PD, identità delle coalizioni e sistema elettorale

Di dialogo tra Giuliano Amato e Gianfranco Fini Giovedì 20 Marzo 2008 19:13 Stampa

Gianfranco Fini: Viviamo in un momento in cui si deve prendere atto del fatto che i partiti come li abbiamo conosciuti in passato sostanzialmente non esistono più.

Giuliano Amato: Il punto che hai toccato come «chiave complessiva» del tuo intervento, ossia quello dell’identità della coalizione, è anche a mio parere il punto dal quale partire. Noi viviamo in un sistema che per molte ragioni è pluripartitico. Può darsi che sia bene che sia così.

Gianfranco Fini Viviamo in un momento in cui si deve prendere atto del fatto che i partiti come li abbiamo conosciuti in passato sostanzialmente non esistono più. I partiti figli di un pezzo di storia italiana, fortemente ideologizzati, con una loro mistica, per certi aspetti, o comunque con una mission che andava molto al di là della raccolta del consenso – perché erano tutti, almeno teoricamente, portatori di una visione, se non palingenetica della società, fortemente caratterizzata da valori alternativi tra di loro e molto consolidati – non ci sono più. È inutile discutere se sia positivo o negativo: è un dato di fatto. Oggi i partiti sono, più semplicemente e forse fortunatamente, i soggetti attraverso i quali si tenta di dare risposte ai problemi dell’esistente e, se sono partiti che hanno una progettualità, anche di immaginare lo scenario immediatamente futuro per prevenire gli eventuali rischi che questo può portare.

Non ha quindi molto senso continuare a considerare la legge elettorale proporzionale come indispensabile per il corretto funzionamento della nostra democrazia parlamentare. Non c’è ombra di dubbio che, pur in una società post ideologica, in una fase in cui i partiti sono molto più programmatici e molto meno ideologici, ma in cui sono ancora presenti delle identità forti e dei segmenti politico-sociali fortemente caratterizzati, i punti di convergenza tra partiti sono molto più robusti dei punti di divergenza e di contrasto. Ergo, più che pensare a una logica proporzionale, che fotografa l’identità dei singoli partiti, rimango convinto che una logica maggioritaria che fotografa il consenso di coalizioni possibilmente omogenee tra di loro, sia un elemento positivo. Perciò, nel momento in cui, nell’ambito del centrosinistra, si dà corso, sia pur con mille fatiche e anche pagando un prezzo molto alto – con il paradosso di un’unificazione che passa attraverso scissioni – ad una strategia tesa a mettere in evidenza ciò che unisce culturalmente e programmaticamente DS e Margherita, facendo nascere un nuovo partito, il Partito Democratico, con regole precise di funzionamento, processi costitutivi più o meno efficaci dal basso e quant’altro, per chi è sostenitore di un sistema bipolare e crede più in un’identità di coalizione che in un’identità di partito, si è in presenza di un fatto positivo, che, l’ho detto altre volte, mi auguro trovi uno sforzo corrispondente nel centrodestra.

Detto ciò, non credo, per molte ragioni, che quello che si sta facendo nel centrosinistra debba essere preso a esempio da noi. Nel centrodestra, infatti, c’è una differenza oggettiva: non si tratta di far nascere un nuovo soggetto partendo dal problema di chi ne debba essere il leader, ma si tratta piuttosto di far nascere un nuovo soggetto che parta dalla volontà di superare un’alleanza meramente elettorale per individuare dei valori comuni e un progetto comune. A mio giudizio, quindi, almeno in una prima fase, è opportuno adottare il modello della federazione, che mutuo interamente dal sistema dell’Unione europea: alcune materie diventano competenza esclusiva della federazione, che si dà regole condivise di funzionamento, e altre materie rimangono di competenza dei partiti. In ogni caso, bisogna superare la fase attuale, in cui certamente c’è un vincolo di coalizione che deriva dalla condivisione di un programma, ma non c’è ancora un vincolo di coalizione che derivi da una condivisione di valori e da una progettualità comune.

Giuliano Amato Il punto che hai toccato come «chiave complessiva » del tuo intervento, ossia quello dell’identità della coalizione, è anche a mio parere il punto dal quale partire. Noi viviamo in un sistema che per molte ragioni è pluripartitico. Può darsi che sia bene che sia così. In ogni caso, esso è frutto della nostra storia, e il dramma con il quale ci siamo misurati in questi anni è stato proprio quello di far scaturire da questo pluripartitismo bipolare un’identità delle due coalizioni. Dobbiamo ammettere che sino ad ora tale identità riesce a essere percepita al singolare solo quando la coalizione non governa, ossia quando la sua critica a chi governa fa da denominatore comune e in qualche modo assorbe le differenze, mentre essa tende invece a sfrangiarsi quando la coalizione va al governo. Questo è chiaramente un tema che poi prescinde da tutte le considerazioni che si possono fare sulle ragioni sottostanti a ciascuna delle identità partecipi della coalizione. Certo è che il nostro elettorato, che è un elettorato che si divide tra destra e sinistra, che ha sentimenti, valori, opinioni che si diversificano, è tuttavia sensibilissimo al fatto di poter leggere nella coalizione nella quale intende riconoscersi un profilo identitario prevalente, ed è disamorato, disincantato, critico non appena percepisce che le singole identità cancellano l’identità comune.

Il centrodestra cominciò a perdere consensi, nel corso della legislatura precedente, quando si cominciarono a percepire le divisioni interne. Ricordo chiaramente che il primo calo di consensi per il centrodestra che registrammo allora era legato a questa divisione, e ho motivo di ritenere che qualcosa di analogo sia accaduto già anche per il centrosinistra, nei confronti del quale possono aver pesato, non c’è dubbio, talune scelte specifiche che il governo ha fatto, ma ha anche pesato la continua presenza di un canto e controcanto all’interno della coalizione oggi al governo.

