«Industria 2015» e mercato dell'innovazione

Di Renato Giallombardo Domenica 02 Marzo 2008 19:56 Stampa

Le politiche industriali dei governi del mondo occidentale sono sempre state condizionate da una fondamentale domanda di sistema. Fidarsi o non fidarsi del libero mercato? Fidarsi o non fidarsi della capacità dell’insieme di cittadini e imprese che costituiscono il mercato, quella immateriale entità composta da tutti coloro che contribuiscono alla produzione e allo scambio di beni e servizi, di regolarsi autonomamente verso la migliore allocazione e il miglior sfruttamento delle risorse al fine di soddisfare al meglio i bisogni economici di tutti, a breve così come a lungo termine?

Le politiche industriali dei governi del mondo occidentale sono sempre state condizionate da una fondamentale domanda di sistema. Fidarsi o non fidarsi del libero mercato? Fidarsi o non fidarsi della capacità dell’insieme di cittadini e imprese che costituiscono il mercato, quella immateriale entità composta da tutti coloro che contribuiscono alla produzione e allo scambio di beni e servizi, di regolarsi autonomamente verso la migliore allocazione e il miglior sfruttamento delle risorse al fine di soddisfare al meglio i bisogni economici di tutti, a breve così come a lungo termine?

Le risposte che si possono fornire a queste domande sono, evidentemente, molteplici e hanno provocato la creazione di sistemi economici idealmente collocabili in uno spazio delimitato, da un lato, dal dirigismo totalitaristico (conseguente ad un «no» totale e categorico all’interrogativo sopra posto, vedi le esperienze autarchiche e comuniste) e, dall’altro, dal liberismo anglo-americano (caratterizzato da un altrettanto assoluto «sì» alla domanda di sistema menzionata).

Con ciò non si intende affatto affermare che la proposta di legge «Industria 2015», il nuovo disegno di legge presentato dal ministro Bersani, sia il documento che mira a rispondere definitivamente al suddetto interrogativo in relazione all’economia italiana. Nella struttura dello stesso, è peraltro implicita una presa di coscienza.

Innanzitutto «Industria 2015» prende atto, come già sottolineato da più fonti negli ultimi anni, che le difficoltà dell’economia italiana, le cause della sua arretratezza, sono di tipo strutturale. Da tale documento traspare inoltre la convinzione che le imprese italiane, se non indirizzate da programmati obiettivi di politica industriale, se lasciate a sé stesse senza «strumenti di supporto», se lasciate quindi, per intendersi, al libero mercato, non saranno in grado di «risalire la china della competitività». Partendo da tale presupposto quindi, il disegno di legge prevede la costituzione di due fondi di investimento: il «fondo per la competitività e lo sviluppo» e il «fondo per la finanza di impresa».

Il primo fondo, che dovrebbe costituire lo strumento per incentivare attività di impresa a più alto valore aggiunto, viene visto dagli operatori come il tentativo di sviluppare un mercato di progetti di innovazione industriale in Italia. È quindi sulla parola «innovazione» e sulla declinazione che tale parola riceverà al momento dell’approvazione degli interventi che si gioca l’intero asse della politica pubblica in questo settore. La caratterizzazione dei progetti in termini di innovazione è ribadita nell’articolo 1 del testo, che rende di per sé chiaro il «senso dell’innovazione » ponendo l’accento sulla finanziabilità di progetti con obiettivi di avanzamento tecnologico, di ricaduta industriale in termini di nuovi prodotti o servizi relativi a segmenti di mercato in crescita, ovvero di creazione e di sviluppo di imprese giovani in aree tecnologiche individuate. Unitamente a queste si individuano peraltro altre aree di intervento che, almeno in linea teorica, potrebbero non esser strettamente attinenti con lo sviluppo di progetti di innovazione industriale quali l’integrazione degli strumenti di aiuto alle imprese, e i progetti di ristrutturazione industriale.

Certo è che questo potente strumento finanziario di riordino, sostitutivo dei precedenti interventi agevolativi, per essere efficace, dovrà essere in grado di funzionare quale spinta propulsiva verso progetti che abbiano veramente la capacità di creare vero sviluppo e massa critica, in modo da consentire alle migliori imprese italiane di competere su scala globale e rilanciare il nostro paese come mercato di idee, ricerca e innovazione tecnologica.

