L'indecifrabile conflitto nella capitale senza capitale

Di Paolo De Nardis Martedì 19 Marzo 2013 09:36 Stampa

Roma è una città, come tutte le metropoli, disordinata e instabile. Eppure, vive una situazione troppo peculiare per poter essere generalizzata, essendo al contempo capitale d’Italia e città eterna. Una rinascita è possibile, ma non può prescindere dal risanamento di alcuni conflitti che la contraddistinguono, ossia quelli tra metropoli e centro politico-amministrativo del paese, centro e periferia, presente e passato, polarizzazione e linearità, unità e frammentazione, consumo e inquinamento, virtuale e reale. Un vero rilancio potrà scaturire soltanto dalla definizione di un nuovo modello sociale, che garantisca formazione accessibile e lavoro equo a tutti i cittadini.

«Roma non è solo una città: è metafora, norma, paradigma, canone, testo, immaginario, meta e percorso dello sguardo, del cervello e dell’anima. Del linguaggio, accademico e comune. Ma è pure quotidianità. Si lavora, si fa l’amore, si canta, si cucina, si muore, si uccide. Come dovunque. Ma tutto ciò che è relativo in questa città, tutto ciò che è cronaca di questa città, tutto ciò che accade giorno dopo giorno in questa città non può non condividere un’aura di assolutezza. Di eternità. Di terreno e di sovrannaturale. È un privilegio assoluto vivere qui, è anche una fatica vivere qui. È un dono straordinario. Quasi insopportabile».1

Il disordine della metropoli rende difficile anche solo mappare le sue esigenze, le potenzialità e le zone di ombra. La disgregazione dei tradizionali sistemi di rappresentanza, di organizzazione e di mediazione sociopolitica, d’altro canto, induce una sorta di anomia indifferenziata, che si traduce in silenzio e isolamento, soprattutto per gli strati più deboli della società. Eppure, nella città di Roma continua a scorrere un fluido vitale: la differenza, rispetto al passato, è rappresentata dal fatto che il fiume di energia ha assunto un corso carsico, in gran parte sotterraneo. Sta all’amministratore locale riportarlo alla luce e riscoprirlo, nella consapevolezza che il disfacimento delle forme di lavoro fordiste – nel passato presenti massivamente anche in una città come Roma – non ha esaurito, però, la portata delle tensioni sociali. Allo stesso tempo, solo il presupposto per cui dietro alle suddette tensioni sociali ci siano precise forze trasformatrici e non solo rischi di disordini suggerisce l’opportunità di mappare i conflitti, raccontare le storie, costruire una rete di urbanisti, architetti, sociologi, antropologi, statistici, giornalisti e soggetti istituzionali: il fine consiste nel definire una filosofia della città e nel concretizzarla in policy che risveglino Roma.

Una premessa è d’obbligo: le città sono sistemi complessi governati da un equilibrio instabile, all’interno del quale il conflitto gioca a volte un ruolo morfologico e funzionale dal momento che ricompone le classi sociali in movimento. La città cammina su un filo sottile e incerto, con fasi di turbolenza e periodi di quiete che si alternano in una perenne narrazione. All’interno di un quadro del genere, Roma vive una storia troppo specifica per poter essere generalizzata: è capitale e urbs aeterna, città turistica e centro amministrativo, polo culturale e punto di riferimento aggregativo per l’immigrazione interna ed esterna. Tutto e niente, Roma “slalomeggia” continuamente tra conflitti espliciti e latenti, nella bonaria convinzione – frutto di secoli di storia che pesano sulle sue spalle – di saper comunque rilanciarsi, riciclarsi, semplicemente sopravvivere. La rinascita di Roma passa comunque attraverso la conoscenza delle sue linee di diaframma, nel tentativo di orientarsi stabilendo confini e acquisendo abilità. I punti che seguono riassumono quanto è possibile desumere da un interessante contributo di qualche anno fa,2 quando l’idea di confitto non aveva ancora subito lo stigma di una destra legalitaria a parole e disinibita nelle pratiche.