Il Partito Democratico, così come ne siamo venuti discutendo finora, nasce per una serie di ragioni, di cui anche attraverso le pagine di questa rivista si è parlato più volte e su cui non è il caso di ritornare: la creazione della famiglia dei riformismi italiani, che nel passato si sono presentati divisi per ragioni che sono storicamente superate e che quindi è necessario mettere insieme. Io ritengo che tutto questo abbia un profondo senso storico e dovrebbe essere la presa d’atto di quello che tu stesso dicevi: cioè che le ideologie che contrapposero questi partiti in realtà erano legate a vicende storiche ormai superate, e quindi quel precipitato comune che hanno i riformismi progressisti, quelli che, insomma, giocano tra libertà ed eguaglianza – per usare grandi termini facilmente evocativi – oggi non hanno più motivo di star separati, se non in ragione di esigenze organizzative dei partiti esistenti.

Su questa premessa, la sfida del Partito Democratico è quella di dare alla coalizione l’impronta prevalente della sua identità. Se davvero questi riformismi insieme possono avere una capacità di rappresentare i bisogni del paese e di esprimere risposte appaganti per simili bisogni, allora il Partito Democratico serve a dare l’identità prevalente. In questa chiave deve riuscire a essere percepito come un singolare e nonpiù come un plurale. E io penso, come pensi tu da quel breve cenno che hai fatto, che l’affannosa ricerca del leader – che ha un senso, ovviamente – tuttavia in parte rappresenti una trasposizione mitizzante della difficoltà di trasformare il plurale in singolare. Noi abbiamo il problema di dare una risposta al singolare, ad esempio, alle questioni eticamente sensibili. Se, infatti, su altri terreni il riformismo dei credenti e il riformismo dei non credenti sono più facilmente riconducibili ad unum, questa riconduzione è, per i temi eticamente sensibili, più difficile. Dobbiamo allora dimostrare la capacità di arrivare a questa risposta unica, perché se non ci arriveremo non è che affidarsi al leader la produca di per sé o che il leader a quel punto diventi di per sé il melting pot di posizioni distanti. Quindi qui un caveat è assolutamente importante. Non possiamo pensare di risolvere i nostri problemi scaraventandoli addosso a una persona, perché ciò porta a profonde alterazioni che la storia ha già vissuto in passato e che nessuno vuole ripetere.

E questa è la prima questione da affrontare. La seconda questione che deve essere posta, e che tu anche ponevi, è quella che riguarda il sistema elettorale. Personalmente, mi sono convinto che questa identità, una volta che ci sia e che riesca a imporsi, perché ha la forza politica di imporsi, rischia di essere messa in difficoltà da un sistema elettorale che, mosso dalle esigenze dei piccoli partiti, trasforma – come ormai diciamo, con uno stilema ormai entrato in uso – il bipolarismo di cui abbiamo bisogno in un «bipolarismo coatto» ed esposto al ricatto dei piccoli. È un elemento che deve essere ben chiaro, perché quando discutiamo di sistemi elettorali non sempre ci rendiamo conto che la ragione per la quale non vengono scelti mai quei sistemi elettorali relativamente flessibili che producono il bipolarismo senza inchiodarlo al premio di maggioranza, è perché si avvalgono di quei congegni – la circoscrizione piccola, il non uso dei resti nel collegio unico nazionale, la clausola di sbarramento ecc. – che da noi sono vietati dai piccoli partiti, i quali vogliono un sistema elettorale in cui ciascuno di loro abbia il suo spazio di rappresentanza. La conseguenza è che tutti percepiamo che a quel modo non si può produrre ragionevolmente una maggioranza e allora finisce – come abbiamo fatto nei comuni, nelle province, nelle regioni, e poi, da ultimo, anche per il parlamento nazionale – che viene inserito il premio di maggioranza. A quel punto l’identità prevalente che si può essere nel frattempo creata attraverso il Partito Democratico, è alla mercè delle identità minori, e quando si arriverà a governare non avrà alcun margine di elasticità rispetto a questeidentità minori. Ora qui dobbiamo avere il coraggio di dire che un buon sistema bipolare è tale se è caratterizzato su entrambi i fronti da una forza politica che esprima l’identità prevalente della coalizione, ma non se è irrigidito in due fronti non comunicanti. Non è infatti necessario che ci siano – per essere molto chiari e per scendere al banale della politica – cambi di fronte, ma se è reso a priori impossibile l’apporto di componenti dell’altra parte, allora i poteri di veto si moltiplicano e a quel punto può darsi che una discarica che dovresti fare non riesci a farla.

G.F. Ripartiamo da due elementi: innanzitutto, bisogna considerare che quella italiana è una società pluripartitica, anche per conseguenze di carattere storico; inoltre, bisogna riconoscere che c’è una convergenza di analisi nel valorizzare l’identità della coalizione. A questo va affiancata un’osservazione: c’è un pluripartitismo virtuoso e c’è un pluripartitismo profondamente negativo, patologico. Credo che una riflessione debba essere fatta – anche legandola al dibattito sulla crisi della politica, la degenerazione del sistema – su una certa attitudine, in atto da qualche tempo, alla moltiplicazione delle sigle, dei partiti, dei gruppi parlamentari e dei costi per lo Stato. Una moltiplicazione che non possiamo salutare come dimostrazione di vitalità della società, di pluralismo di voci, di articolata presenza per tutelare interessi legittimi. Quello che chiamo pluripartitismo negativo è la tentazione, che spesso c’è nel ceto politico, di dar corso a operazioni di segmentazione, anche di tipo scissionistico, per predisporre le condizioni per le quali, in ragione del piccolissimo consenso di cui si è portatori, ci si siede attorno a quel «tavolone» o in altra sede per mettere sul piatto della bilancia il proprio peso, spesso leggero ma a volte determinante. Quindi, nella discussione sulla legge elettorale, c’è certamente il problema di come garantire il diritto di tribuna, senza però cadere nella tentazione opposta, cioè di riconoscere «dignità politica» anchea piccole aggregazioni di consenso che sono tali soltanto in ragione degli interessi privati che possono derivarne. Condivido che la soluzione possa essere un barrage più alto di quello, francamente ridicolo, al quale siamo giunti adesso; o che il problema possa essere risolto non a monte, ma a valle, attraverso un’organizzazione delle aule parlamentari molto più vincolante, perché sedicenti partiti nascono dopo le elezioni, non prima. Oggi abbiamo in parlamento ventuno sigle, delle quali diciassette al di sotto del 3%, e quei soggetti non sono stati suffragati nelle urne, ma sono soggetti che nascono dopo il voto, perché ci sono regolamenti parlamentari e sui finanziamenti che spettano ai gruppi o a singoli parlamentari che hanno un effetto in qualche modo moltiplicatore di questa degenerazione. Come se fosse una metastasi. Su questo credo che vada fatta una riflessione su come garantire il diritto di tribuna solo a chi è portatore di un consenso reale, seppur minoritario. Tra l’altro, diventa indispensabile farlo perché siamo in un sistema politico di tipo federale. Ci saranno sempre di più movimenti a carattere autonomistico o localistico. E non si tratta solo della Lega, perché anche nel Sud c’è, sotto la coltre, qualche fermento, e non mi riferisco solo all’MPA siciliano.

