I diritti delle donne fra scienza e ideologia

Di Marilisa D’Amico Martedì 22 Novembre 2011 18:37 Stampa
I diritti delle donne fra scienza e ideologia Illustrazione di Emanuele Ragnisco

Se da una parte la scienza offre sempre più opportunità alle donne che cercano una gravidanza o che al contrario scelgono di interromperla, dall’altra le leggi italiane si dimostrano ancora inadeguate. Constatata la difficoltà di intervento su temi eticamente sensibili, occorre prefigurare l’ipotesi di un giudizio di costituzionalità, altrimenti saranno i giudici a dover porre rimedio a situazioni prive di tutela, caso per caso.


Laicità e diritti delle donne

«Al contrario di coloro che divinizzano la natura, dichiarandola un qualcosa di sacro e intoccabile, i laici sanno che il confine fra quel che è naturale e quel che non lo è dipende dai valori e dalle decisioni degli uomini. Nulla è più culturale dell’idea di natura. Nel momento in cui le tecnologie biomediche allargano l’orizzonte di quel che è attualmente possibile, i criteri per determinare ciò che è lecito e ciò che non lo è non possono in alcun modo derivare da una pretesa distinzione tra ciò che sarebbe naturale e ciò che naturale non sarebbe. Essi possono soltanto derivare da principi espliciti, razionalmente giustificati in base a come essi riescono a guidare l’azione umana a beneficio di tutti gli uomini».1

È il dilemma della laicità in Italia, che condiziona e fa da cornice oggi alle vicende politiche e giuridiche che toccano i diritti delle donne, a partire dalla scelta se interrompere o proseguire una gravidanza, e in quale modo, fino alla decisione di cercare un figlio con l’aiuto della scienza.

Sono soprattutto due leggi a fare da perno a tutto il dibattito civile, politico e giuridico: due leggi che hanno visto la luce in periodi storici molto diversi e che sono impostate in modo tecnicamente e ideologicamente antitetico. Si tratta della legge 194/78 e della 40/04, come vengono comunemente riconosciute: entrambe sono sottoposte ad attacchi e a difese da fronti opposti. La 194/78 è considerata simbolo dell’emancipazione femminile, sostenuta a oltranza dal fronte “laico” e attaccata fin dalla sua entrata in vigore dal “movimento per la vita” e da gruppi “fondamentalisti”, attraverso il ricorso al referendum e vari tentativi politici e giuridici di modifica; la 40/04, al contrario, è stata presentata come una vittoria dell’integralismo (cattolico) a scapito della libertà di scelta delle donne e delle coppie e in nome del principio di libertà di scelta è stata attaccata anch’essa con lo strumento referendario e in seguito, con successo, ricorrendo ai giudici comuni e alla Corte costituzionale.

Il corpo delle donne, quindi, nella sua funzione più “naturale”, secondo uno stereotipo che in Italia rimane ancora molto radicato, quella di potenziale “procreatrice”, diventa teatro di scontro fra impostazioni profondamente diverse sulla sostanza dei diritti fondamentali, sul compito dei giudici costituzionali e di quelli comuni, per approdare, da ultimo, anche nello spazio giudiziario europeo. Sullo sfondo, la perenne tensione fra natura e volontà, fra la visione della maternità come destino “naturale” della donna o come scelta “artificiale”.

È significativo che in Italia il dibattito politico e in parte anche quello giuridico si consumino su un terreno in prevalenza maschile, particolarmente propenso a trasformare le questioni che toccano i diritti fondamentali di tutti in battaglie ideologiche, destinate alla sopraffazione di una parte sull’altra.


Il principio di autodeterminazione della donna fra legge 194/78 e legge 40/04

Si è definitivamente compiuta in Italia una trasformazione del punto di vista delle questioni che riguardano le scelte procreative. Seguendo il principio sancito dalla Corte costituzionale nella sentenza 27/75, in base al quale non vi sarebbe equivalenza fra la tutela di chi è già persona e di chi persona deve ancora diventare, la 194/78 fa della donna e della sua libertà di scelta il valore indubbiamente prevalente nel bilanciamento delle posizioni in gioco: del tutto assente è infatti la figura del padre – e dei suoi eventuali diritti – che può essere presente soltanto su “consenso” della donna. Anche le scelte delle minorenni prevalgono contro la volontà dei genitori, previa autorizzazione (di fatto dovuta) del giudice tutelare.