a) Roma vive una contraddizione a partire dal suo essere capitale d’Italia. Essere una metropoli, con una sua storia e sue specifiche caratteristiche, e contemporaneamente porsi come centro politico-amministrativo del paese ha prodotto da sempre una lunga teoria di occasioni perse, più che di potenzialità pienamente realizzate. Si pensi al costo sociale, pagato silenziosamente dai suoi abitanti, delle manifestazioni che quotidianamente assediano i palazzi del potere e le istituzioni statali. Si pensi alla complicata governance che vede a Roma rappresentanti di ogni livello, dall’organizzazione sovranazionale all’amministrazione di prossimità. Si pensi alla “zona rossa” che continuamente assedia le aree limitrofe ai ministeri e agli altri edifici istituzionali, formando un cordone sanitario che, di fatto, limita il completo godimento della città da parte dei suoi abitanti.

b) Una seconda linea di conflitto richiama uno dei classici cleavages (fratture sociali) del politologo norvegese Stein Rokkan: la relazione tra centro e periferia, che nella città di Roma assume caratteri di particolare difficoltà a causa della morfologia urbana definita, fin dai tempi del fascismo, intorno all’idea di un nucleo centrale seguito da un “non luogo esterno”. La città interna era una cartolina splendente nei suoi monumenti, quella esterna si componeva di tanti gironi danteschi in cui lavoratori, immigrati e poveri andavano a vivere e a sopravvivere. Il centro era il luogo dei turisti e, di conseguenza, dei servizi (mezzi pubblici, centri culturali, ma anche scuole e alloggi di qualità), la periferia era sconsigliata a chi non avesse altra alternativa che frequentarla. Con il tempo la situazione è parzialmente cambiata, anche in virtù di una sorta di “decentramento artistico” che ha permesso la riscoperta delle tradizioni archeologiche e culturali dei quartieri esterni, ma la distanza, simbolico-culturale prima ancora che logistica, tra il centro di Roma e le sue periferie persiste, confermando la discriminazione tra gli “eletti” e i cittadini di serie B.

c) Il terzo conflitto ha una forte dimensione cronologica, perché contrappone la Roma del presente a quella del passato, la Roma ammirata dagli intellettuali stranieri – che ne facevano da sempre una meta obbligata dei loro Grand Tour – e quella bestemmiata dai suoi cittadini per gli innumerevoli disservizi. Sia chiaro: ogni città vive una sua discrasia tra le vestigia del tempo che fu e la necessità di mantenere alti standard di prestazioni, ma a Roma il confronto tra le due dimensioni (presente e passato) è inguaribilmente ostico per due motivi. In primo luogo, perché il presente è giudicato irrimediabilmente peggiore del passato, come se i canoni estetici fossero del tutto incapaci di dialogare; secondariamente, perché la separazione tra la Roma del presente e quella del passato è così netta da tradursi in competizione tra due discipline, l’archeologia e l’urbanistica. L’una ha il gravoso compito di preservare la città eterna, l’altra deve quotidianamente fluidificare la città del presente. Una buona pratica vorrebbe che le due città – e le due suddette discipline – dialogassero, finanche rendendosi complementari, ma le polemiche che investono gli enti istituzionali deputati a preservare la Roma antica, l’amministrazione comunale e le varie associazioni di cittadini e consumatori stanno a indicare come la città di Roma viva, da questo punto di vista, un equilibrio assolutamente precario, tale da essere rinegoziato ogni giorno.

d) La rilevanza euristica di una quarta “frattura sociale” complica ulteriormente un quadro piuttosto agitato: polarizzazione contro linearità. Il modello polarizzante indica una città “chiusa” dentro il perimetro del Grande raccordo anulare (quasi fosse una cinta muraria postmoderna), mentre l’approccio lineare vorrebbe una metropoli che si sviluppi lungo precise linee urbanistiche, all’insegna di un razionale decentramento: il Campus Universitario (anche declinato al plurale, data la presenza di più università), la Città della Scienza e della Ricerca, la Città della Musica, la Città dell’Economia solidale, la Cittadella dei Ministeri, il Polo Industriale (ovviamente riconvertito alle nuove necessità produttive del territorio) ecc. Tutte microcittà perfettamente dialoganti tra di loro e raggiungibili da un sistema di infrastrutture adatte alla mobilità pubblica e privata. È un sogno raggiungibile? Allo stato attuale, appare più un’allucinazione onirica, dal momento che il percorso della linearità è frastagliato, discontinuo e spesso irrazionale. Tutt’altro che lineare, appunto. Neanche la preesistenza di un sistema viario già di per sé lineare (si pensi alla “rosa dei venti” delle grandi arterie consolari) è stata adeguatamente sfruttata, se non al fine della costruzione di voraci shopping center che rappresentano, per adesso, l’unico isolato caso di decentramento lineare.

