Un tentativo di aggregazione regionale nell'Africa australe. La Southern African Development Communi

Di Luca Bussotti Domenica 02 Marzo 2008 20:58 Stampa

Un’origine «difensiva» Come sovente avviene, le basi fondative delle aggregazioni di tipo regionale devono essere ricercate in motivi prevalentemente difensivi. Così, in parte, è stato per la Comunità europea, oggi trasformatasi in Unione, nata con l’iniziale obiettivo di realizzare un’area di pace e stabilità in un continente da poco uscito dal conflitto mondiale. E così è stato, circa trent’anni più tardi, per la prima organizzazione comunitaria il cui scopo era riunire i principali paesi dell’Africa australe. Il primo aprile del 1980, a Lusaka (Zambia), nove paesi di questa importante regione dell’Africa (Angola, Botswana, Lesotho, Malawi, Mozambico, Swaziland, Tanzania, Zambia e Zimbabwe) hanno dato vita alla Southern African Development Co-ordination Conference (SADCC). Tra questi non c’era il Sudafrica (allora e sino al 1994 stretto nella morsa dell’apartheid), un attore geopolitico di fondamentale importanza per minare i deboli equilibri interni di paesi che erano usciti da poco da decenni di più o meno dura colonizzazione.

Un’origine «difensiva» Come sovente avviene, le basi fondative delle aggregazioni di tipo regionale devono essere ricercate in motivi prevalentemente difensivi. Così, in parte, è stato per la Comunità europea, oggi trasformatasi in Unione, nata con l’iniziale obiettivo di realizzare un’area di pace e stabilità in un continente da poco uscito dal conflitto mondiale. E così è stato, circa trent’anni più tardi, per la prima organizzazione comunitaria il cui scopo era riunire i principali paesi dell’Africa australe. Il primo aprile del 1980, a Lusaka (Zambia), nove paesi di questa importante regione dell’Africa (Angola, Botswana, Lesotho, Malawi, Mozambico, Swaziland, Tanzania, Zambia e Zimbabwe) hanno dato vita alla Southern African Development Co-ordination Conference (SADCC). Tra questi non c’era il Sudafrica (allora e sino al 1994 stretto nella morsa dell’apartheid), un attore geopolitico di fondamentale importanza per minare i deboli equilibri interni di paesi che erano usciti da poco da decenni di più o meno dura colonizzazione.

Anche a livello di politica internazionale lo scenario era soltanto apparentemente favorevole agli Stati dell’Africa australe. Se è vero, infatti, che la comunità internazionale da diverso tempo (la prima indipendenza africana del post-colonialismo è del 1956, e si riferisce al Ghana) spingeva formalmente affinché si completasse il processo di autonomia politica, è altrettanto certo che altri due fattori agirono sin dall’inizio in senso negativo e contrario a tale direzione. In primo luogo, a livello economico, gli Stati occidentali – attraverso multinazionali o, più raramente, in via diretta – erano penetrati ancora più a fondo, svuotando il contenuto e l’essenza delle raggiunte indipendenze politiche e giungendo a controllare le più preziose fonti di ricchezza presenti in ognuno di quei territori.

Il tutto in una fase storica di particolare difficoltà, quella cioè appena successiva ai due shock petroliferi del 1973 e del 1979, che avevano piegato le già fragili economie dei paesi in questione, quasi tutti importatori netti di energia. Ciò è avvenuto sia per realtà ricche di materie prime, sia per territori francamente molto meno appetibili. Nel primo caso, ci si riferisce soprattutto all’Angola, ricco di giacimenti d’oro, diamanti e petrolio. Nel 2005 in questo paese, al largo della costa della provincia di Cabinda (il cosiddetto «Bloco Zero») è cominciata una produzione imponente di greggio, controllata dalla Chevron-Texaco. Il secondo caso è rappresentato dal Mozambico, dove ancora oggi la centrale idroelettrica di Cahora Bassa, la più importante di tutta la regione australe, è controllata per l’82% dal Portogallo e dallo Zimbabwe, e che alla fine del 2004 ha firmato contratti con la China’s National Aero- Technology Import e la China Electric Technology Import and Export Corporation per potenziare la produzione di gas, e con l’Iran per la costruzione di un impianto aggiuntivo, sempre destinato all’estrazione di gas naturale.