Sempre cercando di seguire il tuo ragionamento, è verissimo quello che dici: l’identità di coalizione al singolare è in qualche modo molto più agevole quando quella coalizione si trova all’opposizione, mentre diventa molto più ardua, tu dici «sfrangiata», quando si va al governo.

Ma qual è la ragione? Non credo che sia, come dire, la predisposizione mentale del leader della coalizione. Piuttosto, l’identità di una coalizione che è all’opposizione è un’identità che è costruita controchi è al governo. Quando si è all’opposizione, infatti, si deve avere un’identità propositiva, perché non c’è dubbio che si continua ad avere un mastice di tipo ideale che ti contrappone all’altra coalizione, ma – è una banalità con la quale, però, ci confrontiamo tutti ogni giorno – un conto è raccogliere voti e, quindi, in qualche modo, avere un’identità al singolare quando si contesta l’azione dell’altra parte, un conto è quando poi si deve governare. Questo elemento pone il problema di quella che chiamiamo l’identità dei due grandi raggruppamenti, identità che non può essere soltanto di tipo programmatico, perché nella stesura dei programmi tutto sommato la sintesi riesce, dev’essere un’identità di tipo valoriale, e quindi un’identità molto più difficile da raggiungere. Quello che sta accadendo nel Partito Democratico – il fatto che sia in atto la discussione sul ruolo dei cattolici e che persino una persona come Pezzotta abbia detto che i cattolici non hanno diritto di cittadinanza nel Partito Democratico, o la questione dell’eventuale collocazione fuori dalle due famiglie europee del nascituro partito – fa ben capire che il grande sforzo deve essere proprio nell’individuazione di valori di una coalizione che parla al singolare, anche quando si trova all’opposizione. Esattamente com’era nella fase della cosiddetta prima Repubblica, quando non c’erano coalizioni, ma partiti che in qualche modo avevano delle identità valoriali, e quindi, che fossero all’opposizione o al governo, continuavano ad avere un background di tipo culturale che era sempre il medesimo.

Come se non bastasse, a rendere le cose ancora più complicate, bisogna ricordare che è compito del ceto politico fare questo lavoro di sintesi, non può essere delegato agli elettori. Non c’è dubbio, infatti, che l’elettorato oggi è molto più unitario del ceto politico, ed è molto più unitario sia che quell’elettorato si trovi in una città amministrata dal centrodestra sia dal centrosinistra. Faccio un esempio provocatorio: è verosimile che se un giorno, in una città del Nord, Berlusconi, Bossi, Casini e io entrassimo in una fabbrica o in un bar, potremmo comprendere immediatamente, parlando brevemente con i nostri interlocutori, chi ha votato per il centrodestra e chi no. Ma se cercassimo poi di capire, all’interno della coalizione, il partito che ciascuno di loro ha votato, raramente ci potremmo riuscire. O meglio, ci potremmo riuscire per un segmento minimo, che è poi quello dei «tifosi», che magari sono i militanti del partito e partecipano alle primarie, per chi le fa. È molto difficile riuscire a capirlo nell’ambito di un elettorato molto più vasto, perché tra i tanti elementi da prendere in considerazione c’è quello della partecipazione, che oggi in Italia è alta quando si va a votare, ma è molto bassa per quanto riguarda le dinamiche dipartito, anche nei partiti in qualche modo consolidati, con una certa tradizione.

Il livello di partecipazione ai congressi dei partiti, persino ai congressi provinciali, è infatti basso. Questo a sottolineare che l’elettorato è molto più unitario del ceto politico, anche perchè quest’ultimo, probabilmente, difende piccole rendite di posizione.

I processi di fusione portano ovviamente a semplificazioni. Se prendiamo, ad esempio, il consiglio comunale di un piccolo comune, nel momento in cui ci sono due capigruppo che si devono ridurre a uno, è normale che si abbia una resistenza del ceto politico, perché qualcuno dovrà lasciare il passo ad altri. La reductio ad unum di due è difficile e porta in alcuni casi alla via di fuga del pluripartitismo negativo e non virtuoso, perché può accadere che chi fino a quel giorno pensava di essere il capogruppo in quel consiglio comunale dica: «Questo progetto non mi convince perché io ho un’identità cui non voglio rinunciare». In realtà, spesso la posizione è strumentale allo scopo di continuare ad avere il proprio ruolo, con tutti i vantaggi conseguenti, come la segretaria e l’automobile. Tutto questo può apparire banale, ma credo che poi tanto banale non sia perché è tutto profondamente intrecciato. Concordo pienamente con quello che dici, ossia che, a fronte di difficoltà così reali, la cosa apparentemente più semplice e magari anche autoconsolatoria è quella di dire: «Benissimo, chi è il leader? Affidiamo questo fardello di questioni al leader». Un leader che deve essere capace di dare una sintesi, che deve essere colui che pensa la coalizione al singolare e non al plurale. In realtà, in questo modo si mette in carico al leader un onere certamente molto pesante, ma probabilmente non si dà una risposta duratura: i partiti non nascono in laboratorio e al tempo stesso cercare di farli nascere dal basso è un bel concetto per i discorsi nei convegni, ma poi è un po’ più complicato applicarlo, proprio perché ci sono queste resistenze e una scarsa partecipazione. Ecco perché, anche alla luce di quello che sta accadendo nel centrosinistra, per il centrodestra in questa fase continuo a vedere come migliore la via – che è all’insegna di un doveroso gradualismo – della federazione.