Progetto ambizioso se si considera da dove si parte. Se si considera l’arretratezza culturale che impedisce ad esempio al nostro paese di sviluppare un vero mercato del venture capital, come da più parti è stato fatto notare nel corso degli ultimi mesi.

 

Venture capital e innovazione industriale Ma cosa è esattamente il venture capital la cui diffusione viene tanto invocata? Per venture capital si intende un apporto di risorse finanziarie sotto forma di capitale di rischio fornito ad imprese con un elevato potenziale di sviluppo da parte di operatori specializzati (banche, fondi di investimento specializzati o anche individui dotati di ingente liquidità e con una spiccata propensione al rischio, i cosiddetti business angels).

In altre parole, con il venture capital si finanziano idee per lo sviluppo. Ma il venture capital cresce laddove esiste una cultura del merito e una cultura del rischio, laddove è strutturalmente presente un rapporto tra ricerca e impresa, tra un sistema finanziario e bancario che non basa le proprie aspettative su rendite di posizione, laddove esiste un ricercatore con vocazione imprenditoriale che abbia le capacità di proporre progetti in linea con le dinamiche evolutive del mercato.

Una ricerca dell’università di Brescia ha segnalato come l’Italia sia il fanalino di coda nel cosiddetto early stage investment, cioè nell’investimento sulla fase iniziale dell’impresa, puntando complessivamente su tale settore la irrisoria cifra di 30 milioni di euro per l’intero anno 2005 contro gli oltre 300 milioni di euro della Germania, i circa 500 milioni di euro della Francia e i 900 milioni di euro della Gran Bretagna. Probabilmente non vi è alcuna banca, investitore istituzionale o fondo di investimento che operi in Italia ad un certo livello attualmente interessato ad impegnarsi in early stage investment. E questa è una debolezza strutturale che dovrà rimanere sempre costantemente presente ai ministri competenti e al «supermanager» chiamati ad attuare la norma in via di emanazione.

La creazione di un mercato delle idee, della ricerca e dell’innovazione in Italia dovrebbe innanzitutto basarsi su due fattori essenziali: la nascita di uno o più poli universitari di eccellenza che siano in grado di attrarre l’interesse della comunità finanziaria nazionale e internazionale, e la presenza di una classe di banchieri, finanzieri e professionisti di settore che siano disposti a basare il loro finanziamento o investimento sulla fattibilità imprenditoriale del progetto più che sulle garanzie prestate o sulle aspettative finanziarie di breve periodo.

È lo sviluppo di questi ultimi due fattori che va soprattutto incentivato. E ciò tenendo ben presente che la diffusa consapevolezza, peraltro legittima, che l’investimento debba seguire logiche di breve periodo e di certezza del rendimento si combatte esclusivamente costruendo una cultura del merito e del rischio consapevole e informato, tramite una forte e autorevole reputazione della comunità scientifica e degli enti di ricerca. Nonostante l’intento del disegno di legge di concentrare gli sforzi economici su pochi progetti o aree di innovazione, si segnala però la necessità che si istituiscano – da subito – tavoli di confronto con il mondo degli operatori finanziari e con quello dell’università e della ricerca per individuare e affrontare i nodi che oggi impediscono alle risorse private di essere dirette verso i progetti di innovazione. Un primo passo sul fronte dell’innovazione e della ricerca potrebbe consistere nel consentire alle università di acquisire gli strumenti per competere tra loro e sul mercato; in tale contesto, la trasformazione delle università in fondazioni potrebbe essere previsto quale mera facoltà dell’ente universitario al fine di introdurre una flessibilità nel sistema e quale strumento di acquisizione di risorse finanziarie necessarie ad alimentare la ricerca di base e la ripresa della brevettazione di invenzioni di prodotto e di processo ad origine italiana.

Brevettazioni e spin off di ricerca, spina dorsale di qualsiasi politica sull’innovazione, hanno subito una pesante battuta d’arresto nell’ultimo decennio e faticano a vedere la luce anche a causa dell’esistente quadro normativo.

Sul fronte bancario e finanziario, una maggiore competizione è requisito imprescindibile per la creazione di un mercato dell’innovazione industriale. L’assenza di interesse di tali operatori denota una scarsa propensione al rischio determinato essenzialmente dai profitti assicurati in Italia a tali operatori. A questo proposito, al di là delle necessarie aggregazioni bancarie, una vera concorrenza nel settore si può determinare solo incidendo sull’enorme conflitto di interessi implicito nell’attuale struttura di banca universale.