In secondo luogo, la situazione politica contingente aveva aggravato ulteriormente, proprio all’inizio degli anni Ottanta, tale scenario. Il blocco atlantico conservatore formato da Stati Uniti e Gran Bretagna, infatti, rappresentava un punto di riferimento essenziale per la vera potenza egemone nell’Africa australe: il Sudafrica. Col tacito appoggio di questi due paesi il Sudafrica, oltre a non cedere rispetto al regime interno di stampo razzista, costituiva un pericolo costante per il consolidamento dell’indipendenza dei paesi vicini. Si pensi, ancora una volta, soprattutto alle due ex colonie portoghesi, non a caso le uniche che tentarono di optare per un’ideologia marxista. In Angola, il Sudafrica foraggiava – coi due citati alleati occidentali – la lotta di Savimbi, capo dell’UNITA, che control lava buona parte delle più importanti riserve di oro e diamanti del paese. In Mozambico, anche a causa di dissidi intestini, si era invece consolidata la posizione della RENAMO, capeggiata da Dhlakama, che scatenerà una guerra civile le cui conseguenze furono circa un milione e duecentomila morti, un’economia completamente distrutta e, conseguentemente, una forzosa adesione (1986-87) alle politiche di aggiustamento strutturale e la «conversione» verso il liberalismo e il pluripartitismo.[1] Anche per gli Stati circonvicini la situazione non era molto migliore: la Namibia, ad esempio, era stata per anni invasa militarmente dal Sudafrica, a dispetto di qualsiasi regola del diritto internazionale.

Si può allora meglio comprendere la ragione per la quale si è detto all’inizio che la fondazione della SADCC ha avuto un carattere essenzialmente difensivo, come dimostrano gli obiettivi iniziali dell’allora Conferenza. Essi, infatti, sebbene si propongano fra l’altro «la preparazione di un piano di emergenza alimentare per la regione» e «piani di armonizzazione delle politiche energetiche e di industrializzazione»[2] hanno però come ispirazione di fondo la riduzione della dipendenza degli Stati membri dall’influenza del Sudafrica attraverso la mobilizzazione di risorse in grado di incoraggiare forme di sviluppo incentrate sulla self-reliance e il rafforzamento della comune esigenza di sicurezza internazionale. I due temi all’ordine del giorno sono, quindi, la difesa dei rispettivi territori e «la lotta per la liberazione economica, la giustizia e la pace nell’Africa meridionale».[3] Uno dei settori strategici divenne da subito la politica dei trasporti, ritenuta essenziale per garantire e sviluppare i collegamenti intraregionali: non a caso la costituzione della Convention for the Southern African Transport and Communications (SATCC) è uno dei primi atti formali che vengono compiuti (1981). Allo stesso tempo, si è stabilito un quadro di riferimento istituzionale, in grado di far funzionare la neonata SADCC. Nel relativo

Memorandum of understanding vengono definite le istituzioni che governeranno la Conferenza: il Summit (la riunione dei capi di Stato o di governo che si riunisce con cadenza almeno annuale e che fornisce le indicazioni strategiche del comune impegno); il Consiglio dei ministri, la Commissione e lo Standing Committee of Officials quali organismi intermedi; il Segretariato, con funzioni più esecutive.

Quest’ultimo, oltre a creare le condizioni affinché possano realizzarsi i progetti elaborati dagli organi intermedi su impulso del Summit, è responsabile dell’elaborazione dell’Annual Progress Report on the SADCC Programme of Action.

Se la «liberazione economica» rappresenta uno dei due pilastri dell’attività della Conferenza, la principale – e per certi versi contraddittoria ma anche inevitabile – modalità per raggiungere tale obiettivo è il ricorso ai donatori internazionali. Vengono così sviluppati rapporti preferenziali con alcune aree e aggregazioni regionali ritenute particolarmente vicine agli interessi e agli obiettivi della SADCC: oltre a una stabile relazione con l’Organizzazione per l’unità africana (OUA) e con le Nazioni Unite, i filoni privilegiati sono quelli con i paesi dell’Europa del Nord (formalizzati nella Nordic/SADCC Initiative) e con l’Unione europea nel suo complesso (il primo programma di cooperazione fra le due strutture – denominato EUSADC Investment Promotion Programme (ESIPP) è stato lanciato nel 1994, ed è stato poi rinnovato nel 2000 e nel 2006). Tuttavia, lungo l’intero arco degli anni Ottanta – ossia, grosso modo, nei primi dieci anni di vita – la Conferenza ha stentato a mettere in pratica i progetti approvati, con una situazione complessiva ulteriormente aggravata, oltre che dall’azione di destabilizzazione del Sudafrica, anche dalla siccità che, in particolari annate, ha raggiunto livelli in precedenza sconosciuti. È quanto avvenuto nel 1982-83, stagione definita come «una delle peggiori siccità a memoria d’uomo», con un fabbisogno economico per far fronte alle necessità alimentari calcolato intorno ai 230 milioni di dollari. «Per molti Stati membri – si è concluso nel Summit di Maputo[4] – questa è la peggiore crisi di questo genere che hanno dovuto affrontare dall’indipendenza». Da allora in poi, al fine di fronteggiare tale situazione, non sono più cessati gli appelli alla comunità internazionale – e particolarmente agli Stati alleati del Sudafrica – finalizzati a ritirare l’appoggio all’apartheid, peraltro in contraddizione col parallelo atteggiamento teso ad approfondire e migliorare i rapporti con la stessa SADCC.

