Per un dialogo costruttivo tra impresa e lavoro

Di Paolo Bonaretti Lunedì 14 Gennaio 2013 14:40 Stampa

Il ruolo fondamentale che ricopre il dialogo tra lavoro e impresa al fine di garantire un migliore e più equilibrato sviluppo del sistema economico è comprovato dal fatto che le realtà, sia nazionali che aziendali, in cui questo dialogo si dimostra più efficace sono proprio quelle che conseguono i risultati migliori in termini di benessere e competitività. Per dare efficacia alle politiche per la crescita è quindi necessario realizzare un contesto favorevole al dialogo, prima di tutto restituendo dignità e valore al lavoro e alle organizzazioni che lo rappresentano.

I paesi occidentali che hanno realizzato i migliori risultati in termini di benessere e competitività sono i medesimi in cui il dialogo tra lavoro e impresa e la partecipazione del lavoro allo sviluppo dell’economia sono solidi e permanenti. In tali paesi le relazioni sono strutturate in un quadro normativo e contrattuale ben definito. In tutti questi casi, nel medio periodo emerge con chiarezza il nesso positivo che esiste tra buone relazioni industriali e crescita dell’economia reale. Si tratta di un investimento continuativo, che necessita al tempo stesso di una forte volontà politica delle parti, ma anche di un contesto e di un quadro normativo e istituzionale che favoriscano l’avvio, l’innovazione costante e la manutenzione di questo processo. Le relazioni industriali non sono, dunque, un tema che possa essere affrontato nell’ottica dell’emergenza o della definizione una tantum di soluzioni che rispondano unicamente alla situazione in essere. Si tratta di processi continui e di interventi su dinamiche che assieme producono effetti e cambiano in un tempo non breve.

Per affrontare il tema del dialogo tra impresa e lavoro è però necessario partire semanticamente dalla consapevolezza che il lavoro e l’impresa sono due soggetti diversi e distinti che hanno interessi per lo più convergenti, ma che possono confliggere anche frequentemente. Va da sé che il rapporto tra economia reale e lavoro è profondo e sostanziale, ma sempre in una prospettiva dialettica. Anzi, molto spesso, i casi in cui le relazioni industriali e la partecipazione dei lavoratori sono migliori sono proprio quelli in cui la dimensione indentitaria del lavoro è più forte.

Le relazioni industriali come oggi le conosciamo, pur con tutti i mutamenti che si sono succeduti, sono state essenzialmente basate su una concezione industriale del lavoro e dell’impresa. I tentativi passati e presenti, prevalentemente ideologici, di una reductio ad unum dei termini di questa dialettica impoveriscono entrambi; il lavoro variabile indipendente e la centralità dell’impresa sono concetti e affermazioni che certamente appartengono al passato, ma che fanno parte di quelle incrostazioni culturali cui si ritorna immediatamente nel momento del conflitto. La crisi ha acceso la luce su una realtà nuova (per la verità, nuova solo in parte, visto che si è iniziata a costruire dagli anni Ottanta), su un cambio di paradigma. Non esiste più un unico regolatore, un elemento ordinatore di ultima istanza; lo Stato nazionale ha perso molte prerogative e certamente ha perso in diversi campi il “monopolio legittimo della forza”. E la finanza (libera dagli Stati) si è appropriata di fatto di strumenti regolatori attraverso i quali ha gestito risorse enormi, sottraendole all’economia reale e al lavoro, semplicemente prima aumentando a dismisura la ricchezza finanziaria, poi riversando sull’economia reale il costo degli effetti negativi.

Si è ormai generato un quadro di conflitto globale tra due impostazioni sostanzialmente opposte. La prima, un’economia finanziaria che crea valore semplicemente muovendo enormi masse di capitali e che vede l’economia reale (lavoro, imprese, Stati) al servizio del proprio interesse, dei cosiddetti “mercati”, che in realtà tali non sono. È uno schema in cui la crescita della ricchezza (di pochi) è accompagnata dalla riduzione costante dei diritti: del lavoro, delle persone e delle famiglie, ma anche delle imprese. Non vi è dubbio che questa impostazione sia quella che ha prevalso negli ultimi quindici anni in Italia. La seconda, l’economia reale, fondata essenzialmente su un impianto industriale, che vede necessariamente la crescita della ricchezza accompagnata dalla crescita dei diritti, dei sistemi di welfare, dell’equa distribuzione del reddito, in cui la condizione di benessere e coesione diviene anche la base per lo sviluppo dei consumi e degli investimenti, dei mercati di beni e servizi. È del tutto evidente che lo sviluppo dell’economia europea è fondato sul prevalere di questa traiettoria a livello globale.

