Uscire dalla trappola del carpe diem

Di Sabino Di Chio Lunedì 12 Marzo 2012 16:57 Stampa

Il culto della velocità e l’imperativo all’accelerazione, simboli della modernità industriale, hanno progressivamente lasciato spazio alla compressione, all’enfasi sull’adesso e alla conseguente svalutazione del futuro. Ecco che allora, immerso nel capitalismo dei consumi, l’individuo coglie sì l’attimo, ma poi lo consuma in fretta, pronto a disfarsene per coglierne subito un altro.

Se si volesse scattare una fotografia dell’uomo della tarda modernità per descriverne usi e abitudini, con grande probabilità l’immagine risulterebbe mossa. Il protagonista, infatti, sarebbe immortalato in movimento, mentre si affanna a ridurre il cronico deficit di minuti, ore e giorni che lo separa da un ideale equilibrio nei rapporti con se stesso e con gli altri. La dilagante sindrome dei “minuti contati” sintetizza in un unico sentimento elementi distinti che, sedimentati l’uno sull’altro come stratificazioni rocciose, disegnano l’attuale morfologia del rapporto tra società occidentali e tempo. La base fondante è il dinamismo, l’idea che «il movimento comanda l’evento»,1 la centralità dell’intervento attivo sulla natura per addomesticarla alle esigenze dell’uomo. Il secondo strato è il valore della rapidità: in Occidente “prima” è sempre più sinonimo di “meglio” e unanime approvazione è garantita a chi si adatta, imparando a fare in ore ciò che richiede giorni e simultaneamente ciò che di solito è affrontato separatamente. L’ultimo strato, infine, è l’enfasi sull’adesso: il primato indiscutibile del momento presente per godere di un bene o vivere un’esperienza. La successione degli strati ricostruisce l’evoluzione storica della cultura temporale occidentale: il culto della velocità è una delle matrici originarie della modernità, l’imperativo all’accelerazione anima la modernità industriale, mentre la compressione sul “qui e ora” fa la sua comparsa con la svalutazione culturale del futuro avviata dai movimenti negli anni Sessanta e poi adottata dal capitalismo dei consumi. Ripercorrere i passaggi che hanno portato la velocità a virare in compressione è utile oggi per individuare quale livello di intensità quest’ultima possa raggiungere prima di soffocare l’individuo, lasciandolo privo di quell’«ossigeno della durata»2 indispensabile per comprendere il mondo che lo circonda e cambiarlo, senza percepirsi in balia di entità capricciose e imperscrutabili, quasi sovrannaturali, che si chiamino “mercati”, “moda” o “riscaldamento globale”.