Come è noto, il sostegno al regime razzista sudafricano da parte di alcune potenze occidentali non si attenuerà. Anzi, la SADCC dovrà continuare a confrontarsi, per lo più in modo impotente e attraverso generici appelli alla sensibilità internazionale, con tale situazione, che porta, quali conseguenze, l’aggravamento della tensione in alcuni degli Stati membri: Angola, Mozambico e Namibia in particolare, ma anche, ad intervalli regolari, Botswana, Lesotho, Swaziland e Zimbabwe. Più concretamente si era cercato, quale indicazione generale, di ridurre la dipendenza dal Sudafrica, soprattutto nel critico ambito dei trasporti e delle comunicazioni. Ma lo scenario politico internazionale, ancora alla metà degli anni Ottanta, non dava segnali di miglioramento. Tanto per citare un esempio, l’ottimo risultato ottenuto con le Nazioni Unite, che avevano formalizzato un piano di assistenza alla SADCC, venne immediatamente sminuito a causa dell’esclusione di due paesi membri dall’iniziativa: si tratta naturalmente di Angola e Mozambico, equiparati a Stati terroristici in quanto guidati da governi ancora di matrice marxista, e nel pieno di furiose lotte intestine.[5]

Il quadro appena descritto vide una notevole accelerazione verso l’inizio degli anni Novanta. Nel 1992 la Namibia era ormai uno Stato indipendente, il Mozambico aveva appena firmato gli accordi di pace a Roma, l’Angola sembrava vicino a compiere lo stesso passo (prospettiva, quest’ultima, che non si concretizzerà), mentre anche in Sudafrica il regime razzista sembrava esaurire rapidamente la sua funzione destabilizzante: una simile azione stabilizzatrice era parallelamente svolta dalla guerra fredda. Insomma, la situazione regionale appariva decisamente migliore rispetto ad appena pochi anni prima. Di conseguenza, anche sul piano economico, il ritmo di crescita cominciava a dare segnali incoraggianti. Nel 1988 il tasso di crescita aveva fatto segnare un +4,5%, dopo circa un decennio di enormi difficoltà. Tuttavia, anche se gran parte del merito di tale risultato viene attribuito alla politica di aggiustamento strutturale che molti paesi stavano in quegli anni adottando, appena due anni dopo, al vertice di Gaborne (Botswana) del 1990, una simile strategia venne valutata, oltre che nei suoi aspetti positivi, anche in quelli più preoccupanti: «Il processo di aggiustamento economico – venne affermato in quella occasione – ha anche causato gravi problemi sociali e il deterioramento delle infrastrutture socioeconomiche ».[6] Ancora una volta, il vertice si concluse con un appello alla comunità internazionale, affinché questa fornisse il massimo dell’aiuto possibile, non abbandonando a se stessa la regione australe dell’Africa.

