Il futuro dei giovani: diritto oltre alla crisi e poi svoltare a sinistra

Di Alessandro Rosina Martedì 12 Febbraio 2013 17:35 Stampa

Oggi più che mai l’Italia deve puntare sulle nuove generazioni, vera risorsa strategica per la crescita. Nessun cambiamento è realizzabile senza il loro contributo, e del resto le cronache recenti ne testimoniano il ritrovato desiderio di partecipazione. Il paese ha bisogno di politiche coraggiose e obiettivi misurabili, perché le radici del futuro stanno nel presente.

 


CRISI DI FIDUCIA

I giovani italiani sono senza futuro? Lo si sente spesso dire, ma non è vero. È un’affermazione che non ha più valore della profezia dei Maya. Non perché i giovani siano senza problemi, ma perché domani il sole tornerà comunque a sorgere. Prima o poi, inesorabilmente, il nuovo giorno arriva. La questione vera è semmai la qualità del futuro. Domani si può star peggio di oggi: non c’è nessuna legge di natura che lo impedisca, c’è solamente l’azione politica e sociale che può rendere più o meno probabile un generale scadimento del benessere e delle opportunità.

Le radici del futuro stanno nel presente. Chi non prepara bene il terreno oggi e non semina con cura non può pretendere di raccogliere buoni frutti domani. Questo vale sia per i singoli che per il sistema paese. È allora un dato di fatto che da troppo tempo in Italia non si semini bene, non si investa come si dovrebbe sulle nuove generazioni. L’Italia malata di bassa mobilità sociale e scarsa crescita economica del primo decennio del XXI secolo è infatti il coerente ritratto di un paese che non è stato in grado di predisporre e offrire adeguati strumenti di protezione, promozione e partecipazione per i giovani. La crisi economica è poi arrivata come pioggia, anzi tempesta, che cade sul bagnato. Non bastava essere uno dei paesi europei con più bassa occupazione degli under trenta, abbiamo anche fatto in modo che la recessione colpisse con maggiore veemenza le opportunità delle nuove generazioni. Come ha riconosciuto lo stesso presidente Napolitano nel suo discorso di fine anno, i giovani hanno oggi buoni motivi per indignarsi (verrebbe da scrivere “incazzarsi”). Ci si è anzi chiesti perché le nuove generazioni siano rimaste remissive così a lungo, accettando una innaturale subalternità politica e culturale rispetto a quelle precedenti.

Chi ora ha tra i trenta e i quaranta anni appartiene alla “generazione X”, adolescente negli anni Ottanta, convinta che l’Italia facesse parte delle economie più avanzate, con un solido processo di crescita e in grado di offrire ampie prospettive a chi arrivava ai livelli più elevati della formazione. Quando tale generazione si è affacciata al mercato del lavoro, dalla seconda metà degli anni Novanta in poi, ha trovato uno scenario completamente diverso. Nel corso degli ultimi anni l’insoddisfazione si è trasformata via via in insofferenza. Sempre più giovani laureati hanno preso la via dell’estero, vivendo spesso tale scelta proprio come protesta nei confronti di un paese che dopo averli formati non è in grado di valorizzare adeguatamente il loro capitale umano.

Ma se la situazione è ulteriormente peggiorata, è anche vero che nel frattempo si è prodotta una mutazione antropologica nelle nuove generazioni. I ventenni di oggi non fanno più parte della “generazione X”. Un numero crescente di ricerche internazionali ha messo negli ultimi anni in evidenza come si stia affacciando all’età adulta una nuova coorte, chiamata “Millennials” (o “generazione Y”), che ha caratteristiche di discontinuità con le precedenti. Si tratta di coloro che non avevano ancora la maggiore età quando è iniziato il XXI secolo. Studi condotti in vari paesi attribuiscono a essi una spiccata identità generazionale, maggiore anche rispetto ai baby boomers. Riconoscono il loro tratto comune soprattutto sull’uso delle nuove tecnologie, che considerano vitali come l’aria che respirano. È cambiato il modo di vivere, di informarsi e di relazionarsi e i Millennials sono consapevoli di essere i più diretti interpreti di questi mutamenti, i più attrezzati a interpretare il nuovo spirito dei tempi. Domina inoltre una visione positiva del proprio ruolo, la grande maggioranza è convinta infatti di poter dare un contributo attivo per migliorare il proprio paese se potesse avere spazio e opportunità adeguati. Ma come costruire tali condizioni? Nessuno in Italia si è posto tale problema. Men che meno la politica e il sistema produttivo italiano. Una generazione il cui talento è indubbiamente sottoutilizzato anche perché poco riconosciuto nelle sue specificità. È stato più facile accusarli di essere bamboccioni e schizzinosi. Ma dopo averli fatti finire nella palude, non possiamo pretendere ora che dimostrino di saperne uscire da soli, magari facendo come il Barone di Münchhausen che uscì incolume dalle sabbie mobili tirandosi fortemente e con convinzione per i capelli.