Velocità e accelerazione

La velocità, recitano i manuali di fisica, è la misura del rapporto tra spazio percorso e tempo impiegato. Con la sua ossessione per l’esplorazione geografica, la mappatura dei nuovi continenti, la definizione di confini tra Stati e recinzioni tra proprietà, la modernità classica è stata senza dubbio la sua epoca, perché animata dal principio attivo della conquista spaziale, oltre limiti considerati per millenni sacri e immutabili. Il tempo diventava uno strumento nelle mani dell’uomo in viaggio, il “mercante” di cui parla Le Goff,3 fiducioso nella possibilità di emanciparsi grazie a volontà, conoscenza e progettazione, dal «tempo della chiesa» inteso come curatela del trascendente. L’architettura istituzionale moderna (Stato centralizzato, amministrazione delle finanze, prime forme di organizzazione produttiva artigianale) prende forma proprio dal desiderio di colmare il divario tra il mondo conosciuto e quell’immenso e improvviso orizzonte di possibilità. Dopo la Rivoluzione industriale, invece, la modernità passa sotto le insegne dell’accelerazione,4 perché ad animare i ritmi collettivi non basta semplicemente la velocità ma serve anche il suo costante e progressivo aumento. Che il paradiso si nasconda sulla terra e che possa essere raggiunto semplicemente facendo di più e in minor tempo è un dato ormai acquisito e non c’è motivo di aspettare troppo a lungo per godere in vita dei progressi che si contribuisce a realizzare. Il sistema integrato di razionalizzazione formato da Stato liberale e organizzazione industriale fordista è la vettura con cui affrontare in sicurezza la corsa verso un domani senza alcun dubbio migliore dell’oggi. Migliore ma diverso: come insegna Berman5 la modernità è un’esperienza irrequieta, che alla promessa affianca inesorabilmente la distruzione. La ricerca dell’innovazione continua stimola la creatività ma contestualmente nega valore a quanto già creato. È un modello che stringe il soggetto in una tenaglia: da un lato gli chiede regolarità nell’incanalare energie nelle grandi burocrazie, dall’altro gli instilla un’insoddisfazione esistenziale resa endemica da traguardi fissati sempre qualche metro più in là. Se l’accelerazione si manifesta come «l’accorciarsi di tratti di tempo che consentono un’esperienza omogenea»,6 ogni forma di conoscenza diventa relativa, temporanea, destinata prima alla svalutazione e poi all’oblio. È il lato oscuro dell’acclamato «Stay hungry» suggerito dal fondatore di Apple Steve Jobs agli studenti di Stanford: se occorre rimanere sempre affamati e nulla riuscirà a saziare l’appetito di novità, allora sia cucinare che mangiare diventano attività prive di senso. Nella crepa aperta da questa frustrazione, avviene la fioritura della rivendicazione di gratificazione immediata che ha trovato nei movimenti antagonisti negli anni Sessanta il primo megafono. L’obiettivo dichiarato della contestazione era «mandare in rovina il mito del tempo»7 inteso come forma regolatrice e di conseguenza presidio oppressivo. Il Sessantotto si fece promotore del rifiuto di differire ulteriormente il cambiamento davanti a soprusi percepiti come non più tollerabili. Per la prima volta, però, si associava alla durata un disvalore in nome di un incontenibile “tutto e subito” che certificava quel sospetto verso il domani che nel Settantasette si sublima nel «No future» urlato dal punk.

Un capitalismo ferito a morte dalla critica sociale, dalla saturazione dei mercati di massa e dalle crisi energetiche trova un miracoloso balsamo nella fornitura rapida di beni e servizi altamente personalizzati a una generazione benestante e istruita che ha voglia di rottamare l’anacronistica gabbia d’acciaio per poter modulare ritmi e obiettivi di vita in base alle inclinazioni personali, esercitando la propria libertà anche attraverso la scelta dei segni e dei messaggi veicolati dai beni di consumo.8 La leva che permette la svolta è offerta dallo sviluppo delle tecnologie digitali che, indifferenti per statuto all’attraversamento dello spazio e agli ostacoli della materialità, permettono l’abbattimento dei costi di estensione della rete di scambi e comunicazioni all’intero pianeta.


Il potere misurato in secondi

La globalizzazione può essere interpretata come un cambio di fase nel calcolo dell’accelerazione: con lo spazio trasformato in costante, è il tempo a dover tendere a zero per mantenere alta l’intensità dei traffici. L’ambito produttivo materiale può permettersi la delocalizzazione in territori in cui l’accelerazione non ha anticorpi e lì scatenare in piena irruenza i suoi effetti collaterali. In Occidente, invece, come spiega Castells, si impone un capitalismo dematerializzato, concentrato sulla produzione di simboli, merce volatile che crea valore nell’ininterrotta circolazione di flussi di informazioni. 9 Caratteristica non secondaria dei flussi è quella di essere misurati sulla base della loro portata, ovvero la quantità di dati, materia o denaro che fanno transitare nell’unità di tempo. I flussi valutano il potere in secondi, non più in metri quadri: la compressione sull’istante10 ha la sua palestra nel terziario avanzato finanziario, immobiliare, assicurativo o pubblicitario, invidiata avanguardia dell’intero sistema economico. In quel contesto “più informazioni in meno tempo” è la formula per godere di sicuro vantaggio sui competitors, perché chi vi opera affronta un’incertezza strutturale che ci si può illudere di domare solo sapendo esprimere appieno il proprio potenziale nel momento opportuno.