Le trasformazioni internazionali verificatesi nei primi anni Novanta hanno portano ad un cambiamento storico dell’organizzazione. Il 17 agosto 1992, a Windhoek (Namibia), nasceva infatti una nuova formazione associativa tra gli Stati membri della SADCC: si tratta della Southern African Development Community (SADC), i cui obiettivi fondamentali sono quello di cercare un accordo per firmare una serie di protocolli su specifiche aree dell’integrazione regionale e quello di dare priorità alla partecipazione popolare. L’accento è posto, tuttavia, essenzialmente sulla necessità di procedere effettivamente ad un’unione doganale ed economica dei paesi membri, al fine di sfruttare al massimo le comuni potenzialità territoriali in forma aggregata. Se l’obiettivo finale era «costituire un nuovo ordine economico in Sudafrica basato sull’equilibrio, la giustizia e il vantaggio reciproco», il primo passo avrebbe dovuto essere «la progressiva rimozione di tutte le barriere alla circolazione di capitali, beni e servizi», mentre il presupposto essenziale dovrà essere rappresentato da «intese per la pace e la sicurezza nella regione».[7] Il tutto era stato preceduto da un altro evento non meno significativo nella geopolitica africana: nel 1991 alcuni capi di Stato e di governo avevano firmato un importantissimo trattato, con cui si istituiva l’African Economic Community (AEC), uno dei cui indirizzi strategici fondamentali era stato l’invito a sviluppare aggregazioni regionali all’interno del continente. Un po’ come stava avvenendo in Europa negli stessi anni, anche l’Africa scopriva la necessità di costituire un grande mercato regionale, capace di portare benefici diffusi su tutto il territorio. Da questo momento e con simili presupposti, la struttura istituzionale cambierà, perfezionandosi, così come l’attività e la stessa identità regionale subiranno una decisa accelerazione. Per quel che riguarda il primo aspetto, due sono gli elementi da ricordare: le adesioni si sono moltiplicate, a partire da quella del Sudafrica (1994), dando vita ad una SADC a quattordici Stati e composta da Angola, Botswana, Repubblica Democratica del Congo, Lesotho, Malawi, Mauritius, Mozambico, Namibia, Seychelles, Sudafrica, Swaziland, Tanzania, Zambia e Zimbabwe. Hanno chiesto l’adesione, recentemente, anche il Madagascar e l’Uganda. L’attuale assetto istituzionale prevede la seguente organizzazione: a) il Summit, costituito da capi di Stato o di governo, che si riunisce almeno due volte all’anno e che decide sulle linee strategiche dell’organizzazione, è presieduto dal capo di Stato di uno dei paesi membri, la cui carica ha durata annuale; b) la Troika, formalizzata dal vertice di Maputo del 1999, è composta dal presidente della SADC in carica, da quello entrante e da quello uscente (ed eventualmente da altri membri, qualora ritenuti necessari) e si riunisce tra i due Summit annuali, cercando di realizzarne le principali indicazioni; c) l’Organ on Politics, Defence and Security, istituito al vertice del novembre 2000 tenutosi in Zimbabwe, la cui attività è regolata dal relativo protocollo; d) il Consiglio dei ministri, solitamente formato dai ministri degli affari esteri o della pianificazione economica e delle finanze, che ha un compito di supervisione sullo sviluppo della SADC e che deve riunirsi a cadenza trimestrale; e) il Comitato integrato dei ministri, un livello istituzionale nuovo rispetto a quelli previsti dalla SADCC, composto da almeno due ministri per ogni Stato membro, e che ha il compito di coordinare e armonizzare le attività transettoriali; da esso dovrebbero emergere le proposte operative da sottoporre all’attenzione tecnica del Segretariato; f ) il Tribunale, per la cui costituzione è stato firmato un Protocollo nel 2000 in Namibia, il cui ruolo è garantire l’autentica interpretazione del Trattato istitutivo della SADC, giudicando su eventuali dispute tra i paesi membri; g) lo Standing Committee of Senior Officials, con funzioni di consulenza tecnica per il Consiglio; h) infine, il Segretariato, la principale istituzione esecutiva, guidata dal segretario esecutivo e sito a Gaborone (Botswana).

Dal punto di vista funzionale, la nuova SADC basa la propria attività sul SADC Programme of Action (SPA), che viene aggiornato annualmente. Gli assi prioritari di intervento della SADC sono costituiti da tre nuclei: Food, Agriculture and Natural Resources (FANR), Trade, Industry, Finance and Investment (TIFI), Infrastructure and Services (I&S), a cui si è aggiunta la lotta all’AIDS e, in generale, le politiche relative alla salute, nonché quelle inerenti alla parità di genere (con l’obiettivo di raggiungere il 30% di presenze femminili nei rispettivi governi e parlamenti).

Per quanto concerne le scelte strategiche e l’identità regionale, è evidente che l’origine della SADC, a differenza della sua progenitrice SADCC, non è prevalentemente difensiva. Finita la guerra fredda e la tensione internazionale che così tante ripercussioni hanno avuto nell’area dell’Africa australe, la nuova identità comunitaria intende ora basarsi su uno sviluppo collettivo, equilibrato ma ben sostenuto, forte di alcuni caratteri potenzialmente molto interessanti: un mercato di circa 210 milioni di persone, una crescita del prodotto lordo globale degli Stati membri in costante crescita, una situazione invidiabile in termini di sicurezza, con un solo, grosso focolaio di conflitto, l’Angola (a cui si aggiungeranno in seguito ma spesso episodicamente, Congo, Lesotho, Zimbabwe), che soltanto molto di recente ha trovato una definitiva soluzione, con la morte di Savimbi e lo scioglimento dell’UNITA. Insomma, con gli anni Novanta e la costituzione della SADC è sembrato si potesse raggiungere quell’obiettivo generale di sviluppo comunitario e integrato dei territori dell’Africa australe, che così tanti ostacoli aveva incontrato nel corso degli anni Ottanta. Nuove sfide attendevano quindi la SADC, a partire dalla differente collocazione internazionale seguita all’esaurimento della fase di tensione tra i due grandi blocchi usciti dalla seconda guerra mondiale, fino a quella legata ad un più equo sviluppo sul piano interno.