Gli ultimi venti anni di costante prevalenza dell’“economia finanziaria” hanno generato ideologismi che, applicati, hanno avuto conseguenze nefaste, generato illusioni e spesso mostri. In Italia, abbiamo assistito a una costante riduzione degli investimenti produttivi (anche dopo l’ingresso dell’euro, che avrebbe dovuto favorirli), con uno spostamento di risorse verso mercati speculativi finanziari e immobiliari. Questo ha sottratto di fatto il principale terreno di incontro e mediazione tra impresa e lavoro, riducendo la base economica per il dialogo, con una diminuzione costante di valore aggiunto e produttività. Mentre in Italia la produttività rimaneva pressoché stagnante per almeno dieci anni fino al 2008, e decisamente negativa negli anni successivi, negli altri paesi industriali che investivano in tecnologia, ricerca e mercati, invece, aumentava mediamente del 15%. Oggi ci troviamo a perdere almeno venti punti di produzione industriale nel confronto con la Germania rispetto all’inizio del secolo. E non vale nemmeno la teoria secondo la quale la perdita di competitività dell’industria sarebbe stata compensata dalla crescita del terziario. La produttività dei servizi ha avuto, infatti, performances ancora peggiori dell’industria, con costante andamento negativo della produttività negli ultimi quindici anni. Questa situazione ha prodotto molti guasti nel rapporto tra impresa e lavoro. Il primo è stato il prevalere dell’idea che il lavoro sia sempre fungibile in ragione del costo, con una perdita del valore dello stesso. Una concezione esclusivamente quantitativa del lavoro, che non riconosce l’apporto che questo dà alla produzione e alla competitività e che vede i diritti esclusivamente come un ostacolo alle dinamiche dell’economia (finanziaria) di imprese. Il caso tipico in tal senso è quello della Fiat.

Fin dal suo insediamento Sergio Marchionne ha dichiarato in modo trasparente che il futuro della Fiat (e del mercato dell’auto) era nelle grandi aggregazioni del settore a livello internazionale. Da quel momento ha iniziato una serie di azioni tese ad aumentare il valore patrimoniale del gruppo, in previsione di accordi che avrebbero potuto contemplare scambi azionari. Operando su due fronti: riduzione dell’indebitamento, anche a spese degli investimenti, ed eliminazione dei vincoli contrattuali, “ripulendo” la Fiat da quelle “rigidità” che potevano renderla meno appetibile ai potenziali investitori. Il tutto anche a prezzo di ridurre i diritti del lavoro, fino a quello di rappresentanza sindacale. La crisi, con il crollo del mercato dell’auto, ha fatto saltare questo programma e Fiat si ritrova su un mercato sempre più selettivo senza nuovi modelli e senza programmi di innovazione. Fabbrica Italia ormai sembra sfumare, i diritti si sono ridotti, il sindacato si è spaccato e Fiat è uscita da Confindustria. Si sono indeboliti, cioè, i due pilastri identitari delle relazioni tra lavoro e impresa.

In questo caso, è stata gravissima la responsabilità dei governi di destra che, nell’illusione di sfruttare l’occasione per sotterrare definitivamente la sinistra, hanno assecondato in modo servile l’azione di Marchionne, dando un colpo durissimo alla prospettiva di un settore fondamentale e strategico per l’intera industria italiana. La presenza di un quadro istituzionale di politiche sociali stabili che favoriscano un positivo rapporto tra lavoro e impresa è una delle condizioni basilari per la crescita. La pervicacia e il livore con cui i governi Berlusconi e, in particolare, il ministro Sacconi hanno perseguito il disegno di frantumazione di ciò che rimaneva dell’unità sindacale hanno prodotto un grave danno al paese. L’unità almeno di azione e di prospettiva strategica del sindacato è un fondamento irrinunciabile per avere relazioni industriali positive e per gettare basi solide per gli investimenti e la competitività del paese. Un sindacato unitario (non necessariamente unico) è il necessario interlocutore per programmare scelte impegnative, di lungo periodo, per ristrutturare, per produrre efficienza, per migliorare; e questo vale sia per le imprese che per la pubblica amministrazione. La Germania e i paesi del Nord Europa ne sono una chiara conferma.