Su questa formula poggia, ad esempio, l’economia finanziaria, totalmente immersa nell’orizzonte di breve periodo. «Dieci minuti è storia, alle cinque del pomeriggio sarò un dinosauro» urla un protagonista di “Wall Street”,11 e l’esclamazione rende bene quanto guadagni e perdite dipendano dalla reattività immediata agli stimoli o dall’anticipazione di informazioni strategiche che mettano in condizione di agire nell’istante più opportuno. La diffusione negli anni Duemila della cultura speculativa fuori dalle borse, nell’intimo delle decisioni di spesa delle famiglie, ha reso pacifico il sacrificio delle risorse future alle esigenze del presente sul tavolo verde di un sistema che dal 2008 ad oggi non perde occasione di dimostrarsi immune da qualsiasi capacità umana di regolazione.

L’estensione globale della concorrenza, la mobilità del capitale e le potenzialità tecnologiche, inoltre, trasformano le aziende da cellule di avanzamento generale a punti di convergenza provvisori, regolati dalla massimizzazione degli utili per soddisfare l’impazienza di azionisti e clienti. Riservandosi, allo scopo, il diritto sempre più tutelato di cambiare con disinvoltura pianta organica, settore merceologico o prodotti dietro l’apparente fissità del brand. Il lavoratore, dal canto suo, vede restringersi la durata dei contratti e la validità delle qualifiche e deve rinunciare a carriera ed esperienza come fattori di stabilizzazione biografica, accettando di reinventarsi piazzista di intercambiabili performance. Pronto a mettere in gioco in solitudine carattere, corpo e contatti nella battaglia di superficie ospitata dall’arena di un mercato che non conosce distinzioni tra tempo libero e tempo di lavoro. Per evitare fastidiose saturazioni, gli stessi ritmi convulsi animano l’offerta dei beni sul mercato, con la rotazione della moda e l’obsolescenza pianificata che escono dal tradizionale confine del lusso per interessare ogni genere di prodotto, dalle automobili fino al mobilio. Ci si circonda di oggetti che incorporano sempre meno tempo, «progettati in funzione della loro morte»12 per esaudire voglie passeggere a una velocità tale, però, da non sopprimere l’insoddisfazione che fa da motore alla fabbricazione in serie di nuovi desideri. Come previsto da Baudrillard, la produttività oggi misura il crescente tasso di caducità del corredo di simboli veicolati dalle merci e il consumatore assiste alla penetrazione degli ideali del marketing tra i criteri di regolazione della realtà quotidiana: la pubblicità suggerisce di non riflettere troppo a lungo ma di agire («Just do it»), bandire ogni possibile rimpianto (d’altronde «Life is now»), acquistare subito merci in offerta, all’asta o biglietti aerei low cost in un perpetuo conto alla rovescia in cui ogni esitazione comporta in automatico la penalizzazione di un prezzo più alto.


Il tempo di immaginare un altrove

Come una girandola multicolore che spinta dal vento restituisce solo il bianco, allo stesso modo l’economia della compressione, in origine plasmata sull’esigenza di contemplare l’autonomia dell’individuo e il pluralismo delle esperienze, finisce anch’essa per battere un tempo altrettanto monolitico, quello dell’istante frenetico. L’abbraccio fatale tra prima e adesso suggerisce una rappresentazione dell’esistenza come successione di episodi intensi ma slegati tra loro, ospitati da un presente perpetuo, autoreferenziale al limite dell’autismo rispetto a passato e futuro. Il primo, già reso malconcio dal discredito su cui poggia le basi la modernità, subisce il colpo di grazia dalla rivoluzione tecnologica, che resetta un nuovo anno zero trasformandolo al più in modernariato vintage, fascinoso ma muto rispetto a una nuova strumentazione in eterno aggiornamento. Il secondo da terra promessa assume il volto arcigno dell’obsolescenza, dell’invecchiamento fisico, del default finanziario o della catastrofe ecologica. La collezione di attimi fuggenti impegna il soggetto nella rincorsa verso la massimizzazione del suo “profitto emotivo”, attivo di un bilancio esistenziale stilato su periodi sempre più brevi. È come se vigesse l’obbligo di cogliere l’attimo, consumarlo per poi disfarsene e coglierne un altro ancora: una coazione a ripetere che priva il contemporaneo carpe diem di ogni traccia della lieta professione di armonia evocata dal verso oraziano per renderlo sempre più somigliante a una condotta conformista, funzionale alla creazione di valore negli ingranaggi liquidi del capitalismo digitale. Questa accelerazione interiorizzata, allo stesso modo del «capitale impaziente»13 degli azionisti, spinge l’individuo a una distorsione delle preferenze che ancora l’azione all’utile immediato, al piacere facile, all’inquietudine per ogni vincolo, costrizione o rinvio del godimento, visti come opprimenti ostacoli alla piena realizzazione di sé.