 

Un nuovo spazio nella politica internazionale? Il punto di svolta definitivo per la collocazione internazionale della SADC è senza dubbio il 1994, l’anno della fine del regime razzista sudafricano e dell’entrata di quel paese all’interno dell’organizzazione. Come ben si può comprendere, il Sudafrica divenne immediatamente il leader incontrastato, al di là delle formalità diplomatiche, dell’area. I dati a supporto a tale affermazione sono numerosissimi. Basti qui ricordarne soltanto alcuni, rimandando ad un testo, il «Rapporto sullo sviluppo umano del 2000», che li contiene un po’ tutti.[8] All’inizio del secolo il Sudafrica aveva un reddito medio pro capite di 3.400 dollari all’anno. A parte i casi del tutto particolari delle Mauritius e delle Seychelles (rispettivamente 3.866 e 5.350) e, in parte, del Botswana (3.021), tutti gli altri paesi rivelavano una situazione assai diversa. I due più ricchi erano la Namibia (1.791) e lo Swaziland (1.210), ma anch’essi rappresentavano casi molto particolari, in quanto del tutto dipendenti dall’influenza del Sudafrica. In realtà, il paragone dovrebbe essere fatto con altri paesi, quali Tanzania, Mozambico, Malawi, Zambia, il cui PIL pro capite si attestava rispettivamente a 275, 206, 164 e 381 dollari all’anno. Se prendiamo il dato complessivo – ovvero il PIL globale per paese – la differenza è ancora più accentuata: il Sudafrica si attesta su quasi 134 milioni di dollari; il secondo paese era la Tanziania, ferma a neanche 9 milioni. In termini di bilancia commerciale il Sudafrica partecipava per il 46,1% alle esportazioni complessive dell’area, e per il 69,2% alle importazioni. Del tutto condivisibile, quindi, l’osservazione secondo cui «la preminenza del Sudafrica ha creato un rapporto di dipendenza fra il Sudafrica e il resto della regione».[9] Il primo problema che la nuova SADC si è trovata ad affrontare era la disparità di sviluppo tra lo Stato trainante e tutte le altre entità territoriali: una situazione che non aveva eguali in nessuna delle altre aggregazioni regionali, dall’UE al Mercosur, dal COMESA (Common Market for Eastern and Southern African States) all’IOC (Indian Ocean Council) al CEPGL (Economic Community of the Great Lakes Countries). Certo, ognuna delle suddette aggregazioni regionali aveva un suo motore, tuttavia in nessuna circostanza la differenza tra lo Stato leader e gli altri era così abissale come per la SADC.

Il secondo aspetto riguarda il rapporto col resto dell’Africa. In questo senso, la presenza del Sudafrica costituisce un indubbio aiuto, poiché questo sta dando stabilità e credibilità alla SADC come area economica regionale dalle grandi potenzialità, non ancora del tutto espresse. Se è vero che l’organizzazione è nata con lo specifico obiettivo di rappresentare uno dei più importanti blocchi geopolitici del continente, secondo un chiaro spirito panafricanista, è altrettanto certo che la prospettiva di una reale unità africana, sullo stile del modello europeo, è ancora ben lungi dal venire. Viceversa, la SADC ha già cominciato ad acquisire una sua identità autonoma e, dalla metà degli anni Novanta, a compiere investimenti significativi nei settori nevralgici di comune interesse per i paesi membri. Ciò è tanto più vero se si pensa che la regione, con la raggiunta pace in Angola e la difficile ma auspicabilmente definitiva transizione del Congo, anche dal punto di vista della stabilità sta raggiungendo livelli invidiabili. Non a caso, una delle prime mosse della nuova organizzazione è stata la costituzione del SADC Organ for Politics, Defense and Security, i cui obiettivi sono principalmente quello di garantire protezione e sicurezza ai cittadini della regione e di svolgere un ruolo di «mediazione nelle dispute e nei conflitti fra Stati» attraverso l’uso della «diploma zia preventiva» e «lo sviluppo di istituzioni democratiche»;[10] il tutto in modo sempre più autonomo dalla comunità internazionale e dalle grandi potenze mondiali. La prospettiva più probabile è quindi quella di una SADC sempre più unita, sotto l’egemonia del Sudafrica e, in parte, dell’Angola, col rischio tuttavia di una crescente distanza rispetto alla maggioranza del continente e del conseguente aggancio di quest’area a quelle a maggiore sviluppo del continente africano, quali Nigeria e Maghreb, secondo un tipico modello a macchia di leopardo, che stabilisce relazioni tra i territori più avanzati, lasciando ai margini tutti gli altri. In questo senso, non mancano le voci critiche. Una fra tutte, quella di Blade Nzimande, segretario generale del Partito comunista sudafricano, il quale ritiene che la fine dell’apartheid e l’entrata del Sudafrica nella SADC abbia forse limitato la presenza di capitale straniero ma, al contempo, abbia «consentito al capitale sudafricano di allargare la sua influenza» nella regione, cogliendo la preziosa occasione della disponibilità di «un serbatoio di mano d’opera a buon mercato », approfondendo perciò un «commercio iniquo con la maggior parte dei paesi africani».[11]