Operare una seria riforma della burocrazia o anche solo la spending review senza l’apporto dei lavoratori è una pia illusione. Le politiche per la crescita necessitano, dunque, della realizzazione di un contesto favorevole al dialogo, prima di tutto restituendo dignità, riconoscimento dell’identità e forza alle organizzazioni che rappresentano lavoro e impresa, con la richiesta di un’assunzione di chiare responsabilità, che è sempre necessaria, ma lo è ancora di più in questa fase di crisi. Il riconoscimento del valore del lavoro come soggetto collettivo è alla base delle buone relazioni tra impresa e lavoro. L’idea della fungibilità del lavoro e delle relative politiche di questi anni ha portato a una precarizzazione e a una malintesa flessibilità fondata sul rapporto di lavoro individuale. Gli effetti sociali sono stati disastrosi e quelli economici distorsivi e devastanti. Si è smesso di investire sulla qualità e sull’organizzazione del lavoro, riducendone al tempo stesso il costo, nel tentativo fallace di aumentare la competitività. Il risultato è stato la progressiva perdita di produttività e qualità e la mortificazione del lavoro. Le imprese che hanno percorso questa strada sono oggi in difficoltà. La controprova sono le imprese manifatturiere che sono competitive sui mercati internazionali: buone relazioni industriali e crescita di qualità (e stabilità) del lavoro sono state le condizioni su cui queste imprese hanno potuto investire in conoscenza, tecnologia e nuovi mercati. Oggi sono imprese cresciute in competitività e che realizzano ottimi bilanci.

Il contrasto alla precarizzazione e alla perdita di qualità del lavoro passa attraverso una politica molto incisiva di superamento delle diversità e delle condizioni economiche e normative rispetto al lavoro stabile. La riforma Fornero affronta solo in piccola parte questo tema. La rappresentanza unica del lavoro stabile e precario può aiutare questo processo. Le aziende, specie terziarie, dove questo è avvenuto sono riuscite a ottenere miglioramenti apprezzabili in termini di organizzazione del lavoro e produttività, spesso anche con una fattiva solidarietà dei lavoratori strutturati, che ha permesso poi nel tempo la stabilizzazione dei precari.

Non è pensabile però che il dialogo si riduca unicamente al rapporto tra impresa e lavoro. Le istituzioni, sia lo Stato centrale che quelle territoriali, hanno un’importanza cruciale nel favorire e creare le condizioni, ma anche nell’essere protagonisti del dialogo. Il mix di politiche fiscali e regolatorie, incentivanti e sanzionatorie, costituisce un potente strumento di intervento nel campo. È evidente che il peso abnorme del “cuneo fiscale”, del rapporto tra costo del lavoro e salario reale, toglie spazio al confronto e al dialogo tra le parti e, soprattutto, riduce i margini per una positiva contrattazione sulla produttività. Così come la defiscalizzazione degli straordinari incentiva soluzioni unilaterali e individuali, costituendo di fatto un ostacolo alla flessibilità negoziata, l’intervento si concentra su soluzioni temporanee, penalizzando di fatto operazioni di riorganizzazione e investimento necessarie per i veri incrementi di produttività stabili e duraturi.

La legislazione sul lavoro deve poi rapidamente entrare nel merito delle questioni della rappresentatività e dei diritti di rappresentanza, così come delle condizioni ambientali di lavoro. Sono temi che non possono essere unicamente lasciati alla contrattazione, ma che invece possono offrire un quadro di regole certe all’interno delle quali tutti gli attori si riconoscono.