Il problema è che su vincoli, costrizioni e rinvii si poggia la convivenza civile. La maggior parte delle regole serve a porre una distanza tra l’azione e la pulsione, che sull’onda del momento può essere violenta o irragionevole. La più grande privazione subita dall’uomo della tarda modernità, quindi, non è qualche minuto in più di “tempo per sé” ma la sparizione della distanza di sicurezza dalla propria istintività, l’esaltazione della diretta, il “buona la prima” che inibisce la capacità di immaginare un altrove, accettando il presente come un destino e adagiandosi sulle sue ingiustizie. Compito di una buona politica in questo momento storico dev’essere quello di intercettare la voglia di lungo periodo di chi vede le proprie esperienze mortificate dalla compressione. È una battaglia culturale, magari di retroguardia ma necessaria, che passa dalla ricostruzione dell’ampio respiro custodito nel tessuto delle istituzioni democratiche, troppo spesso in questi anni lacerato in nome di un decisionismo dell’emergenza che associa al momento del negoziato solo un’inutile perdita di tempo. Magari cominciando con il dare il buon esempio, rinunciando a rincorrere l’umore volubile dell’elettorato attraverso la temporalità affannata dei sondaggi, o regolando l’uso improprio della decretazione d’urgenza o della questione di fiducia per blindare i provvedimenti e sottrarli alla discussione interna ed esterna al Palazzo. Davanti alla tempesta dei flussi finanziari o informativi, occorre presidiare le roccaforti della democrazia, non farsi travolgere dalla vulgata che vede nel ripensamento una debolezza, nella mediazione l’indizio del torbido, nella burocrazia una camicia di forza e non una garanzia per i più deboli per evitare che il vincitore prenda tutto. E che legge tra gli articoli della Costituzione, infine, solo un campionario di lacci e non un programma ambizioso e inattuato, la mappa di un tragitto che si potrebbe ancora percorrere insieme. Oltre la trappola del carpe diem.

 


 

[1] P. Virilio, L’orizzonte negativo, Costa&Nolan, Milano 2005, p. 87.

[2] F. Cassano, Il pensiero meridiano, Laterza, Roma-Bari 20062, p. XVI.

[3] J. Le Goff, Tempo della chiesa e tempo del mercante, Einaudi, Torino 1978, p. 4.

[4] Si veda H. Rosa, Social Acceleration. Ethical and Political Consequences of a Desynchronized High-Speed Society, in “Constellations”, 1/2003, pp. 3-33.

[5] M. Berman, L’esperienza della modernità, il Mulino, Bologna 1982, p. 25.

[6] R. Koselleck, Futuro passato, Marietti, Genova 1986, p. 283.

[7] F. Piperno, ’68. L’anno che ritorna, Rizzoli, Milano 2008, p. 138.

[8] Si veda J. Baudrillard, La società dei consumi, il Mulino, Bologna 2008.

[9] Si veda M. Castells, L’età dell’informazione, Università Bocconi, Milano 2002.

[10] Si veda D. Harvey, La crisi della modernità, Il Saggiatore, Milano 1995.

[11] Il riferimento è al film di Oliver Stone del 1987.

[12] Baudrillard, op. cit., p. 33.

[13] B. Harrison, citato in R. Sennett, La cultura del nuovo capitalismo, il Mulino, Bologna 2006, p. 33.