Un simile sviluppo, con forti disequilibri oltre che di tipo continentale anche all’interno della stessa SADC, costituisce tuttavia una delle preoccupazioni degli stessi Stati membri e il punto di possibile rottura di un equilibrio ancora non consolidato. In questo senso, si è cercato sì di spingere verso l’integrazione dei mercati, ma con significativi correttivi teoricamente in grado di riequilibrare la situazione di partenza. Ad esempio, «la liberalizzazione commerciale dovrebbe essere accompagnata da misure correttive e di compensazione a beneficio dei paesi membri meno sviluppati», essenzialmente mediante una visione finalizzata ad una «integrazione profonda» in grado di superare la semplice «cooperazione regionale».[12] Tuttavia la politica di integrazione regionale, sebbene corretta secondo le modalità appena segnalate, non è sufficiente di per sé a garantire uno sviluppo equilibrato e sostenibile sul lungo periodo: tanto è vero che l’indice di sviluppo umano della regione si mantiene tra i più bassi al mondo (nel 1998 esso era ancora fermo a 0,538, mentre nel 1995 era leggermente superiore, ossia pari a 0,568). Dopo la massiccia adesione da parte di un po’ tutti gli Stati membri alle politiche di aggiustamento strutturale, adesso il problema di fondo consiste nelle modalità per il superamento delle disparità interstatuali e di quelle, ancor più gravi, di tipo sociale. La povertà continua ad essere un fenomeno endemico in tutta la regione (il 40% circa della popolazione vive in condizioni di indigenza assoluta) e, quel che è peggio, è in ascesa, anche a causa della continua espansione dell’AIDS che, secondo diverse stime, ha ridotto la crescita dell’intera regione di circa il 30%. Vale la pena ricordare che proprio l’Africa del Sud è considerata come l’epicentro della pandemia: circa un terzo dei sieropositivi a livello mondiale è concentrato qui, con punte come lo Swaziland, in cui il 33,4% degli adulti è affetto da questo terribile morbo. Così, il coefficiente di Gini (che misura l’indice di ineguale distribuzione della ricchezza prodotta in uno Stato) presenta situazioni di grande disequilibrio, soprattutto nei paesi più ricchi dell’area e in quelli che non hanno adottato alcuna misura di stabile redistribuzione della ricchezza interna, quali Botswana (indice di Gini allo 0,54), Lesotho (0,57) e Swaziland (0,51), mentre in Zambia, dove il governo ha provveduto a mettere in atto misure correttive, l’indice è passato dallo 0,67 della metà degli anni Settanta allo 0,51 attuale. Un caso a parte può essere considerato lo Zimbabwe, in cui s’intrecciano motivi interni con aspetti decisivi di politica internazionale. Qui il coefficiente di Gini si attesta sullo 0,63. A fronte di una simile situazione, il capo dello Stato, Mugabe, ha da qualche anno adottato una politica di redistribuzione forzosa delle terre più fertili, tradizionalmente nelle mani dei coloni bianchi di origine inglese. La questione è ovviamente centrale in tutta la regione: l’agricoltura rappresenta, in questi territori, la prima fonte di sostentamento per la larghissima maggioranza della popolazione. In Zimbabwe la concentrazione della proprietà terriera è da sempre fortemente diseguale, cosicché Mugabe, partendo dalla convinzione che «la lotta per l’indipendenza e la sovranità non è mai un processo indolore», ha proceduto ad espropriazioni e a nuove attribuzioni alle popolazioni locali di questa preziosa risorsa. Naturalmente egli ha molto insistito sullo spirito di autonomia dei popoli africani («Noi non abbiamo mai sfidato e contestato i proprietari delle ‘little Englands’, quelli che riducono il nostro paese e le sue limitate risorse a un vasto luogo di villeggiatura in cui ritirarsi quando le tormente piombano sull’Europa impedendo al sole di brillare »),[13] suscitando la completa solidarietà dei suoi colleghi della SADC, più volte espressa formalmente nei vertici dell’organizzazione, e sancita solennemente in un summit, tenutosi ad Harare, specificamente dedicato a questa questione. In questa circostanza[14] è stato riaffermato il diritto ad un «accesso alla terra equo e socialmente giusto», sottolineando come Mugabe abbia agito «in conformità ai termini di legge previsti dalla costituzione e dalla legislazione dello Zimbabwe».