Per il centrodestra il problema della scelta del leader è oggettivamente diverso, in ragione del fatto che Berlusconi è il leader della Casa delle Libertà per due motivi. Innanzitutto, per la sua capacità, all’epoca, di dar vita ad un’alleanza che era meramente elettorale e che molti pensavano destinata a sfilacciarsi alla prima difficoltà. Basti pensare al cartello con la Lega del 1994 e alla capacità poi di farnascere dal nulla un partito, Forza Italia, che rimane pur sempre un grande partito italiano. Bisogna riconoscere che il leader della Casa delle Libertà, se non altro in ragione del suo carisma, ha una forte capacità di sintesi. Ma, a differenza di quello che accade all’interno del costituendo Partito Democratico, il punto di forza di Berlusconi è che continua a essere il leader indiscusso del maggior partito della coalizione, mentre all’interno del Partito Democratico è facile capire che, se Prodi è il leader del PD, è chiaro che automaticamente c’è una leadership di fatto nell’ambito del centrosinistra. Al tempo stesso, se ci dovesse essere un leader del Partito Democratico diverso dal presidente del Consiglio, si potrebbe mettere in moto un meccanismo di logoramento della figura del premier. Quindi, non avendo il centrodestra il problema di individuare un elemento di sintesi e un leader che non sia in qualche modo già portatore di un consenso diretto – e non derivante dalle primarie, ma derivante dallo score di consenso che ha Forza Italia – in questa fase mi convince di più la federazione: si identificano i valori comuni, si cerca di fare quello sforzo di sintesi culturale, che anche per il centrodestra è necessario. Infatti, se tu parli giustamente, dal tuo punto di vista, delle due grandi tradizioni riformiste del partito democratico, anche da noi c’è la necessità di dare valori di riferimento a segmenti del pensiero politico del secolo scorso, perché c’è all’interno della Casa delle Libertà una componente che potremmo definire di cultura «laico-liberal-socialista», c’è un segmento importante di consenso che potremmo attribuire alla tradizione dei cattolici impegnati in politica, quindi in qualche modo post democristiana, e c’è – parlo ovviamente di Alleanza Nazionale – un tentativo, anche premiato con un certo consenso, di dar vita ad una cultura che per comodità di linguaggio chiamo «nazionale», ma che è una cultura di destra che ha una sua progettualità, volta più a costruire il futuro che a giudicare il passato. Inoltre, come se non bastasse, c’è il tema delle forti identità regionali.

Quindi, se anche per noi è facile fare un programma in cui si dice «ridurre l’ICI», è molto più difficile, ma molto più importante, individuare quali sono i valori di riferimento, l’identità della coalizione. Per dirlo in altri termini: all’interno del centrosinistra è chiaro che questo percorso non può riguardare quella che chiamiamo la sinistra antagonista, perché in qualche modo si chiama fuori a priori. È vero anche che nel centrodestra la Lega è molto scettica e l’UDC – forse per ragioni più tattiche che altro – in questo momento si chiama fuori. Proprio per questo, la federazioneconsentirebbe di discutere dei valori comuni anche con coloro che, se accelerassimo verso la formazione di un partito unico, ci hanno già detto che declinerebbero l’invito. Quindi, bisogna individuare un sistema di valori, delle regole ben precise all’interno dell’eventuale federazione, regole di funzionamento della medesima, per sciogliere dei nodi quando ci sono, per capire come si individuano i candidati, per capire come si organizza questo nuovo soggetto. Ad esempio, l’opportunità o meno di mantenere, in una logica bipolare, una divisione dei gruppi, da quelli del consiglio comunale fino in parlamento, quando poi tutti i giorni, nove volte su dieci, si finisce per assumere posizioni comuni.

Tornando alla legge elettorale, voglio dire una cosa che può essere in qualche modo innovativa. È verissimo che il cosiddetto bipolarismo coatto, il ricatto dei più piccoli, finisce per essere una sorta di camicia di forza che rischia di strangolare e che rende tutto molto rigido. Ma un sistema bipolare elastico e non ricattabile, come dici tu, che cosa presuppone? Presuppone che ci sia un nucleo forte e poi, in qualche modo, un arcipelago attorno. È però innegabile che per far funzionare questo sistema è necessario entrare nell’ordine di idee di valutare una legge elettorale a doppio turno, perché questo può portare dei meccanismi di desistenza ecc. Il sistema francese, come sappiamo, funziona, da questo punto di vista. Anche se è difficile immaginare in Italia di avere una legge elettorale che impedisce a chi ha il 10% di andare all’Assemblea nazionale, come è avvenuto nel caso del Fronte Nazionale. Soprattutto se consideriamo che nel nostro paese è già complicato mettere un barrage al 2%. I francesi hanno congegnato un sistema bipolare che consente di costruire intese preventive. Ne deriva un bipolarismo sicuramente non influenzato da parte dei gruppi più piccoli, più radicali, ma la V Repubblica non si è posta il problema della rappresentatività dell’Assemblea nazionale, da cui è escluso un partito che ha il 10% dei voti. Inoltre – e questo ritengo che sia l’elemento dirimente – quello francese è un sistema che ha una legge elettorale a doppio turno, con i collegi, e quindi con il rapporto tra l’eletto e il suo territorio, ma dove l’elezione diretta del presidente della Repubblica, che è anche capo dell’esecutivo, porta ad un effettivo rafforzamento del potere esecutivo. Quindi, l’invito è a discutere – anche se abbiamo provato a farlo molte volte, senza grande successo – non di un singolo tassello, cioè quale sia il sistema elettorale migliore in un sistema bipolare, ma, poiché tutto si tiene, quale legge elettorale nell’ambito di quale riforma complessiva del sistema politico.