Il modello virtuosamente introdotto nei primi anni Novanta sulla spinta della Comunità europea ha spesso creato distorsioni nel momento in cui l’impresa, nel suo stadio evolutivo, ha avuto necessità di credito, di capitale di rischio, di consulenze per il collocamento di propri titoli sul mercato. Investment banking, merchant banking e advisory sotto un’unica direzione hanno spesso generato rendite di posizione a danno dell’impresa, non svolgendo quel ruolo di guida verso la crescita dimensionale, ruolo palesemente legato alla funzione che la banca avrebbe dovuto svolgere nei confronti dell’impresa. Oggi ci troviamo di fronte ad un forte ritardo nella cultura del rischio bancario e finanziario, poiché banche e sistema finanziario non rivolgono sufficiente attenzione ai piani di fattibilità dei progetti imprenditoriali. È un ritardo che impedirebbe a qualsiasi intervento pubblico di avere successo.

Di conseguenza, è opportuno segnalare al legislatore la necessità di ridisegnare il quadro normativo sui conflitti di interesse nell’ambito del sistema bancario e nel rapporto tra banca e impresa, e di suggerire alle banche e alle altre istituzioni finanziarie di riservare una quota dei loro business plan ad attività che concedano spazio a risultati di lungo periodo anche tramite la promozione di fondi di venture capital.

In altre parole, se le risorse «pubbliche» sembrano esserci, non è altrettanto sicuro che siano stati eliminati i paletti che impediscono alle risorse «private» di confluire nel settore. Ed è altrettanto chiaro che, senza le seconde, non vi potrà essere un vero mercato delle idee, della ricerca e dell’innovazione nel nostro paese.

 

Finanza di impresa e accesso al credito Il secondo fondo di investimento è diretto a reperire risorse per la «finanza di impresa» con l’intento di facilitare l’accesso al credito, la patrimonializzazione e quindi la crescita dimensionale delle piccole e medie imprese.

Lo stesso Osservatorio per il monitoraggio delle attività industriali, nella «Seconda relazione sullo stato dell’industria» del marzo 2006 ha evidenziato infatti come il sistema produttivo italiano sia caratterizzato da una specializzazione produttiva di tipo settoriale, e sia costituito da imprese di dimensione troppo piccola per poter competere sui mercati globali, spesso caratterizzate da una struttura proprietaria familiare, accentrata, e spesso scarsamente patrimonializzata. L’ossessione per il controllo da parte delle famiglie imprenditoriali si rivela anche nella strutturazione delle operazioni che mirano a consentire l’ingresso degli investitori istituzionali nel capitale di piccole e medie imprese.

In tali ipotesi, l’azionista «industriale», che spesso ricerca il sostegno di un partner finanziario solo quando si trova in situazioni di difficoltà finanziaria e come alternativa al credito bancario, si dimostra refrattario a cedere il «controllo» dell’impresa negoziando minuziosamente tale cessione tramite patti parasociali e vincoli alla circolazione delle partecipazioni sociali. D’altra parte l’indisponibilità all’apertura del capitale a nuovi partner industriali o finanziari e l’insoddisfacente strutturazione della governance dell’impresa, basata su modelli patriarcali anziché istituzionali, sono certamente tra le cause principali del blocco alla crescita dimensionale delle imprese, centrale elemento di crisi della competitività del nostro sistema.