Le politiche incentivanti possono essere strumenti molto rilevanti nel determinare specifici obiettivi, in cui il dialogo ricerca-impresa può essere importante e supportato. Se è vero che per raggiungere l’obiettivo del 3% in ricerca sul PIL avremo la necessità di introdurre almeno 200.000 nuovi ricercatori nel solo settore privato nei prossimi dieci anni, allora è evidente che una politica di credito di imposta sulle assunzioni di queste figure diventa determinante. Il combinato disposto dalla crisi e dalla riforma pensionistica Fornero ha ritardato di tre-quattro anni i nuovi ingressi nel mercato del lavoro. Gli effetti sono devastanti sul piano sociale, con percentuali insopportabili di disoccupazione. Al tempo stesso, in una buona parte delle imprese si rischia di non introdurre per lungo tempo nuove competenze, penalizzando innovazione e competitività. Inoltre, le iscrizioni ai corsi universitari sono diminuite (oltre 15.000 studenti in meno), certamente per le condizioni economiche, ma anche per un calo delle aspettative sul futuro. La questione giovanile, e in particolare il lavoro ad alta qualificazione, può essere dunque immediatamente un terreno di relazione positiva tra lavoro-impresa e Stato, con una attuazione nei territori e nei luoghi di lavoro e una negoziazione che al tempo stesso realizzi innovazione e incrementi di produttività, attraverso investimenti in capitale umano e meccanismi di solidarietà tra lavoratori vecchi e nuovi.

Oggi la priorità è il rilancio del ciclo investimenti- competitività-lavoro. È evidente, perciò, che il dialogo tra lavoro e impresa, per favorire gli investimenti in tecnologia, capitale umano e nuovi mercati, diviene un punto dirimente. Lo Stato può anche in questo caso favorire il dialogo attraverso la defiscalizzazione degli utili reinvestiti o di una quota degli investimenti stessi, promuovendo quello che è uno dei terreni d’elezione del rapporto lavoro-impresa: la continuità, la crescita dimensionale e competitiva dell’impresa, la qualità e la remunerazione del lavoro, ma soprattutto una partecipazione nuova del lavoro nelle scelte dell’impresa e nella loro gestione. Del resto, la maggior tenuta delle cooperative, in termini sia occupazionali che produttivi, è dovuta, tra l’altro, proprio alla patrimonializzazione “obbligata” attraverso la non redistribuzione degli utili. Lo sviluppo di strumenti mutualistici, sia nell’impresa che sul territorio o negli specifici settori, favorisce l’apertura di nuovi spazi di dialogo tra lavoro e impresa, sia nelle condizioni integrative di welfare, sicurezza sociale, della casa e della previdenza sia nel campo della formazione e dello sviluppo del capitale umano.

Le stesse politiche industriali possono essere uno strumento per il dialogo, che, d’altra parte, costituisce un necessario presupposto alla loro realizzazione. Una politica industriale “integralmente ecologica” è la prima e più rilevante di queste scelte. L’obiettivo è trasformarsi nel paese più competitivo nel campo dei prodotti e servizi a minor consumo energetico e a minor utilizzo di materie prime, con maggior riutilizzo di prodotti a fine vita e con il sistema logistico e organizzativo a minor impatto ambientale. Si tratta di sviluppare prodotti e servizi innovativi in tutti i settori che, in un mercato globale sempre più attento alle sfide ambientali, ci rendano un punto di riferimento in questo campo. Questa sfida può essere raccolta solo con lo sviluppo di nuove professioni in campo tecnologico e ambientale, attraverso una modifica delle tecnologie e dei cicli produttivi che necessariamente deve innescare processi di riorganizzazione e investimenti in cui il dialogo tra lavoro e impresa è necessario, utile sia per l’aumento di competitività che per la creazione di green jobs. Anche in questo caso le politiche regolatorie e della domanda pubblica possono favorire le condizioni per rendere possibile tale confronto.

Infine, in un rafforzato dialogo tra impresa e lavoro la responsabilità sociale diviene un terreno di confronto che coinvolge anche le istituzioni. Si tratta di un campo nuovo, dove possono svilupparsi nuovi temi di convergenza, ma al tempo stesso difficile e molto complesso sul piano sia etico che istituzionale. Un campo nuovo rispetto al quale il caso Ilva interroga tutti noi profondamente, chiamandoci alla necessità di cambiare radicalmente le politiche e i comportamenti degli ultimi vent’anni nelle relazioni tra lavoro-impresa e istituzioni.