Qual è quindi il punto politicamente debole? È che non solo se non c’è una larga intesa parlamentare i tempi di approvazione della riforma elettorale e costituzionale diventano molto più lunghi e quin-di si crea in qualche modo il sospetto, legittimo da parte dell’opposizione, che questo sia un modo per tenere in vita l’attuale esecutivo, che oggettivamente è in difficoltà. Ma, come se non bastasse, il problema è che tutti i tentativi precedenti, per una ragione o per l’altra, si sono rivelati incapaci di arrivare in porto. Il problema è allora che oggi non c’è, se non la volontà politica, almeno la forza politica. E si torna al punto di partenza, che anche chi ne è consapevole deve poi fare i conti con alleati un po’ più riottosi, quegli stessi alleati riottosi che saranno però indispensabili tra qualche mese, alla prima elezione amministrativa o alle prossime elezioni più importanti.

Non si può quindi pensare che ci sia una separazione tra il momento in cui si discute delle riforme – il tavolo degli ottimati, la bicamerale, i migliori che, come se fossero dei filosofi, sono lì a congegnare un sistema più o meno perfetto – e la politica di tutti i giorni. Perché, in realtà, a decidere quale sistema adottare sono gli stessi leader politici che hanno il problema di tenere insieme coalizioni frastagliate, e guai se non riescono a tenerle insieme, perché nello stesso momento in cui non ci riescono consegnano all’altra coalizione una chance di vittoria. Quindi, il vero problema è come uscire da questa situazione. Più che una dichiarazione di impotenza, è una dichiarazione di onesta difficoltà.

Personalmente, ho firmato il referendum, e so benissimo che è una clava e non un bisturi, ma – e ci ho pensato a lungo – che cosa accadrà se il parlamento non riuscirà a fare una legge elettorale che possa dare una risposta a tutto questo? Se si farà il referendum – che si potrebbe caricare di effetti antipolitici, e su questo quindi bisognerà stare attenti – il giorno dopo ci potrebbe essere uno scenario del tutto diverso. E dovendosi giocare la partita in un campo diverso da quello attuale, certamente ci sarà maggior spazio per chi crede nel bipolarismo, per chi pensa a un bipolarismo elastico, non ricattabile, per chi privilegia un’identità di coalizione e non un’identità di nicchia. Questi soggetti potranno dire a quelli più refrattari, fortemente identitari, a quelli che si fanno forti del consenso di nicchia, che lo scenario è cambiato a causa del sì al referendum e che non si può più pensare di ragionare come se si fosse nello scenario precedente. C’è però il rischio che, nello scenario prodotto dal risultato referendario, i piccoli siano ancora più essenziali di prima. Ai fini della competizione tra le due liste, infatti, l’utilità marginale di ciascun partito minore è elevatissima da ambo le parti. Nel momento in cui il referendum dovesse passare e ci fosse quindi questo cambiamento radicale delle regole del gioco, potranno anche essere dispiaciuti coloro che vivono con rendite di posizione, ma dovranno scendere a patti. Dopodiché, tornando al punto di partenza, il problema è quello della leadership e di avere la forza di limitare le richieste dei partiti minori. Quindi, a mio parere, così come siamo messi, rischiamo di riempire ancora una volta intere biblioteche di considerazioni più o meno alate e poi di non riuscire a concretizzare assolutamente nulla. Quanto al fatto che il referendum si potrebbe caricare di una valenza antipolitica, se il parlamento è capace di dare una soluzione, il problema viene meno. Sarà invece un problema maggiore nel caso non ci dovesse riuscire. Oggi il referendum è infatti uno strumento previsto dalla Costituzione e ampiamente democratico, uno strumento che in qualche modo consente di dare una soluzione ai problemi che affronta. Osteggiarlo aprioristicamente non produrrebbe alcun risultato, ma farebbe invece aumentare il dissenso, perché i cittadini comincerebbero a pensare che la classe politica non sa fare la riforma, ma vuole impedirgli di fare quanto gli è permesso dalla Costituzione. E il sentimento antipolitico crescerebbe.

G.A. Io affronterei, come hai fatto tu, separatamente le due questioni degli ingredienti dell’identità prevalente nella coalizione e di un sistema elettorale che potrebbe aiutare questa identità a farsi largo. Non bisogna infatti dimenticare che i sistemi elettorali aiutano a conformare ma non conformano e quindi ciò che è responsabilità della politica non può essere affidato al sistema elettorale. Condivido profondamente quello che hai detto: la sintesi è comunque compito del ceto politico. Il nostro elettorato ha ormai – e questo è un dato positivo dell’esperienza di questi ultimi anni – un orientamento che può essere definito bipolare. Fortunatamente c’è anche un elettoratomobile, che dimostra che non ci sono paratie ideologiche impermeabili alla lezione dei fatti e che costituisce quello che è il necessario terreno competitivo tra il centrodestra e il centrosinistra. Al di là di questo comune sentimento di autoidentificazione col centrodestra o col centrosinistra ci sono gli interessi, le singole questioni che la politica deve dipanare e su cui è difficile, a fronte di una necessaria azione di governo, mantenere il consenso di coloro che genericamente si erano espressi a favore del governo stesso e che possono averlo fatto in parte perché a priori vicini politicamente, in parte perché convinti dalle proposte avanzate nel corso degli anni e dei mesi che precedono il confronto elettorale. A quel punto la sintesi sta, prima ancora che sulle technicality della soluzione dello specifico problema che può portare alla divaricazione, nella percezione che la soluzione proposta rifletta quell’equilibrio di valori che è poi la ragion d’essere di fondo dell’identità. Difficilmente si riuscirà a convincere qualcuno che si può continuare a lavorare fino a sessanta anni se non gli si fa chiaramente ed effettivamente percepire che questo serve a garantire una pensione ai suoi figli e ai suoi nipoti o ad assicurare agli stessi figli e nipoti che non dovranno sobbarcarsi l’onere di doverla pagare per sé, per i propri nonni e per i propri figli.