 

CONOSCERE DAVVERO LA REALTÀ DEI GIOVANI

Un paese che vuole promuovere le competenze e le capacità delle nuove generazioni – al fine di metterle al servizio di un solido modello di crescita e sviluppo – ha bisogno prima di tutto di conoscerne specificità e caratteristiche. In Italia abbiamo una inflazione di piccole indagini occasionalmente condotte sui giovani dai più disparati centri o istituti, finalizzate soprattutto a trovare spazio sui media sfruttando un tema di moda, ma non in grado di produrre solida conoscenza sulla realtà delle nuove generazioni. In gran parte dei paesi più avanzati a questa esigenza si risponde con grandi indagini longitudinali che consentono di seguire nel tempo i percorsi di vita delle persone, rilevando in modo dinamico aspettative, intenzioni e comportamenti. Permettono di capire come cambia il sistema di vincoli e opportunità nella transizione alla vita adulta, come i giovani orientano le proprie scelte e con quali esiti. Questi stessi dati sono inoltre cruciali per valutare l’effetto delle policies e decidere di conseguenza se e come ricalibrarne l’azione. In assenza ci si muove sostanzialmente alla cieca. Si rischia in particolare di non cogliere quali sono i reali bisogni e i nuovi rischi, di sottostimarne l’importanza e, nel caso si decida di agire, di mancare il bersaglio con interventi poco efficaci e scarsamente incisivi.

Tutto questo è oggi sempre meno accettabile, perché i ritardi accumulati impongono ora di intervenire; perché in regime di risorse limitate è necessario spendere bene; perché la fiducia nella classe dirigente è scesa sotto i livelli di guardia e le promesse non incantano più nessuno, contano ora solo i risultati tangibili.

L’esigenza di vedere azioni concrete vale ancor di più per le nuove generazioni. Con i Millennials l’insoddisfazione dei giovani è uscita dalla fase latente ed è diventata esigenza forte di cambiamento. Dopo un lungo periodo di passività siamo entrati in quello della consapevolezza e della critica, dell’insofferenza verso una società squilibrata che si trasforma in manifestazione aperta del dissenso. Troppo a lungo si è detto che bisognava cambiare senza mai far seguire vere discontinuità. Più i problemi si cronicizzano, le prospettive per le nuove generazioni si restringono, gli spazi di confronto degradano, le disuguaglianze aumentano, le istituzioni e la politica perdono di credibilità, e più aumenta la possibilità che i giovani, anziché assumere un ruolo da protagonisti di un nuovo modello di sviluppo sociale, si ritaglino un ruolo da antagonisti nei confronti di un sistema che li esclude o nel quale non si riconoscono.

 

POLITICHE CHE MIGLIORINO IL CONTRIBUTO ALLA CRESCITA

Chi si assumerà responsabilità di governo nei prossimi anni dovrà dunque riuscire nella complicata impresa di dare sia risposte con risultati immediati in grado di migliorare da subito le condizioni dei giovani, sia porre le premesse di un solido modello di crescita i cui frutti si potranno apprezzare solo nel medio e lungo periodo. La combinazione di questi due obiettivi ha implicitamente alla base anche l’idea che il problema non siano i giovani ma l’incapacità del sistema paese di metterli nella condizione di contribuire pienamente alla crescita valorizzando al meglio le loro capacità e competenze.