Nel 1997 la Corte costituzionale, pur ribadendo questi principi, sembra porre l’accento su un maggior equilibrio fra il principio di autodeterminazione della donna e il diritto alla vita del nascituro, riconoscendo la necessità di una procedura “pubblica” che non lasci sola la donna, ma le offra sostegno e aiuto per una scelta davvero consapevole. La Corte rifiuta, insomma, l’idea che l’aborto sia un fatto “privato” della donna.

Con la legge 40/04 non troviamo più soltanto la donna, ma la coppia, e l’intenzione del legislatore ribalta l’importanza dei soggetti in gioco: qui è l’embrione a far la parte del leone, la sua tutela prevale su quella di tutti gli altri, anche a scapito della salute della donna. Questo profilo è stato in parte corretto dalla Corte costituzionale nella sentenza 151/09, che modifica l’articolo 14, comma 3 della legge consentendo la crioconservazione degli embrioni a tutela della salute fisica o psichica della donna: si impedisce, cioè, che l’embrione possa essere impiantato anche contro la volontà della donna, cosa che la legge consentiva.

Si tratta comunque di un profondo mutamento del punto di vista sulla procreazione, non più soltanto femminile: non a caso, anche a livello regionale, si cercherà (senza successo) di modificare alcuni punti della 194/78, facendo riferimento non più solamente alla donna, ma alla coppia (si tratta dell’atto di indirizzo della Regione Lombardia di modifica della 194/78, annullato dal TAR Lombardia da ultimo con la sentenza, depositata il 29 dicembre 2010, della III Sezione).

Insomma, la visione del principio di autodeterminazione della donna come valore, in quanto fondato sulla libertà e sull’autonomia, sembra cedere il passo a una impostazione diversa, che ritiene invece meritevole soltanto una scelta presa non in solitudine, ma avendo ponderato, insieme agli altri soggetti coinvolti e tenendola ben presente, l’esistenza di una “futura, possibile, vita”.


Adeguamenti scientifici e limitazione dei diritti delle donne

Un aspetto difficile da valutare attiene al progresso della scienza in questo ambito, una processo naturale, quello della procreazione, della gravidanza e della nascita. Il discrimine, come è stato bene espresso,2 è senz’altro attribuibile alla procreazione medicalmente assistita in cui si recide il legame fra sessualità e procreazione.

La legge 40/04, però, non si fonda sul riconoscimento del diritto alla genitorialità, bensì si preoccupa di tutelare in via esclusiva il soggetto più debole, secondo il legislatore, e cioè l’embrione. In Italia i progressi scientifici non servono più a migliorare la vita delle persone (e, soprattutto, delle donne), ma vengono temuti e sottoposti a limiti e divieti. L’impostazione della legge 40/04 è frutto del timore di una scienza non soggetta a limiti, al punto da sacrificare a questa paura la concreta possibilità per tante coppie di diventare genitori in Italia. Così il limite rigido dei tre embrioni provoca fallimenti e fughe all’estero, impedendo a tanti di avere un bambino e aumentando i rischi per la salute della donna, almeno fino alla correzione da parte della Corte costituzionale, mentre il divieto assoluto riguardo alla fecondazione eterologa non soltanto obbliga le coppie ad andare all’estero, ma le espone a seri rischi per la loro salute e quella del bambino, quando approdano in paesi dove non esistono controlli affidabili sui donatori.

Il timore verso la scienza ha condotto anche in Italia a rinunciare per anni all’impiego della RU486, una pillola utilizzata in tanti altri paesi, come alternativa all’intervento per interrompere la gravidanza, e a introdurla ora con limitazioni che sembrano negare il principio di fondo della 194/78: quello della fiducia e del rispetto nei confronti delle scelte delle donne.