È però necessario mantenere permanentemente vivo questo tipo di equilibrio. Questa è la grande capacità che si chiede alla leadership politica, ossia di fare da liaison tra i valori di fondo che la legittimano e le soluzioni che propone. Serve una leadership che abbia il coraggio di orientare. Abbiamo percepito in più momenti della storia d’Italia che se questo avviene gli italiani rispondono all’appello. È quindi necessaria una leadership che non si vergogni di identificare e praticare un interesse nazionale e che sia quindi capace di correlare all’interesse comune gli interessi che di volta in volta fanno valere le loro ragioni. Perché se c’è una contrapposizione tra interessi particolari e se ne cerca il puro e semplice equilibrio, sarà difficile che ci sia qualcuno che fa arretrare il proprio davanti a quelli altrui. L’interesse comune – che anche quando parliamo di Europa è, in qualche modo, interesse nazionale – deve essere perciò nutrito insieme di elementi valoriali e di contenuti. Da questo punto di vista, la qualità delle classi dirigenti è assolutamente fondamentale. Non illudiamoci, in società complesse come le nostre, di costruire partiti che funzionano dicendo soltanto: «Se tutti partecipano il problema è risolto». Se lasciato a se stesso, questo approccio rischia di diventare facile populismo. La partecipazione di tutti deve presupporre la capacità di questi di esprimere delle élite capaci di identificare, di far sentire, di far valere gli interessi comuni. La nozione di classe dirigente è una nozione non rinunciabile. Il paradosso è che c’è carenza sia di classe diri-gente sia di partecipazione e questo determina il circuito negativo di cui è vittima la politica e che porta a parlare di crisi politica. Quanto meno i cittadini si sentono coinvolti da un ceto dirigente nel quale poco riconoscono la capacità di identificare interessi comuni, tanto più se la prendono con la politica.

G.F. Ma interroghiamoci anche su un altro punto: a che cosa è affidata oggi la selezione della classe dirigente?

G.A. Purtroppo non c’è nessuna risposta a questa domanda, e questo è un problema. Nessuno di noi vorrebbe tornare alle Frattocchie. Però il tema della formazione sul campo, anche con modalità specifiche, di una classe dirigente politica è un tema con cui dobbiamo confrontarci; probabilmente una classe dirigente selezionata in questo modo sarebbe anche capace di provocare una partecipazione migliore di quella che in tanti casi abbiamo. I partiti attualmente spendono non pochi soldi per fare delle grandi adunate nei palazzetti dello sport, in cui chiamano le rispettive tifoserie a eccitarsi contro gli avversari politici e a favore delle qualità retorico-sessuali di coloro che stanno parlando sul palco – e qui il primo che distingue tra destra e sinistra ha un occhio che io non posseggo. Ebbene, se solo una parte di quei soldi fosse spesa per organizzare degli incontri con i cittadini volti a discutere con loro le questioni, per dare loro informazioni di cui spesso mancano per inquadrarle e coglierne dimensioni e profili, e informarli, tanti dei nostri elettori si libererebbero dei pregiudizi generici in base ai quali si esprimono, ad esempio, nei rozzi sondaggi di oggi. Si farebbe così un’opera sacrosanta. Noi stessi, padri e nonni del Partito Democratico, che parliamo di primarie – ben vengano le primarie – dobbiamo riconoscere che le primarie possono diventare un po’ come l’8 marzo delle donne – anche se si prolungano un po’ più a lungo delle ventiquattr’ore dell’8 marzo – se tra un ciclo di primarie e l’altro non si lavora per cambiare i pregiudizi, per informare meglio e da ultimo per fare tesoro dei giudizi degli elettori. Tutte cose che non avvengono durante le grandi adunate nei palazzetti dello sport. Questo problema esiste ed è straordinariamente importante. Quindiio dico al futuro Partito Democratico che dopo le primarie è necessario individuare e attuare modalità di collegamento con gli elettori totalmente diverse da quelle che attualmente utilizziamo. Spero inoltre che le identità prevalenti individuate in questo modo siano poi identità che possono avvalersi di un bipolarismo elastico, perché su una serie di questioni, una volta che si è in parlamento, si possono trovare delle intese che, se necessarie, in nome dell’interesse nazionale, possono prescindere dal contributo specifico di ciascuno dei partiti delle due coalizioni. Non in chiave di maggioranze variabili, come questo argomento è stato presentato tempo fa, perché il parlamento non è un caleidoscopio e i cittadini hanno affidato comunque a una maggioranza la responsabilità di governo. Ma su specifiche questioni di largo interesse – ad esempio sul rifinanziamento della missione in Afghanistan, su cui l’attuale opposizione politica concorda in nome dell’interesse nazionale – ben venga un voto congiunto. Certo, se un’ipotesi del genere si presentasse quotidianamente e si dovesse fare l’interesse nazionale insieme tutti i giorni, dovrebbe intervenire il capo dello Stato perché vorrebbe dire che c’è qualcosa che non funziona. È però necessario che il sistema abbia questo margine di elasticità.

Tornando poi al tema elettorale, e a quello della forma di governo, a cui tu lo hai connesso, io sostenni anni fa che il sistema francese, nel quale il vertice dello Stato non è monista ma duale, con un presidente della Repubblica e un primo ministro, si adattava all’Italia. E per certo versi è indubbio che ciò è vero anche oggi, perché anche oggi le nostre due coalizioni si avvarrebbero per i loro interni equilibri delle due figure. Si tratta di un sistema indiscutibilmente migliore di una elezione diretta del primo ministro, che cancellerebbe il capo dello Stato e per ciò stesso creerebbe un forte squilibrio anche nei confronti del parlamento.

So bene, comunque, che il treno per cose del genere in Italia è passato anni addietro e fatico a vederlo oggi. Limitandomi al sistema elettorale, osservo che il doppio turno potrebbe anche essere accompagnato dalla variante Vedel, e cioè dal diritto di tribuna, che lascia uno spazio, anche al secondo turno, a chi non si coalizza. Questo è per comune convinzione il sistema più adatto per passare da una frammentazione iniziale ad un progressivo allineamento.

Dubito tuttavia che ci siano le forze per fare un’operazione del genere, e quindi penso, come te, che il massimo che si possa ottenere prima del referendum sia la correzione dei difetti più vistosi della legge attuale. Il problema è che non sono sicuro che si arrivi a correggere quello che secondo me è il difetto più evidente e che sopravvivrebbe allo stesso referendum: le liste dei candidati (quindi degli eletti) stabilite dai vertici dei partiti.