Alla prima esigenza può rispondere l’azione sulle carenze del welfare e sui rischi della precarietà. Una riduzione dell’abuso a cui si prestano molti contratti ai quali i nuovi entranti vengono assoggettati – più coerenti con lo sfruttamento che con l’investimento sulle risorse umane – va sicuramente in questa direzione. Chi ha contratti instabili si trova, rispetto al resto d’Europa, non solo con carriere più discontinue, ma anche con remunerazioni più basse e con minor welfare pubblico. Le storture del mercato del lavoro nei confronti dei giovani, minimizzate per lungo tempo, sono state esplicitamente considerate un problema dal governo Monti, che però non ha avuto la forza di intervenire con una vera riforma. Quella impropriamente chiamata “riforma” (legge 92/2012) può infatti essere considerata un insieme di utili aggiustamenti che cercano di smussare gli spigoli più evidenti senza però ristrutturare a fondo l’impianto. Rimane soprattutto largamente irrisolta la questione di come riequilibrare il rapporto tra flessibilità e sicurezza. A mancare nel nostro paese sono soprattutto politiche attive in grado di rendere i periodi di inoccupazione: a) meno gravosi, prevedendo un adeguato sostegno al reddito; b) meno passivi, cogliendo l’opportunità per un aggiornamento delle competenze; c) meno lunghi, attraverso strumenti che incentivano e favoriscono la ricollocazione.

A causa di queste carenze molti si perdono e vanno a ingrossare le già troppo larghe fi le dei NEET, ovvero dei troppi che non studiano e non lavorano, fenomeno negativo rispetto al quale eccelliamo in Europa. Quello che hanno in comune la gran parte dei lavoratori precari e degli inoccupati è di essere schiacciati nella condizione di figli e di dipendere a lungo dalla famiglia di origine. La metà dei giovani italiani tra i 16 e i 30 anni vive a carico dei genitori, è il dato più elevato in Europa. I dati Istat ci dicono che la lunga permanenza nella casa paterna è sempre meno legata a fattori culturali e sempre di più a quelli economici. Le ridotte opportunità dei fi gli e la carenza di welfare pubblico producono costi particolarmente elevati per le famiglie di status sociale medio-basso, accentuando quindi anche le disuguaglianze sociali. Ne risulta compressa, inoltre, la mobilità sociale, forzando così i figli a non volare più in alto dei padri. Rimuovere questi ostacoli consente quindi sia di incentivare la crescita attraverso migliori possibilità di impiego dei giovani, sia di ridurre squilibri generazionali e sociali. Un compito che soprattutto le forze politiche progressiste dovrebbero considerare prioritario.

In una società che funziona, la maggior parte dei giovani a 25 anni dovrebbe aver già fatto esperienze significative nel mondo del lavoro e poter essere già autonoma dalla famiglia di origine. Almeno a partire dai 25 anni dovrebbe quindi esistere una misura universale di sostegno al reddito con obblighi di attivazione, che sia anche freno rispetto al rischio di diventare NEET o working poor. L’idea che deve passare è che, alme- no a partire dai 25 anni, una persona (da considerare non “giovane” ma “adulto-giovane”) che ha voglia di fare, deve avere tutti gli strumenti per potersi guadagnare un’autonomia dalla famiglia di origine ed essere pienamente attiva.

Ma a frenare il contributo attivo delle nuove generazioni non è solo l’inadeguatezza del sistema di welfare. La valorizzazione del capitale umano dei giovani è fortemente legata all’espansione delle opportunità che si possono trovare, o contribuire a creare, nel mondo del lavoro. Proprio per questo, tra le priorità indicate dalla Strategia Europa 2020 c’è l’incentivo agli investimenti in ricerca e sviluppo, che continuano a essere particolarmente bassi in Italia. L’espansione dei settori più innovativi e tecnologicamente avanzati è parte essenziale di quel circolo virtuoso che spinge al rialzo ricerca e lavoro, generando quindi dinamismo economico e ricchezza. Qui le nuove generazioni possono avere un ruolo da protagonista e diventare una risorsa strategica per la crescita. Oltre ad aumentare la domanda di lavoro qualificato, è infine necessario far incontrare meglio l’offerta con la domanda già esistente, potenziando i percorsi formativi professionalizzanti.

Azioni in questa direzione richiedono investimenti i cui benefici si ottengono soprattutto nel medio-lungo periodo. A causa della persistente denatalità l’Italia si troverà con una riduzione consistente di persone nelle fasce giovani-adulte. Come ho cercato di spiegare in modo più approfondito e dettagliato in un recente saggio,1 compensare la riduzione quantitativa con un miglioramento qualitativo nella formazione del capitale umano e nelle opportunità sul mercato del lavoro deve diventare un obiettivo prioritario per un paese che vuole continuare a crescere ed essere competitivo. Senza un cambiamento culturale che porti a una consapevolezza diffusa e a una condivisione ampia dell’importanza di investire sulle nuove generazioni (e non solo di ottenere il meglio per i propri figli contro tutto e contro tutti) diventa difficile trovare il consenso per politiche che tolgono qualcosa a tutti oggi per dare di più a chi ci sarà domani.