Infine uno scenario diverso, ma sempre intriso di ideologia, è aperto sul fronte dei progressi scientifici rispetto alla possibilità di vita, oggi possibile prima delle venticinque settimane: ciò ha condotto a un problema di adeguamento in concreto del limite delle settimane entro le quali è consentito abortire (che si può anticipare a ventidue) e ha provocato in Italia problematiche di difficile soluzione riguardo alla possibilità e al dovere dei medici di rianimare i feti abortiti. Anche in questo caso si assiste a un tentativo di spostare il tema dell’adeguamento scientifico della 194/78, grazie a una tecnica legislativa che consente ai medici di non operare le interruzioni se il feto dà segni di vitalità, alla contrapposizione fra le scelte della donna e la vita del feto, con una tendenza a scivolare verso una visione antica, quella della donna “omicida”.

L’interpretazione “laica” della Corte costituzionale

Molto importante per migliorare il quadro di una contrapposizione fondamentalista sui diritti delle donne si rivela la decisione della Corte costituzionale che non solo rilegge “laicamente” la legge 40/04, ma offre in generale un quadro di riferimento chiaro sulla necessità di bilanciare i diritti fondamentali e di utilizzare tecniche normative che tengano conto del progresso scientifico, rendendo responsabili gli stessi scienziati e non imponendo loro limiti e divieti irragionevoli.

La Corte afferma con forza che la legge 40/04 non tutela l’embrione in modo assoluto, ma che in essa la tutela dell’embrione deve essere bilanciata da quella delle giuste esigenze della procreazione. Con questa affermazione, non soltanto si ribadisce la necessità di bilanciare tutti i diritti, senza contrapporli gli uni agli altri, ma viene anche consentita (e di fatto consente) una lettura dei principi costituzionali sulla filiazione e sulla maternità più aderente a una realtà mutata. La Corte non si spinge ad assicurare il diritto a diventare genitori, ma riconosce meritevoli di adeguata tutela costituzionale le “giuste” esigenze delle coppie che vogliono avere un bambino. Da sottolineare che nella valutazione del giudice costituzionale la salute della donna interviene successivamente: gli elementi del bilanciamento sono l’embrione, da un lato, e la coppia di potenziali genitori, dall’altro.

Decisiva è anche l’impostazione che la Corte offre sul modo di fare le leggi nell’ambito di materie soggette a necessità di adeguamento scientifico: qui non bisogna imporre nulla dall’alto, ma creare una cornice all’interno della quale sia possibile fare scelte corrette. La Corte ribadisce la fiducia in una scienza e in uno scienziato (in questo caso il medico) che possano fare la scelta corretta, caso per caso.


Le questioni aperte e gli scenari futuri

Due sono le questioni aperte che pesano, in particolare sui diritti delle donne. La prima attiene alla legge 40/04: sono infatti pendenti dinanzi alla Corte costituzionale alcune questioni di legittimità, che hanno a oggetto il divieto assoluto di fecondazione eterologa e che, se accolte, porterebbero alla caducazione del divieto stesso, per violazione degli articoli 2, 3, 31, 32, nonché 117, comma 1 della Costituzione. La Corte costituzionale ha sospeso il suo giudizio, in attesa della pronuncia della Grande Chambre della Corte europea dei diritti dell’uomo, che riguarda un analogo divieto previsto in Austria, dove è vietata la fecondazione eterologa in vitro (possibile in specie attraverso la donazione di ovuli), mentre è consentita in vivo (possibile di fatto solo nel caso di donazione di gameti maschili). Se la Corte europea confermasse la sua decisione, emessa dalla I Sezione e poi impugnata dal governo austriaco, di dichiarare violate dal divieto di fecondazione eterologa vigente in Austria le norme della Convenzione europea che tutelano la libertà di scelta in materia di procreazione e che sanciscono il divieto di discriminazione, la Corte costituzionale dovrebbe adeguarsi alla decisione resa dalla Corte europea, rimuovendo il divieto presente nella legge 40/04.