Per quanto riguarda lo svolgimento del referendum, al quale io stesso non mi sono opposto, penso anch’io che uno scossone possa far bene, sia che se ne prenda atto prima sia che se ne prenda atto dopo. E vedo anche una campagna referendaria assai aperta, perché chi chiederà il sì all’abrogazione della legge, lo chiederà in nome del potere del cittadino contro il potere dei partiti. Ma chi farà campagna per il no potrà far constatare agli elettori che, a seguito del referendum, i partiti, anziché scegliere ciascuno una sua lista, sceglieranno tutti insieme due listoni, col risultato di rendere il potere degli elettori ancora più problematico di prima. Può darsi che una campagna referendaria così possa comunque servire a quello che anche tu giustamente ritieni dovrebbe poi seguire, e cioè non una santificazione del risultato referendario, ma una presa d’atto degli stessi inconvenienti che esso genera che serva da sprone per le forze politiche affinché cambino finalmente la legge.

G.F. Sono d’accordo con la tua ultima affermazione e auspico che al referendum la contrapposizione sia tra i sostenitori del sì e quelli del no, e che non ci siano invece inviti a disertare le urne. Purtroppo, si tratta di un auspicio destinato a non trovare riscontro, perché è molto più agevole far leva sull’«andatevene al mare e disinteressatevi» piuttosto che argomentare il sì o il no. Come te ritengo però che, se il referendum si farà e se raggiungerà il quorum, non dovrà essere considerato il testo sacro e che il giorno dopo bisognerà cominciare a lavorare sulla base delle indicazioni del corpo elettorale, di cui il parlamento dovrà tenere conto. Una volta mutato il perimetro del campo di gioco, che non sarà più quello precedente, bisognerà ridefinire le regole di gioco.

Ritornando invece al sistema elettorale e facendo una valutazione relativa non alla realtà francese ma a quella italiana, alla luce anche del recente voto per le amministrative, non possiamo dimenticare che già oggi ci sono sistemi elettorali a doppio turno – per l’elezione del sindaco e del presidente della provincia – ma, a conferma di quello che dicevamo prima, sono sistemi a doppio turno che hanno come presupposto che la scelta di colui che è a capo dell’esecutivo non sia mediata dai partiti, attraverso mille meccanismi nell’aula consiliare, ma scaturisca dalla scelta diretta degli elettori.

Ecco perché non accetto l’accusa che ci viene rivolta, soprattutto adAN, di essere aprioristicamente contrari al doppio turno. Noi siamo invece convinti che il doppio turno possa essere una risposta. Quello dei comuni e delle province è risultato un sistema valido, tanto che molti dei problemi che avevamo prima della riforma oggi sono scomparsi; magari ne sono emersi di nuovi, ma non si può certamente dire che oggi, tra il primo cittadino e gli amministrati, non ci sia un rapporto molto stretto. Ciò è vero soprattutto nelle città medio-piccole, ma i casi di Roma e di Milano dimostrano che anche nelle metropoli si può creare lo stesso rapporto. Al di là di come si possano giudicare Albertini e Moratti, Veltroni e Rutelli, bisogna constatare che il loro rapporto con la città è molto più forte di quello dei sindaci eletti dal consiglio comunale e di quello che a volte si crea tra i membri del governo, il presidente del Consiglio e i cittadini. Penso in questo caso a Prodi, più che a Berlusconi.

Il mio modello rimane certamente quello francese, ma so che la sua applicazione in Italia è quasi impossibile. Ancora oggi mi rammarico per la sorte infausta della Commissione bicamerale, perché quella fu l’unica fase in cui fu compiuto uno sforzo vero di riforma del sistema in senso presidenzialista. Non c’è dubbio che se quella stagione costituente fosse arrivata a una riforma condivisa, probabilmente oggi saremmo in uno scenario diverso. Da allora è invalsa la tentazione di intestare alle coalizioni volontà riformatrici anche molto forti. Noi ci siamo presi l’onere di rifare tutta la seconda parte della Costituzione, salvo poi essere sconfessati dal corpo elettorale. Che senso ha oggi affidare al ceto politico delle due coalizioni, o addirittura al leader, il compito di fare il listone da presentare alle elezioni? Non sarebbe meglio affidare al corpo elettorale, attraverso l’elezione diretta, e con tutti i bilanciamenti necessari, la scelta di colui che poi esercita il potere esecutivo e, anche attraverso un meccanismo elettorale a doppio turno, costituire il parlamento che controlli e che giudichi le scelte dell’esecutivo? I sistemi per l’elezione del sindaco o del presidente della provincia o del cosiddetto governatore, ancora oggi, con i difetti che hanno, sono sistemi di gran lunga preferibili a quello che abbiamo per l’elezione del parlamento e per la formazione dell’esecutivo, perché l’indicazione del premier non è mai vincolante e la maggioranza può essere sostituita.

Anche senza affermare rigorosamente il principio simul stabunt, simul cadent, se vogliamo evitare il trasformismo dobbiamo fare delle urne e non dell’aula del parlamento il luogo in cui si esprime la sovranità e si indica quale debba essere la maggioranza di governo. Su questo punto bisognerebbe riflettesse anche la sinistra.

Per quanto riguarda poi l’interesse nazionale, questa è senza dubbio una questione importante. Su questo punto sono però un po’ piùottimista di te, perchè ricordo un periodo in cui questa opzione era pressoché impossibile, almeno per la mia parte, in ragione della presenza di discriminazioni preventive o addirittura per la mancanza di condivisione dei valori repubblicani di fondo. Da questo punto di vista un portato positivo della cosiddetta seconda Repubblica è che quel processo di pacificazione, di reciproco riconoscimento, si è compiuto. Non credo che sia impossibile, e nemmeno troppo difficile, su alcune grandi questioni di interesse nazionale, individuare tra l’identità prevalente del centrodestra e l’identità prevalente del centrosinistra – Partito Democratico – un momento in cui si riconosca l’esistenza di una esigenza di responsabilità nei confronti delle generazioni future e quindi un punto di contatto.

Questo ci riporta indietro, all’inizio di questa discussione, perché questa opzione dipende dalla possibilità di essere liberi dal condizionamento delle componenti più radicali delle coalizioni, che proprio perché radicali finiscono per anteporre un interesse legittimo, ma di parte, all’interesse nazionale.

