Persona

Di Saverio Ricci Martedì 22 Novembre 2011 18:53 Stampa
Persona Illustrazione di Emanuele Ragnisco

«La persona è il segreto del genere umano», protesta Ibrahim, rifugiato africano (in Italia?), in una delle ultime scene del film di Ermanno Olmi, “Il villaggio di cartone”. Una Chiesa-navicella di Pietro naufraga, come i clandestini cui il film è dedicato, sulla spiaggia della sua età post-rituale e post-dogmatica, ma non riesce a offrire neppure un’etica intramondana, e costituisce appena un asilo fisico transitorio per disperati, come nudo cemento; insidiato peraltro dal tradimento interno, oltre che da esterna persecuzione.

 

«La persona è il segreto del genere umano», protesta Ibrahim, rifugiato africano (in Italia?), in una delle ultime scene del film di Ermanno Olmi, “Il villaggio di cartone”. Una Chiesa-navicella di Pietro naufraga, come i clandestini cui il film è dedicato, sulla spiaggia della sua età post-rituale e post-dogmatica, ma non riesce a offrire neppure un’etica intramondana, e costituisce appena un asilo fisico transitorio per disperati, come nudo cemento; insidiato peraltro dal tradimento interno, oltre che da esterna persecuzione. È una recente rivendicazione, nella creazione artistica e nella comunicazione visiva – potente, nel caso citato – del personalismo cristiano, una delle tappe fondamentali del lunghissimo viaggio del concetto di “persona”.

La parola è mutuata dalla tecnica teatrale dei palcoscenici greci (maschera, prosopon, persona in latino), ma entra nel lessico filosofico grazie all’universalismo stoico e alla riflessione morale di Cicerone: la persona come luogo dell’identità e della responsabilità morale. La “maschera” degli inizi si riempie di senso, diventa organizzazione di “caratteri”, prodotta dalle esperienze storiche e morali. Altro uso quello proprio della teologia trinitaria dei primi secoli cristiani: qui “persona” – con la sua connotazione relazionale: persona rispetto ad altra persona persona, nell’unità della sostanza divina – oltre a tutelare il cristianesimo dalle eresie antitrinitarie estende la sua giurisdizione sull’uomo, che è persona perché in relazione con altri uomini. L’età della scienza e delle rivoluzioni le preferirà, doveva forse preferirle, “individuo”, “soggetto”, homme e “cittadino”. Il Novecento letterario, teatrale, artistico liquida l’unità della persona, denuncia il frammento, la discontinuità, la flebilità e la sovrapposizione: torna la “maschera”, tornano le “maschere”.

Nello stesso secolo tuttavia, la reazione agli orrori, fra totalitarismi e guerra nucleare, induce al recupero di “persona” come centro di valori. Avviene nella filosofia di ispirazione cristiana, tra primo e secondo dopoguerra, tra Emmanuel Mounier e Jacques Maritain, con la loro influenza sulla sinistra cattolica e il Concilio vaticano II. Parente stretto, non equivalente, di “individuo” e di “soggetto” – concetti della filosofia, del diritto e della politica del Seicento e del Settecento – “persona” costituisce tuttavia, di quella parentela, l’esponente più esigente: ripete l’homo pieno e virtuoso dell’umanesimo civile e cristiano. In quelle tendenze della filosofia cristiana del Novecento resiste alle spinte che provengono per un verso dal riduzionismo individualistico-proprietario, e per un altro dal suo opposto, ossia dall’annullamento dell’individuo nel totalitarismo; cerca la terza via tra un capitalismo affamatore e un comunismo di affamati, e resiste alle dittature nazifasciste come poi al neocapitalismo e al neocolonialismo.

Ma procede anche attraverso il personalismo non cristiano di pensatori ebrei come Martin Buber ed Emmanuel Levinas. Oggi neuroscienze, bioetica e diritto si interrogano sul “cominciamento” della persona, ovvero su quando nasca l’individuo titolare di diritti, e sulla eventuale persistenza della persona nello stato di morte cerebrale: e il problema del mancato inizio finisce per coincidere con quello del decidibile epilogo. L’età della pretesa fine della storia sembra aver esteso di molto il concetto. Alcuni lo applicano anche al mondo animale, e certamente l’antica “persona” cristiano-umanistica offre ancora le sue spoglie, perché vengano riempite di altro. Soprattutto, “persona” ha un ulteriore parente, “personalità” – prodotto di psicoanalisi e psicologia – con il quale nel linguaggio comune viene spesso contagiato o confuso: se “persona” era integrità e relazione, intese non senza fervore, “personalità” significa occasione di lavoro su disagio, disturbo, scissione, sempre dolorosi, e dolorosi da riparare; ma anche espressione liberatoria, “spontaneità”.

Se nell’età dei consumi, che forse ci ha lasciati, si tentava di costruire un senso di “persona” come latore di diritti al consumo, al credito, al benessere, ma anche all’assistenza sociale e alla crescita culturale, nell’età dei consumati, che forse è la presente, “persona” è spesso vittima sacrificale dei riti mediatici. Consumata dal debito e dai debiti, le viene offerto di consumarsi anche in altro modo: può “aprirsi”, parlare di sé, esporre l’intimità, piangere in diretta; può, deve raccontare se stessa o quel che crede di sé dovunque e comunque; può rivendicare nelle piazze virtuali e fisiche non più tanto diritti storici di un ceto o di una classe, o ragionati programmi di parte, ma il diritto a una creatività assoluta, senza radicamento, che può rovesciarsi in irriflessività e pertanto irrisorietà politica, e in mercificazione mediatica, e non solo.

Forse musealizzabile come oggetto dei tempi delle socialdemocrazie, o di un “impegno” cristiano-sociale nel mondo tutto da rivedere, “persona” si accascia sfinita sullo stesso litorale deserto del film di Olmi. Ibrahim – che nella sua cultura l’ha però scoperta da poco – la rivendica; non ha che questo per difendersi dalla nequizia dei tempi. Difesa disperata, probabilmente, poiché la “persona”, negata laddove il suo viaggio di là del mare è cominciato, rischia di esserlo anche all’approdo. “Persona” corre seri rischi anche e proprio nella società dei consumi ormai consumati. Le “maschere”, ovvero il vuoto iniziale, tornano: nell’adozione di comportamenti, abiti, finalità subiti senza convinzione e senza vaglio critico, anche nell’uso maldestro o perverso delle tecnologie. Appare dubbio il finale della rappresentazione. Ovvero se le “maschere” potranno solidificare ancora qualche volto, o restare a coprire fisionomie sempre più “liquide”.