Anche in tale contesto è quindi necessario analizzare come si muove il mercato per evitare interventi non idonei a raggiungere l’obiettivo. Ma a differenza dell’intervento nei progetti di innovazione industriale, un mercato di piccole e medie imprese che possano essere oggetto di acquisizioni o aggregazioni esiste ed è anzi una vera risorsa per il paese. Basti pensare, come ha segnalato una recente ricerca dell’AIFI (l’Associazione italiana degli operatori di private equity),[1] che dei circa 300 investimenti effettuati nel corso del 2005, il 70% circa ha riguardato piccole e medie imprese con un fatturato inferiore ai 50 milioni di euro, e in particolare aziende piccole o piccolissime, considerato che il 17% degli investimenti ha coinvolto imprese con fatturato da 2 a 10 milioni di euro e il 34% degli investimenti ha coinvolto imprese con fatturato inferiore ai 2 milioni di euro. Non v’è dubbio però che in termini di valore la parte sostanziale degli investimenti viene diretta verso le imprese più grandi posto che circa il 60% del totale degli investimenti effettuati nel 2005 si è riversato su imprese con oltre 250 milioni di fatturato. Ne consegue che gli operatori di private equity investono su società medio-grandi o grandi poiché tendenzialmente l’investimento in tali imprese consente di ottenere un ritorno più rapido ed economicamente più vantaggioso. E pertanto la vera sfida del fondo sulla finanza di impresa consisterà proprio nell’attirare su imprese piccole o addirittura piccolissime, con finalità di crescita o aggregazione, gli investimenti di operatori finanziari nazionali e internazionali. Gli interventi di tale fondo, più che fornire garanzie per affidamenti bancari di imprese medie, piccole e non patrimonializzate, dovrebbero rendere più attraente l’investimento nel capitale di rischio delle piccole imprese da parte degli investitori istituzionali. Si potrebbero ad esempio incentivare i processi di due diligence, studiare forme di garanzia sul rendimento del capitale investito in modo da ampliare l’arco temporale tra l’ingresso nel capitale e il disinvestimento della partecipazione, premiare l’investimento di minoranza e l’aggregazione tra imprese. Si potrebbe concedere un credito di imposta in caso di partecipazione al capitale di rischio dell’impresa, utilizzabile dall’investitore a livello di gruppo.

Quindi, lo strumento «fondo per l’impresa» può rivestire senz’altro grande rilievo purché si eviti di riprodurre schemi di partecipazione pubblica nel capitale di imprese private, e si usino tali fondi per incentivare il rapporto tra investitori finanziari o industriali e piccole imprese. In tal modo la risposta ai problemi strutturali della piccola impresa avverrebbe con la conseguente graduale introduzione di meccanismi di governance ad ispirazione istituzionale, una maggiore trasparenza contabile e finanziaria, nonché un miglior rapporto tra capitale e indebitamento finanziario, disinnescando così il rischio di una (spesso dannosa) «corsa» al disinvestimento da parte dell’operatore di private equity.

Insomma, si dovrebbe avere come primario obiettivo quello di scardinare la cultura dell’impresa chiusa, patriarcale e autarchica, per cercare modelli di aggregazioni in filiera, creazioni di poli industriali e integrazioni sia orizzontali che verticali nel settore della produzione e dei servizi.

 

L’idea di fondo L’idea di fondo, ripresa dal disegno di legge Bersani, è quindi quella di definire, da un lato, strategie di politica industriale finalizzate ad adeguare il modello di specializzazione produttiva dell’industria italiana (ancora arroccata su settori tradizionali a basso valore aggiunto) tramite la valorizzazione di eccellenze tecnologiche, favorendo l’integrazione tra industria tradizionale, servizi alla produzione e nuove tecnologie e, dall’altro, di creare sistemi di valutazione che rendano più selettiva l’applicazione degli incentivi alle imprese. L’idea che le difficoltà dello sviluppo industriale siano superabili in primis tramite misure di sostegno e incentivo finanziario non è peraltro un’esclusiva dell’esperienza italiana.

Tutti i paesi industrializzati hanno spesso, in un modo o nell’altro, fatto ricorso a misure di sostegno finanziario generalmente suddivise tra incentivi consistenti in un prelievo fiscale minore (ad esempio tramite l’introduzione del credito d’imposta) e incentivi consistenti in un apporto finanziario attivo, quali i finanziamenti a tasso agevolato e i contributi a fondo perduto.

In altri Stati, le cui economie più fedelmente rispecchiano uno stampo «liberista», le forme di incentivo sono state spesso finalizzate al raggiungimento di obiettivi differenti dalla politica industriale, quali la tutela ambientale, la politica energetica ecc. L’Italia ha invece spesso tentato di basare sulle misure di sostegno finanziario alle imprese l’intera propria politica industriale.

Tale idea è contenuta nel disegno di legge Bersani sebbene in chiave più aggiornata e moderna e con il meritorio intento di raggruppare nei due «grandi» fondi sopra discussi (unitamente al fondo per gli investimenti nella ricerca scientifica denominato «First» istituito in seno al ministero dell’università) gran parte delle risorse attualmente distribuite ad iniziative imprenditoriali da parte di numerosi fondi pubblici. Tale iniziativa, oltre a rispondere alle indicazioni dell’Osservatorio sull’industria, è in linea con le aspirazioni della Strategia di Lisbona, così come concretizzate nel Piano nazionale per l’innovazione, la crescita e l’occupazione lanciato esattamente un anno fa e che della summenzionata strategia costituisce attuazione. La stessa Commissione europea con la COM 474/2005, ha legato l’attuazione della Strategia di Lisbona alla ridefinizione della politica industriale europea, con l’obiettivo di rafforzare la competitività dell’industria europea e di consentirle di adattarsi ai cambiamenti economici di volta in volta susseguentisi.