Una ragione di ottimismo in più rispetto al passato anche recente è che, per fortuna, la fase post ideologica si è compiuta, anche se non è vero, come abbiamo detto, che questo ha portato tutti a ritenere l’altro un «avversario» e non un «nemico», perché alla base di alcuni permane, in qualche modo, una logica di demonizzazione. Verrebbe da chiedersi se forse noi italiani non siamo un po’ tutti tendenzialmente guelfi e ghibellini, forse è nel DNA del nostro popolo la logica del derby, del palio, la logica per la quale l’altro viene rispettato a parole, quando viene considerato un avversario e poi, appena si entra nell’agone politico, viene visto in una logica che non è quella del reciproco riconoscimento. In effetti, nella storia del nostro popolo, i momenti di vera unità sono meno di quelli di forte contrapposizione: non solo nel dopoguerra, ma anche prima. Del resto, noi siamo Stato-nazione dal 1860, quindi, in qualche modo, forse ce l’abbiamo proprio nel DNA la logica della bandiera, di parte. Quanto c’è, nell’immaginario collettivo del nostro popolo, il senso di appartenenza a una sola comunità? In parte c’è, per fortuna. Però poggia su un substrato di fortissime identità particolari, locali, antagoniste. Anche la politica in qualche modo subisce questo riflesso. Io però preferisco sottolineare l’aspetto ottimistico. Avendo vissuto la stagione degli anni di piombo posso dire che questo è forse uno dei pochi problemi risolti: ci consideriamo più avversari che nemici, siamo coscienti che solo in pochi settori la volontà di annullare l’identità altrui permane. È il beceroatteggiamento di chi criminalizza l’avversario. Ma c’è anche una tentazione meno becera e un po’ più sofisticata che bisogna bandire: il senso di superiorità. Un conto è partire dal dato relativo alla differenza, altro è, come a volte si sente fare, partire dal concetto di differenza presupponendo un senso di superiorità rispetto all’altro.

A questo affiancherei alcune considerazioni sulla leadership. L’espressione «leadership» è da intendersi nel suo senso letterale o in Italia è followship? Perché molte volte il leader rimane tale nel momento in cui ascolta e quindi segue l’umore della sua gente, ma rinuncia a qualsiasi funzione di tipo riformista o pedagogico. Senza soffermarsi a discutere della solitudine del leader, del ruolo dei gruppi dirigenti, del discorso già toccato di come si seleziona una classe dirigente, che non può avvenire solo per cooptazione, se si devono sottoporre preventivamente alcune scelte al giudizio altrui forse si mantiene salda la leadership, ma al prezzo di rimanere fermi, di non fare nulla di impopolare ma giusto.

Quando Prodi dice di non essere interessato alla popolarità, dice una cosa che denota la consapevolezza del fatto che il leader in qualche modo non è un megafono. Altrimenti sarebbe sufficiente, attraverso i sondaggi, ascoltare quello che gli altri dicono. Al tempo stesso, però, in un sistema così frammentato, se non si ascoltano tutti o se addirittura si decide di andare fino in fondo con le proprie scelte, il giorno dopo non c’è più la maggioranza.

Siamo quindi di fronte a due rischi: il rischio più grave è che a un certo punto si esploda, il rischio meno grave, in apparenza, è che tutto si tenga in piedi ma in una fase di stagnazione, che non so se sia meno grave di un’esplosione da cui, in qualche modo, poi può nascere qualcosa di diverso. Nessuno è un grado da solo di proporre una via d’uscita virtuosa e positiva. Noi del centrodestra ci provammo con la riforma della seconda parte della Costituzione, salvo poi essere smentiti dal corpo elettorale. Se anche oggi il centrosinistra fosse capace di trovare una sintesi al suo interno e facesse una riforma ambiziosa, magari anche efficiente, è chiaro che se poi quella riforma venisse sottoposta al referendum popolare in assenza del consenso parlamentare dell’opposizione, in un contesto politico in cui un’azione di governo ha indebolito la fiducia nel centrosinistra, accadrebbe esattamente ciò che è successo alla nostra riforma.

G.A. Due sole considerazioni conclusive: per quanto riguarda il sistema elettorale penso che, se registriamo come possibilità aperta quella di riparlarne dopo un eventuale voto referendario, abbiamo già rag-giunto un punto molto importante, perché io, su questo punto, viste le condizioni attuali, tendo a essere nelle previsioni più minimalista di quanto non sia negli auspici. Sul terreno che abbiamo visto essere comune, dell’affermazione dell’identità prevalente in ciascuna delle due coalizioni e della possibilità che questa si misuri da una parte con l’interesse nazionale percepibile, dall’altra con la riconduzione di interessi legati a questioni concrete con quel medesimo interesse nazionale, al di là di tutta la vicenda storica che ci rende più immaturi di altri nel cogliere questa correlazione, non c’è dubbio che hai ragione nel dire che il nostro Stato è più giovane di altri e non è mai stato interamente identificato dagli italiani con l’interesse nazionale. Questo è il punto che ci differenzia dagli altri grandi paesi europei dove lo Stato è stato visto come un momento di sintesi dell’interesse nazionale. Noi abbiamo avuto troppo a lungo una grande distanza tra élite e ceti popolari, ai limiti della diffidenza reciproca. Questo è un rapporto che stiamo rinnovando ora. Proprio per queste ragioni, tra le cose che le due identità prevalenti dovrebbero portare con sé vi è l’impegno a non corrodere mai questo tessuto che è in formazione in Italia e che connette gli interessi particolari al bene comune. Perché questo tessuto lo si può danneggiare sia stando al governo sia stando all’opposizione. Si tratta quindi della capacità non solo di governare, ma anche di fare opposizione in nome di una visione generale, e non limitandosi a difendere gli interessi particolari che i governi stanno toccando. Questo non solo è parte della costruzione di una democrazia compiuta, ma è anche qualcosa che le leadership dovrebbero considerare parte del proprio compito, quale che sia il ruolo che stanno giocando, sia esso di maggioranza sia di opposizione. Se arrivassimo ad avere identità prevalenti, come le abbiamo chiamate, che riescono a rafforzare questo tessuto connettivo nel paese, allora la nostra democrazia incompiuta cesserebbe finalmente di essere tale.