalieri presenti occasionalmente sul proprio territorio. Un cenno, infine, all’importante lavoro di trasposizione negli ordinamenti nazionali che gli Stati membri, come detto, sono chiamati a realizzare, con il sostegno della Commissione, entro la fine del 2009. Innanzitutto va rilevato come, al di là dell’oggettiva importanza (e ampiezza) della materia trattata, la trasposizione della direttiva servizi si presenta in maniera peculiare rispetto a quella di molte altre direttive comunitarie, in quanto richiederà non soltanto l’adozione di uno o più atti giuridici di recepimento nel diritto interno degli Stati membri, ma, in maniera molto più ambiziosa, un programma di azioni concrete che devono essere portate a compimento dalle amministrazioni nazionali entro il termine previsto. Se ne possono menzionare quattro, sulle quali la Commissione e gli Stati membri stanno già lavorando intensamente e che richiedono uno sforzo importante, anche dal punto di vista delle risorse umane e finanziarie utilizzate dalle amministrazioni coinvolte: la creazione di sportelli unici che consentano in ogni situazione ai prestatori di servizi di avere un unico contatto con le amministrazioni pubbliche in occasione delle formalità necessarie all’esercizio della loro attività; il sistematico, e obbligatorio, utilizzo di procedure elettroniche per quanto riguarda i rapporti fra operatori e amministrazioni pubbliche; lo screening delle legislazioni nazionali applicabili allo stabilimento e alla prestazione di servizi nei vari paesi, ad esempio riguardo alle procedure di autorizzazione, nella prospettiva della loro semplificazione e della riduzione delle barriere alle attività di servizi; la messa a punto del già più volte citato meccanismo di messa in rete e cooperazione fra le amministrazioni pubbliche degli Stati membri. Il programma è ambizioso, ma la direttiva servizi rappresenta un’occasione da non perdere per la modernizzazione della pubblica amministrazione, la razionalizzazione della regolazione dell’economia, la cosiddetta better regulation, e il rilancio dell’economia europea. In Italia molti interventi che vanno in questa direzione sono stati fatti o sono in programma: lo sportello unico, le iniziative di e-government, le stesse riforme di «liberalizzazione » recentemente promosse dal ministro Bersani.5 Si tratta ora di razionalizzare tutte queste iniziative al fine di concentrare gli sforzi nella prospettiva della trasposizione di quanto richiesto dalla direttiva servizi. In quest’ottica, la presenza di uno strumento comunitario giuridicamente vincolante, che impone obblighi precisi agli Stati membri, rappresenta indubbiamente un valore aggiunto e, sopratutto, un’opportunità da cogliere per la realizzazione delle riforme economiche.6

 

[1] Direttiva 2006/123/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 12 dicembre 2006 relativa ai servizi nel mercato interno, in Gazzetta Ufficiale CE L 376/36 del 27 dicembre 2006.

[2] Cfr. documento della Commissione COM (2004) 2 definitivo del 13 gennaio 2004.

[3] Cfr. documento della Commissione COM (2002) 441 definitivo del 30 luglio 2002.

[4] Cfr. ex multis, la sentenza «Calfa» del 19 gennaio 1999 in causa C-348/96.

[5] Cfr. in particolare la legge 248 del 4 agosto 2006 di conversione, con modificazioni, del decreto legge 223 del 4 luglio 2006, «recante disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale, per il contenimento e la razionalizzazione della spesa pubblica, nonché interventi in materia di entrate e di contrasto all’evasione fiscale» e la legge 40 del 2 aprile 2007 di conversione con modificazioni del decreto legge 7 del 31 gennaio 2007 «recante misure urgenti per la tutela dei consumatori, la promozione della concorrenza, lo sviluppo di attività economiche e la nascita di nuove imprese».

[6] Le opinioni qui contenute sono espresse dall’autore a titolo personale e non impegnano in alcun modo la Commissione europea.