Editoriale 1/2012

Di Italianieuropei Lunedì 16 Gennaio 2012 12:29 Stampa

È bastato che Berlusconi rassegnasse le sue dimissioni e, di fatto, scomparisse dalla scena politica – almeno per ora – per scoprirci d’incanto un paese migliore: responsabile, serio, sobrio, credibile, degno di stima per il suo coraggio nelle scelte e la capacità di risollevarsi anche nei momenti più bui. Non parliamo solo di una questione di stile, ma di un modo di essere. Eppure siamo consapevoli che venti anni di berlusconismo non si cancellano con un rapido colpo di spugna.

 

È bastato che Berlusconi rassegnasse le sue dimissioni e, di fatto, scomparisse dalla scena politica – almeno per ora – per scoprirci d’incanto un paese migliore: responsabile, serio, sobrio, credibile, degno di stima per il suo coraggio nelle scelte e la capacità di risollevarsi anche nei momenti più bui. Non parliamo solo di una questione di stile, ma di un modo di essere. Eppure siamo consapevoli che venti anni di berlusconismo non si cancellano con un rapido colpo di spugna.

«Quelli di Berlusconi – per usare le parole di Michele Prospero – sono stati anni di profonda regressione politica e di smarrimento civile». Hanno profondamente inciso nel modo in cui gli italiani si rapportano fra loro in quanto cittadini della stessa democrazia, hanno alterato la percezione dell’imprescindibilità del rispetto delle regole su cui essa si basa.

Le gravi degenerazioni dell’agire politico a cui abbiamo assistito negli ultimi anni hanno trovato terreno fertile in un paese in cui le dinamiche del vivere democratico non avevano ancora permeato in profondità il tessuto civile. Si sono potute nutrire di alcuni falsi preconcetti, pensieri terribili, errate credenze, che sono purtroppo diventate, con il tempo, un modello culturale, un sentire diffuso nel paese.

Superare il berlusconismo significa quindi liberarsi da queste idee nefaste e alimentarsi di pensieri e principi nuovi, o semplicemente riscoprirne alcuni che abbiamo messo da parte.

Potremmo così provare a costruire un pensiero lungo, che faccia della costruzione del futuro dei giovani una assoluta priorità, che consideri la dignità del lavoro un valore in sé che non vale la pena barattare in cambio di un decimo di punto di crescita del PIL (ammesso che i termini di questo rapporto siano veritieri, perché se davvero fosse così, con il livello di svilimento del lavoro a cui siamo giunti in questo paese negli ultimi due decenni, avremmo dovuto avere un tasso di crescita a due cifre).

Potremmo ad esempio cominciare a riflettere sul fatto che la crescita in sé è un traguardo insoddisfacente se i suoi frutti non sono ripartiti equamente, utilizzati per migliorare la vita e accrescere il benessere di tutti. Infatti, se crescita ci sarà non potrà più essere come quella che c’era prima della crisi: una crescita basata sulle bolle speculative del mondo finanziario, sulla continua creazione di ingiustizie e disequilibri sociali. Si potrebbe cominciare a sgombrare la mente dall’idea che le donne siano un elemento decorativo o di piacere al servizio del maschio e lasciare invece che guadagni spazio l’idea che ci sia un modo del femminile di affacciarsi alla sfera del pubblico senza dover passare per il tramite della bellezza.

Potremmo riprendere in considerazione l’idea che, in un paese come il nostro, vecchio e che non fa figli, gli immigrati non sono uno sgradevole ingombro da (quando possibile) ributtare in mare, ma un arricchimento in termini umani, economici e culturali, prima che una necessità imposta dalla demografia. Potremmo ritrovarci ad apprezzare il valore che hanno, anche in termini non economici, il sapere, la conoscenza, la cultura; a volgere finalmente l’attenzione allo sviluppo sostenibile e alla green economy. Allora sì, potremmo dire di essere davvero un paese migliore.