In realtà, la decisione della Corte europea non può formalmente vincolare la Corte costituzionale italiana; tuttavia, non si può non sottolineare che, nell’argomentazione della sentenza del nostro giudice costituzionale, non potrà non pesare la pronuncia di Strasburgo, come dimostra la scelta di rinviare la decisione fino alla chiusura del caso da parte della Grande Chambre. In ogni modo, se la Corte costituzionale italiana annullasse il divieto per le coppie italiane affette da sterilità, si aprirebbero nuove possibilità di ottenere un’effettiva tutela delle esigenze della procreazione assistita, ora precluse dalla rigida scelta di valore fatta propria dal legislatore nel 2004. Da un punto di vista concreto, non si può fare a meno di mettere in luce come la decisione della Corte porrebbe limiti all’odioso fenomeno del turismo procreativo, che oggi affligge tante coppie sterili, disposte ad andare all’estero per accedere alla fecondazione eterologa – sempre che possano permettersi di affrontarne gli elevati costi, nonché i connessi disagi sul piano psicologico –, pur rischiando di sottoporsi a trattamenti medici in condizioni igienico-sanitarie precarie.

La seconda questione ancora aperta attiene alla legge 194/78, relativa all’obiezione di coscienza del personale medico: l’articolo 9 della legge, più precisamente, stabilisce che «il personale sanitario ed esercente le attività ausiliarie non è tenuto a prendere parte alle procedure di cui agli articoli 5 e 7 ed agli interventi per l’interruzione della gravidanza quando sollevi obiezione di coscienza, con preventiva dichiarazione». Si tratta di una norma che, nel caso sempre più frequente e diffuso in cui i medici obiettori costituiscano un’elevata percentuale del personale medico presente nelle strutture ospedaliere pubbliche, provoca quello che è stato definito un “sabotaggio” della legge stessa.3 Infatti, questa norma – che dovrebbe assicurare un equilibrio tra la libertà di coscienza del medico e le esigenze di tutela della donna, decisa a non proseguire una gravidanza che ne comprometterebbe lo stato di salute – risulta sacrificare i diritti della donna: il vizio sta nell’assenza di previsione di strumenti volti a far fronte in modo opportuno al caso di preponderanza di medici obiettori nelle strutture ospedaliere pubbliche alle quali le donne si rivolgono. L’assenza di sufficiente personale medico non obiettore provoca, nel migliore dei casi, il formarsi di lunghe liste d’attesa, che costringono la donna, ad esempio, a rivolgersi a strutture private. Per superare il problema, è auspicabile un intervento del legislatore che ponga rimedio alla lacuna per i casi limite sopra descritti, purtroppo sempre più diffusi. Guardando con più realismo alla vicenda, constatata la difficoltà per il legislatore di intervenire su temi eticamente sensibili quali l’interruzione volontaria di gravidanza e di decidere in modo da bilanciare efficacemente i diritti “contrapposti”, occorre prefigurare l’ipotesi di un giudizio di costituzionalità, sempre che, date le strettoie del nostro sistema di giustizia costituzionale, la Corte riesca a pronunciarsi. In caso contrario, la soluzione alla lesione dei diritti della donna, come è accaduto già tante volte nel caso della problematica legge 40/04, sarà affidata ai singoli giudici, che forse potranno, con l’interpretazione conforme a Costituzione, cercare di porre rimedio caso per caso alle situazioni prive di tutela.

 


 

[1] C. Flamigni, A. Massarenti, M. Mori, A. Petroni, Manifesto di bioetica laica, in “Il Sole 24 ore”, 9 giugno 1996, disponibile qui.

[2] M. Mengarelli, C. Flamigni, I vincoli e la libertà, in Flamigni, Diario di un laico, Pendragon, Bologna 2007.

[3] G. Brunelli, L’interruzione volontaria della gravidanza: come si ostacola l’applicazione di una legge a contenuto costituzionalmente vincolato, in G. Brunelli, A. Pugiotto, P. Veronesi (a cura di), Il diritto costituzionale come regola e limite al potere, Jovene, Napoli 2009, pp. 847 e sgg., disponibile qui.