e) Per quanto in declino e in forte deficit di entusiasmo, Roma conserva alcuni aspetti identificativi – dentro e fuori il paese – tali da renderla una città riconoscibile. Quella che veniva chiamata nel passato forma urbis non è in discussione, mentre lo è la sua omogeneità morfologica, che appare oggi decisamente slabbrata. C’è il rischio, quindi, che gli aspetti identificativi della città di Roma siano dovuti solo al suo imponente passato: Roma come brand storico, in cui la memoria riesca laddove l’attualità è carente. Vista dall’alto, Roma appare oggi come un terreno arso dalla siccità estiva, con profonde fratture che separano isolate zolle. Queste ultime rappresentano gli insediamenti abitativi nati – anche in anni recenti – in modo disordinato, offendendo l’Agro Romano (quanti ricordano come Roma sia anche il più grande Comune agricolo italiano?) e definendo quello che gli urbanisti chiamano sprawl, cioè un disordinato sviluppo della zona periurbana. Ci inganneremmo se collegassimo queste dinamiche alla speculazione edilizia post-boom degli anni Cinquanta, quando la città si arricchì tanto degli insediamenti nati per soddisfare frettolosamente un bisogno (le masse di immigrati interni che raggiungevano la città) – creando quelli che furono definiti “quartieri operai di una città di non operai”3 – quanto degli edifici abusivi (a volte vere e proprie baracche) che fecero la fortuna di storiche ricerche sociologiche. 4 Ancora negli anni Novanta la città si ingrandiva con nuove unità abitative, per non parlare di interi quartieri, situati intorno o fuori l’anello viario periferico, dove già all’epoca viveva più della metà della popolazione, in una porzione destinata ad aumentare progressivamente. Roma come “unità” e Roma come “frammento” rappresentano una linea di conflitto crescente e simboleggiano la contiguità delle amministrazioni comunali con gli interessi dei costruttori edili.

f) Una città che cresce, ovviamente, è una città che consuma di più, che aumenta le proprie necessità e, conseguentemente, il dispendio di risorse. È una città che spende tempo, energie e denaro non solo per rispondere alle esigenze primarie, ma anche per avere cura del proprio corpo, per l’informazione, le attività culturali, il leisure. Una città che consuma finisce inevitabilmente per inquinare – e qui si pone il sesto conflitto – e per utilizzare intensivamente le proprie strutture e risorse. C’è una linea continua che lega l’eterno affaire dei rifiuti (e della localizzazione di discariche alternative a Malagrotta) alla mancata manutenzione di scuole, parchi e giardini: si tratta di un degrado che affonda le sue radici nella non accettazione, da parte dell’attuale amministrazione capitolina, del concetto di “bene comune”. Di contro, i writers (che una volta venivano definiti “graffitari”) assurgono involontariamente a nemico pubblico numero uno, ignorando completamente il messaggio antropologico che è in nuce nelle loro azioni (che piacciano o meno): riappropriazione dei territori contro la grigia uniformità dei quartieri dormitorio e costruzione di personali narrazioni metropolitane.

g) Quanto detto sopra ci permette di descrivere l’ultimo conflitto in atto nella città di Roma: il meno visibile e, per questo, potenzialmente il più pericoloso. Il grande sviluppo delle telecomunicazioni ha permesso, negli ultimi anni, il consolidamento di una “sfera pubblica virtuale”, cioè di una porzione (via via crescente) di società civile che si incontra in rete e lì discute, rispettando i canoni definiti da Habermas, di questioni di interesse pubblico. La piazza telematica che si viene a formare è intessuta di progettualità, di valori e di memoria, è altamente tecnologizzata, costituisce un movimento di opinione e cerca di influenzare il decisore sottolineando la necessità di comportamenti etici e trasparenti. All’interno della società postmoderna la sfera pubblica virtuale costituisce sicuramente una risorsa e un freno alla dilagante antipolitica. Ciò non toglie che la politica nelle piazze virtuali rischia di svuotare di persone e di contenuti le piazze “reali”. E le strade. E le sezioni e i circoli. E tutti i luoghi fisici in cui i cittadini si incontrano da secoli per confrontarsi, scontrarsi, cercare una sintesi oppure scoprire che alcune differenze sono dirimenti. La rete può essere un valido surrogato di tutto ciò? Ne dubitiamo, sebbene frotte di sociologi della comunicazione si affrettino a sottolineare la complementarità dei due milieu. Ai fini della rivalutazione della città di Roma, non possiamo fare a meno di registrare come strade e piazze vuote, usate al massimo come semplici scenografi e di cartapesta, siano un pessimo viatico per “il nuovo inizio” dell’Urbe, che richiederebbe, invece, una cittadinanza consapevole e partecipe nella maniera più inclusiva possibile, senza digital divide e preclusioni per l’età avanzata o il basso capitale culturale di alcuni strati della cittadinanza. Considerare il nugolo di piazze e di strade romane solo alla stregua di spazi per servizi e commercio – lasciando al web l’onere di aggregare le opinioni – significa porre la città a rischio di privatizzazione. L’ultimo cleavage è proprio questo: la città virtuale, che prodigiose mappe telematiche fanno rivivere anche nell’era degli antichi Romani, contro la città reale, che subisce quelle contraddizioni che abbiamo descritto nei precedenti punti. Le stesse contraddizioni che possono essere sciolte solo frequentando quelle strade e quelle piazze.