La reazione dei paesi occidentali maggiormente vicini ai coloni bianchi espropriati è stata durissima. Essa ha mostrato, forse per la prima volta, un dissenso manifesto e pesante tra larga parte della comunità internazionale e la SADC. In un certo senso – e al di là delle opinioni politiche in proposito – si è trattato di una prova di maturità dell’organizzazione, che si è dimostrata compatta e solidale nel difendere il diritto di uno dei paesi membri ad una equa gestione della risorsa-terra. La stessa UE ha assunto provvedimenti drastici: insieme agli Stati Uniti, a partire dal 2002 (data della rielezione di Mugabe a presidente dello Zimbabwe) sono state adottate pesanti sanzioni contro questo paese. Ciò ha provocato uno scontro diplomatico e politico tra UE e SADC, poiché la prima ha deciso di non investire nei progetti in cui figurasse lo Zimbabwe, mentre la seconda ha continuato a sostenere con forza la politica di Mugabe. Ciò, tuttavia, ha avuto ripercussioni significative nella già fragilissima economia del paese: è

stato stimato che, nel 2004, le persone bisognose di assistenza alimentare nell’area della SADC fossero circa 7 milioni, di cui 5,4 concentrate in Zimbabwe. Le sanzioni hanno quindi peggiorato di molto le condizioni della popolazione locale e hanno inasprito la tensione con l’Europa, da sempre ritenuta un partner di riferimento. Non a caso (come ricordato sopra) Mugabe ha cominciato ad aprirsi – ad esempio sulle questioni energetiche – verso altre ipotesi, quali Cina e Iran, prefigurando uno scontro tra i costituendi nuovi blocchi mondiali proprio a partire dal teatro africano. La vicenda-Zimbabwe ha rappresentato il culmine della tensione tra SADC e UE o, più in generale, tra SADC e potenze occidentali; una situazione non dissimile era stata vissuta, per molti anni e con appelli ripetuti ma caduti per lo più nel vuoto, rispetto all’Angola, in cui erano evidenti gli interessi di multinazionali europee e nordamericane nel sostenere la guerriglia di Savimbi contro il legittimo governo di Dos Santos. Questi due momenti hanno quindi rappresentato una fase di enorme difficoltà, non soltanto in termini di relazioni internazionali, ma soprattutto per le conseguenze nella realtà concreta. Appare evidente che la SADC non può, per il momento, rinunciare all’apporto economico-finanziario dell’Europa e dell’America del Nord, così come di altri partner che si stanno affacciando sulla scena mondiale. La lotta alla povertà, e soprattutto a vere e proprie pandemie, quali AIDS e malaria, può essere combattuta soltanto con le risorse che i donatori internazionali mettono a disposizione. Lo stesso ragionamento vale per gli investimenti: programmi quali l’ESIPP, che cerca di legare in comuni operazioni le imprese di dodici paesi SADC con quelle europee in cinque settori strategici (edilizia, turismo, ingegneria leggera, agro-industria ed esplorazione mineraria), con una disponibilità complessiva di 18 milioni di euro (stanziati dalla Commissione europea) per un periodo di cinque anni, costituiscono esempi di cooperazione imprenditoriale che dovrebbero permettere di passare dall’occasionalità alla continuatività. Per consentire che simili programmi possano apportare convenienze reciproche, tuttavia, occorre che la comunità internazionale – e l’UE in primo luogo – riconosca nella SADC (e nei vari Stati che la compongono) un interlocutore paritetico e dall’eguale dignità politica. Ciò non è avvenuto nella complessa circostanza relativa alla redistribuzione di terre in Zimbabwe, in cui l’allineamento tra UE e Stati Uniti è stato pressoché totale.