Tuttavia, sebbene l’indicazione di alcuni obiettivi prioritari che guidino l’adozione di misure di politica economica volte a favorire il rilancio del sistema Italia sia utile, non può sottacersi come creare un sistema talmente completo di «guida» dello sviluppo industriale e degli investimenti a ciò finalizzati potrebbe essere rischioso.

Rischioso, in primo luogo, in quanto tale impostazione potrebbe ingenerare nel sistema-impresa italiano un’aspettativa controproducente. L’aspettativa cioè che debba essere lo Stato a prendere le redini del difficile compito di riorientare il sistema produttivo italiano verso aree in cui le imprese avranno un sicuro successo, o per lo meno, in cui esse riusciranno a realizzare un assetto che consenta di recuperare la competitività perduta negli ultimi anni. La stessa sintesi del disegno di legge pubblicata sul sito del ministero dello sviluppo economico si cura di precisare che il progetto non intende «tornare su logiche dirigistiche».

La stessa affermazione è ripetuta in varie interviste rilasciate dal ministro Bersani in merito al disegno di legge. Evidentemente la preoccupazione che il progetto di legge possa sembrare dirigista è stata già avanzata da più parti. Tale preoccupazione, od impressione, potrebbe derivare dal fatto che, analizzando il testo del disegno di legge ci si rende conto che tutti gli interlocutori del sistema impresa (dalle università, agli enti pubblici, al sistema finanziario, al mondo imprenditoriale), così come la definizione del piano triennale contenente le cosiddette «Linee strategiche per la competitività e lo sviluppo», e l’individuazione nell’ambito di tale piano degli obiettivi di rafforzamento dell’apparato produttivo e delle aree tecnologiche produttive prioritarie per lo sviluppo industriale, gravitano attorno ad una «cabina di regia» composta dal ministro per lo sviluppo economico, dal ministro per l’università e la ricerca e dal ministro per l’innovazione nella pubblica amministrazione.

Ai suddetti tre ministri (che agiscono sempre per lo più «di concerto », ma comunque sotto la direzione del ministro dello sviluppo economico, al quale in ultima analisi è affidata l’emanazione di decreti attuativi del disegno di legge) è affidato il compimento degli atti necessari a realizzare gli obiettivi del disegno di legge, quali ad esempio l’affiancamento al tradizionale sistema di sostegno finanziario alle imprese di un sistema di aiuti generalizzato (concretizzato dagli interventi dei tre fondi sopra menzionati), basato sulla previa individuazione di linee strategiche per la competitività e sul sostegno selettivo a progetti di innovazione industriale.

Sempre ai tre ministri sopra menzionati spetta il compito di redigere il documento sulle linee strategiche che porrà il primo discrimen tra i progetti imprenditoriali da «promuovere» e quindi da finanziare in quanto inclusi nei progetti di innovazione industriale, e quelli da non sostenere, secondo obiettivi con un chiaro ed evidente impatto macroeconomico di rilievo nazionale. A tal proposito, si pongono già una serie di domande, forse premature allo stato, ma sicuramente utili a fornire spunti di riflessione.

I tre ministri potranno sostituirsi al mercato nella valutazione della duratura validità delle linee strategiche per la competitività e nella strutturazione dei progetti di innovazione industriale (la cui individuazione è a loro affidata dall’art. 3 del disegno di legge) che potranno avere un impatto macroeconomico duraturo sull’assetto industriale italiano? È difatti molto probabile che le decisioni adottate di concerto dai ministri, eventualmente anche su suggerimento del super-manager responsabile, possano esercitare una notevole vis actractiva sulle decisioni di investimento degli operatori industriali italiani. I progetti di innovazione riceverebbero difatti in qualche modo una sorta di favor in termini legislativi-regolamentari, nonché in termini di finanziamento pubblico e di attrazione delle risorse finanziarie di enti privati, ovvero di specializzazione delle strutture scientifiche enti di ricerca in uno o più ambiti determinati.