Conflittualità, punti critici e prodromi di crisi: non abbiamo risparmiato segnali di pessimismo, eppure già tra le righe emergono indizi per una ripartenza, sulla scorta della consapevolezza che il confitto indichi sì una congiuntura critica ma abbia in sé i rizomi per superarla.

Il rilancio di Roma, ad avviso di chi scrive, non potrà basarsi su un “pacchetto”, più o meno chiuso, di intelligenti policy: ognuno dei punti appena elencati nascondeva suggerimenti che un accorto pool di economisti, urbanisti, tecnici della politica e ricettivi amministratori locali potrebbe facilmente implementare. Il nostro impegno scientifico, però, va verso un’altra direzione, come indicato in una recente fatica letteraria:5 al di là dell’attuale malgoverno comunale, Roma attraversa una crisi che è sistemica e non congiunturale, in quanto propria di tutte le metropoli che hanno conosciuto il capitalismo maturo. Non ne uscirà attraverso un’opera di pur sapiente “ingegneria amministrativa”, ma definendo un nuovo modello sociale, che sia direttamente sperimentabile dai suoi cittadini. La città, con i suoi territori (centrali o periferici che siano) e i suoi abitanti (cittadini e “irregolari”, pienamente realizzati o marginali), dovrebbe essere un luogo concreto di ideazione e attivazione di un nuovo software sociale, che governi la produzione e le reti collettive garantendo formazione accessibile e lavoro equo.

Roma che interrompe il suo declino è una città diversa da quella che subiamo ogni giorno. È una città: telematica (percorsa da reti civiche su fibra ottica); energetica (che produce e risparmia energia); mobile (che non limita i suoi spostamenti alle quattro ruote private); solidale (che non dimentica i luoghi di provenienza dei suoi immigrati e le ragioni della loro migrazione); in formazione permanente (a prescindere dall’età e dallo status occupazionale); “immaginaria” (che rielabora la sua cultura politica sulla base di nuove piattaforme di progettualità e di conflitto).6


 

[1] L. Caminiti, Anno breve di “accattone”, in L. Caminiti (a cura di), Roma capoccia. Cronache di una metropoli in 23 scrittori, DeriveApprodi, Roma 2005, p. 5.

[2] F. Purini, Conflitti romani, in M. Berlinguer (a cura di), La riva sinistra del Tevere. Mappe e conflitti nel territorio metropolitano di Roma, Transform! Italia, Roma 2005, pp. 13-15.

[3] G. Berlinguer, P. Della Seta, Borgate di Roma, Editori Riuniti, Roma 1976.

[4] Si veda su tutte F. Ferrarotti, Roma da capitale a periferia, Laterza, Roma-Bari 1970.

[5] R. Benini, P. De Nardis, Capitale senza capitale. Roma e il declino d’Italia, Donzelli editore, Roma 2013.

[6] Si veda S. Galezzi, La città come spazio della “rete”, in O. Marchisio, G. M. De Pieri (a cura di), Il territorio dei soggetti. Genetica di classe della moltitudine, Manifestolibri, Roma 2003, pp. 89-104. Tra le immagini di Roma esperite da indagini sociologiche degli
anni passati si segnala un lavoro che ebbe se non altro il merito, in tempi non sospetti, di contrastare la nascente “ideologia della sicurezza”: P. De Nardis, A. Santori (a cura di), Disagi urbani e confl ittualità nella Roma di fi ne millennio, Maggioli, Rimini 1997.