 

Quali prospettive? Se è vero che le difficoltà sono notevoli, negli ultimi anni, per lo meno per quanto riguarda la costruzione di un’identità e di una visione comune, la SADC ha compiuto enormi passi in avanti. I problemi da superare sembrano esser legati, oltre che al riconoscimento esplicito e definitivo di una dignità internazionale e al rapporto col resto del continente, al reale coinvolgimento degli attori sociali interni (a Maseru, capitale del Lesotho, in occasione del vertice della SADC del luglio 2006, il «terzo settore» ha sottolineato come, nonostante lo statuto lo permetta, mai sia stato coinvolto o consultato, tanto che la SADC-CNGO opera fuori dal Segretariato dell’organizzazione), ad una qualche forma di legittimazione popolare al momento del tutto assente nella SADC, tanto più importante se si pensa ai passi che, nell’immediato futuro, dovranno essere compiuti: nel 2008 è già stata deliberata la creazione di un’area di libero commercio, ed entro il 2018 di una moneta unica. Possono simili decisive scelte, essere effettuate senza una previa consultazione delle popolazioni interessate, tanto più in assenza di un parlamento eletto? Il dubbio è per lo meno lecito. Inoltre, ciò presupporrebbe una certa autonomia sul piano economico, oltre che su quello del riconoscimento politico su scala mondiale. Il che appare alquanto irrealistico, soprattutto se dovessero mantenersi tali gli attuali livelli di diffusione dell’AIDS e la conseguente necessità di aiuto e assistenza da parte dei donatori internazionali. Quanto all’Unione europea, che rappresenta certamente un modello in termini di assetto istituzionale e di vocazione verso una comune visione del mondo e dell’identità tra gli Stati membri, essa dovrebbe guardarsi da tentazioni neocolonialiste che sovente ne inficiano l’azione, ritardando un processo di sviluppo reale e autonomo dei paesi SADC che potrebbe costituire un’interessante opportunità per le stesse nazioni del Vecchio Continente. Analogo ragionamento va comunque fatto per il Sudafrica, le cui principali imprese sono ormai presenti diffusamente in tutto il territorio e in tutti i settori economici dei paesi SADC. L’interrogativo è, allora, se e come questa possa, se non controllare, per lo meno indirizzare complessi processi economico-finanziari che si svolgono al proprio interno, e che profilano già oggi, con chiarezza, un inedito ma non per questo meno devastante tipo di neocolonialismo. Una simile alternativa rappresenta la vera sfida: avrà la SADC la forza necessaria a dare un’impronta politica dettata dall’equità allo sviluppo prossimo venturo, oppure si limiterà a offrire il quadro di riferimento giuridico-istituzionale per l’espansione indiscriminata del nuovo capitale, soprattutto sudafricano e angolano, creando un’integrazione regionale diseguale e, conseguentemente, instabile? Certo è che, senza consistenti meccanismi di partecipazione e di controllo delle forze sociali dei paesi SADC, lo spettro della seconda ipotesi appare sempre più – e in maniera preoccupante – probabile.



[1] Sul Mozambico si veda il recente L. Bussotti, S. Ngoenha (a cura di), Il postcolonialismo nell’Africa lusofona. Il Mozambico contemporaneo/O pós-colonialismo na África lusofona. O Moçambique contemporâneo, L’Harmattan Italia, Torino 2006.

[2] SADCC, Communique, Lusaka, 1 aprile 1980.

[3] SADCC, Communique, Salisbury, 20 luglio 1981.

[4] SADCC, Communique, Maputo, 11 luglio 1983.

[5] SADCC, Communique, Lusaka, 24 luglio 1987.

[6] SADCC, Communique, Gaborne, 26 agosto 1990.
[7] SADCC, Communique, Windhoek, 17 agosto 1992.
[8] Cfr. SADC, Regional Human Development Report 2000. Changes and opportunities for regional integration SADC, Gaborone 20

[9] Ivi, p. 38.

[10] SADC, Communique, Gaborne, 28 giugno 1996.

[11] Cfr. Ciò che noi siamo, ciò che noi vogliamo, in «L’Ernesto», 4/2003.

[12] SADC, Regional Human, cit., p. 50.
[13] Ibid.; R. Mugabe, Extract from Official Opening Speech at the 61st Congress of the Zimbabwe Farmers’ Union (2 August 2000), in SADC, Regional Human, cit., pp. 124-125.
[14] SADC, Summit of the SADC Task Force on Developments in Zimbabwe, Communique, Harare, 10-11 settembre 2001.