Di qui il rischio che vi sia la creazione di offerta fittizia o comunque sovrabbondante a quanto assorbibile dal mercato nazionale e internazionale anche a causa di un’eccessiva iniezione di risorse finanziarie da parte di operatori pubblici e privati. Il pericolo, in conclusione, è che si vengano a creare cicli industriali artificiali non sostenibili nell’ambito dei naturali trend del mercato. Rischioso è anche l’appesantimento burocratico di un processo che mira invece, in ipotesi, a consentire un allentamento dei vincoli all’iniziativa di impresa.

Tale appesantimento deriva dalla previsione, delineata nel disegno di legge, di un apparato che consenta a più enti, quali CIPE, i ministeri interessati, la Conferenza Stato-regioni e le commissioni parlamentari competenti, di esprimere i propri pareri, spesso contrastanti, sulla definizione delle linee strategiche per la competitività e lo sviluppo e sui criteri utilizzati per l’individuazione dei progetti industriali.

Inoltre, un intervento di così rilevante portata per la politica industriale italiana non poteva certo rischiare di tralasciare il dialogo con le parti sociali interessate (nella fattispecie enti di ricerca e imprese), i cui suggerimenti sono previsti quale parte attiva del processo di definizione di «proposte di progetti di innovazione industriale».

Questo «concertismo» (come tale continua collaborazione è stata da alcuni denominata), questa richiesta di pareri ad una molteplicità di enti e istituzioni, non rischia di favorire una stagnazione piuttosto che un rilancio dinamico delle attività correlate allo sviluppo e alla competitività? La stessa voglia corale di condivisione e compartecipazione rischia di minare anche gli effetti che potrebbero ricavarsi dal previsto riordino delle fonti di incentivi alle attività produttive e all’impresa, prevedendosi comunque una pluralità di fonti, pubbliche e private, cui i progetti di innovazione industriale potranno attingere.

 

Conclusioni L’impressione di trovarsi di fronte ad un meritorio tentativo di rilanciare l’industria italiana senza il quale anche lo sviluppo del terziario perderebbe a lungo andare terreno prezioso, viene quindi contaminata da alcuni interrogativi nonché dall’impronta patriarcale del sistema di guida della politica industriale.

Il sistema dovrebbe provvedere a tutto, a tutte le esigenze di un’impresa, dalla culla e nascita sino al declino e alla fine della stessa, provvedendo tramite l’unità «anti-crisi d’impresa», da istituirsi presso il ministero dello sviluppo economico, anche a riorganizzare, ristrutturare e riorientare le attività industriali in condizioni insufficienti per il mercato. Nota di merito quella di aver previsto la creazione di un team specializzato nel prevedere e riconoscere i sintomi di un sistema produttivo in declino prima che tale declino diventi, per l’ottusità dell’imprenditore, china irrisalibile e pericolosamente scivolosa per tutti gli stakeholders coinvolti nell’impresa.

Sarebbe però stata forse preferibile la strada suggerita dalla COM 474/2005 emanata lo scorso ottobre dalla Commissione europea, che prevedeva come obiettivo prioritario per il recupero della competitività dell’industria europea e l’attuazione del programma comunitario di Lisbona un’azione coordinata di politica industriale volta a rafforzare in maniera generalizzata e orizzontale la competitività del settore manifatturiero, evitando «politiche interventiste selettive».

Questo nella convinzione che l’industria europea, e italiana in particolare, possano trovare il successo nel mercato e sul mercato soltanto in modo coerente con uno dei principi fondanti dell’Unione europea, ossia attraverso una libera competizione: libera nello sviluppo di nuove idee tramite interventi mirati a creare eccellenza nell’innovazione e nella ricerca; libera nella crescita, agevolando l’accesso al credito e al capitale di rischio, con l’intento di favorire crescita dimensionale e aggregazione. Ma a ben guardare tutto ciò in fondo dipende dalla risposta che si vuole dare alla principale domanda «di sistema» con cui si apre questo breve scritto.

 


[1] Il private equity è una forma di investimento in capitale di rischio di un impresa a breve-medio termine. L’investitore di private equity, sia esso banca, società o fondo di investimento, acquista una quota di capitale dell’impresa con l’aspettativa di cedere tale partecipazione entro un periodo di 2-5 anni dal momento dell’ingresso nel capitale dell’impresa. Il private equity ha sviluppato negli anni una ampia gamma di strutture di investimento che si distingue per tipologia di interventi, termini di investimento e cessione e molte altre caratteristiche peculiari del settore.