 

PIÙ PESO ALLE SCELTE CHE IMPEGNANO VERSO IL FUTURO

Politiche di questo tipo non si possono fare ai margini, con le risorse che si riescono a recuperare senza scontentare nessuno. Per investire quanto serve in funzione di obiettivi ambiziosi abbiamo bisogno di una politica lungimirante e coraggiosa, che non insegua demagogicamente il consenso del crescente peso dell’elettorato più anziano, come avvenuto troppe volte negli ultimi decenni. L’obiettivo deve essere quello di avvicinare i figli senza perdere i padri e le madri, non viceversa. Anche perché la capacità di mobilitazione delle nuove generazioni sta crescendo e sarà sempre più difficile far senza di loro. Da un lato, nessun vero cambiamento è davvero realizzabile senza un ampio e solido contributo delle nuove generazioni. Dall’altro, l’offerta stessa di cambiamento non è credibile e convincente se non ha la capacità di appassionare e coinvolgere fattivamente le nuove generazioni.

Negli ultimissimi anni sia i movimenti degli Indignados che la partecipazione attiva alle campagne elettorali nelle quali c’era da sostenere un’offerta credibile di cambiamento o erano in gioco principi da salvaguardare hanno evidenziato una crescente voglia di partecipare, di emergere e mettersi in gioco dei Millennials. Le stesse primarie del centrosinistra hanno visto un buon coinvolgimento di giovani. Questa voglia di contare e di contribuire al cambiamento delle nuove generazioni deve allora essere inclusa come energia positiva, anche se scomoda per gli equilibri di potere attuali, nei partiti che più virtuosamente vogliono rappresentare l’Italia che cresce e guarda al futuro. Ma oltre a coinvolgere i giovani, sono anche le scelte politiche che devono sempre più essere incentivate a inglobare il benessere futuro o quantomeno vincolate a non impoverire la possibilità di creare ricchezza domani per salvaguardare gli interessi di oggi. Dato che troppo spesso questo è successo nel recente passato è necessario sperimentare nuovi strumenti che rispondano a tale obiettivo.

I governi Prodi e Berlusconi hanno previsto un apposito ministero per le Politiche giovanili, che però non è stato oggettivamente in grado di mettere in atto azioni davvero incisive. Tanta buona volontà sorretta da interventi occasionali e di impatto limitato. In questa situazione, va riconosciuto che un dicastero per le politiche giovanili serve davvero a poco e può anzi essere controproducente. Non solo ha poche risorse ma rinforza anche il malinteso che i giovani siano una riserva indiana da tutelare. Al contrario, le riforme che servono alle nuove generazioni sono le stesse necessarie per lo sviluppo del paese, che lo rendono più dinamico e competitivo. Molto più utile sarebbe istituire una sorta di autorità indipendente che abbia la funzione di misurare e valutare l’impatto che le scelte pubbliche hanno sulle generazioni future. Senza informazioni autorevoli e trasparenti – non solo su quanto è bene oggi assumere una data scelta, ma anche sul costo o beneficio che può produrre domani – il rischio di continuare a pensare solo al presente rimane elevato.

Infine, le politiche devono avere obiettivi chiari e misurabili. Questo significa che vanno esplicitamente definiti gli indicatori sui quali le misure pubbliche cercano di incidere e i livelli da raggiungere in tempi prefissati. In assenza di questo nessuna azione è seriamente valutabile e la politica rimane solo fumo. Un indicatore che dovrebbe preoccuparci e dovrebbe divenire la cartina al tornasole della nostra capacità di rimuovere gli ostacoli che frenano i giovani è la percentuale di over venticinque che dipendono economicamente dai genitori. Ridurre la quantità di giovani che si trova in tale condizione non solo implica aver agito con successo sugli strumenti di welfare attivo e sulle opportunità nel mercato del lavoro, ma produce in sé implicazioni positive. Essere autonomi responsabilizza, incentiva a contare più sulle proprie capacità che sulle risorse dei genitori, mette nelle condizioni di realizzare proprie scelte di vita. Dalla dipendenza dal passato, che pesa su chi si affida alla prolungata protezione dei genitori, ci si proietta verso il futuro, con la trasformazione piena da figli assistiti a cittadini attivi e responsabilizzati. La costruzione di basi solide per una società che vuole crescere e diventare più giusta non può che partire da qui.


[1] A. Rosina, L’Italia che non cresce. Gli alibi di un paese immobile, Laterza, Roma-Bari 2013.