A quando una politica energetica di largo respiro?

Di Fabio Gobbo Domenica 02 Marzo 2008 19:17 Stampa

Politica energetica o politica dello struzzo? L’Italia è dipendente dall’estero per l’84% del suo fabbisogno energetico, percentuale che aumenta sensibilmente se si considera la sola dipendenza per il petrolio, che è pari al 93%. Questa elevata dipendenza dalle fonti di produzione non domestiche ha messo il nostro paese in una condizione di estrema vulnerabilità di fronte alle turbolenze geopolitiche internazionali, col grave risultato che l’Italia è, storicamente, alla mercè dei grandi produttori di gas e petrolio internazionali, rispettivamente Russia e Algeria e, in generale, i paesi OPEC.

Per comprendere i motivi delle recenti crisi energetiche (si ricordi il blackout del 28 settembre 2003 e l’emergenza gas che ha investito l’Europa lo scorso inverno) che hanno riacceso l’interesse sul problema energetico nazionale, è utile riportare quindi il tema ad alcune questioni di fondo. Prima di tutto bisogna considerare se negli ultimi decenni nel nostro paese sia mai stata fatta una reale politica energetica o se invece non si sia preferita una attendistica «politica dello struzzo» nell’errata aspettativa che nel medio-lungo periodo queste problematiche avrebbero trovato una loro miglior collocazione e soluzione.

Così non è stato. A partire dalle prime crisi petrolifere degli anni 1973-74 e 1979-80, i paesi industrializzati hanno avviato e portato avanti, nel corso degli anni Ottanta e Novanta, politiche di diversificazione del mix energetico finalizzate a ridurre progressivamente l’uso degli idrocarburi in favore del carbone e dell’energia nucleare. Nello stesso periodo, in Italia vi è stata invece una transizione dal petrolio al gas naturale e un repentino abbandono dell’energia nucleare, con una perdita di investimenti valutata in oltre 50 miliardi di euro, e con l’effetto di far addirittura aumentare il contributo complessivo dei combustibili fossili di origine liquida e gassosa alla copertura del fabbisogno energetico. Tutte strategie dettate da considerazioni di breve termine, basate sulla convenienza economica ad incrementare l’importazione di energia, all’epoca a basso costo, senza considerare attentamente i costi e i tempi di realizzazione di investimenti economicamente alternativi né i costi, irrecuperabili, di una perdita di conoscenze tecnologiche per le quali l’Italia all’epoca era all’avanguardia. La situazione attuale non è delle più incoraggianti. L’Italia è infatti oggi il paese europeo con la maggiore produzione di energia elettrica da gas e petrolio e con la più grande importazione diretta di energia elettrica. La nostra bolletta energetica è salita così a circa 48 miliardi di euro nel 2006 (3,3% del PIL) e continuerà a crescere verosimilmente negli anni a venire.

È bene ricordare, d’altra parte, che nel settore dell’energia non esistono soluzioni miracolose. Non esiste infatti, al momento, una tecnologia che contemporaneamente soddisfi tutti i desiderata: basso costo al kWh, ridotte o nulle emissioni nocive, minimo impatto ambientale in termini di spazi occupati e effetto visivo. Nel pianificare quindi qualsiasi strategia di politica energetica, è necessario agire trovando un compromesso fra costi, sicurezza, tutela ambientale, tenendo ovviamente ben in vista le implicazioni future.

È indispensabile, a questo proposito, adottare una visione di lungo periodo che sia attenta a non sprecare risorse preziose in tecnologie che in un futuro prossimo potrebbero rivelarsi obsolete, se non addirittura dannose. A tal proposito, appare evidente che la logica percorsa finora del «tutto petrolio e gas», dettata dai bassi costi di approvvigionamento di tali materie prime nei periodi immediatamente successivi al crollo del prezzo del petrolio nel 1986 e alla fine della prima guerra del Golfo, è stata una scelta non pagante nel lungo termine, quindi non strategica, sia in termini di politica industriale che dal punto di vista ambientale. Nel quadro del Protocollo di Kyoto, il nostro sistema energetico resta infatti uno dei più inquinanti del mondo ed è ben lontano dal raggiungere gli obiettivi di riduzione delle emissioni inquinanti decisi in sede internazionale e ribaditi in sede comunitaria.

Non può passare in secondo piano l’evidenza che, sempre sulla questione ambientale, ci sono paesi la cui industria è già all’avanguardia nell’impiego di fonti energetiche prive di emissioni climalteranti, sia convenzionali, come il nucleare, sia alternative. L’Italia, di contro, negli ulti- mi anni ha perso il treno della ricerca e rischia di pagare a caro prezzo la necessaria riduzione delle emissioni di gas a effetto serra, senza poter trarre benefici dallo sviluppo e dalla commercializzazione di nuove e innovative tecnologie.

Le tendenze in atto, tuttavia, non sono inalterabili. Un’azione più decisa da parte del governo potrebbe, infatti, indirizzare il paese verso un percorso energetico più sostenibile ed equilibrato. Su questo fronte, la legge finanziaria 2007 contiene diverse disposizioni in materia di biocarburanti, detrazioni fiscali in tema di ristrutturazioni edilizie finalizzate all’efficienza energetica e rottamazione delle auto inquinanti; è stata inoltre introdotta una revisione del meccanismo di incentivazione delle fonti energetiche rinnovabili basato sui certificati verdi, da attuarsi nei primi sei mesi del prossimo anno. Si tratta però di misure con effetto temporaneo, di breve periodo, che non possono essere considerate sufficienti in assenza di un preciso e condiviso piano strategico.

Obiettivi chiari e strumenti complessi. Il primo passo da compiere è tradurre le criticità in obiettivi. L’individuazione delle finalità cui dovrebbe informarsi la politica energetica del paese sono semplici e note agli addetti ai lavori. In breve, un uso efficiente delle risorse e dei prodotti finali energetici, la valorizzazione delle risorse interne, l’attuazione di politiche di approvvigionamento che minimizzino i rischi correlati alla dipendenza del paese dall’estero, la diversificazione delle fonti energetiche, la promozione degli investimenti in ricerca e sviluppo di tecnologie innovative nell’ambito delle filiere dell’energia, la riduzione dell’impatto ambientale e, da ultimo, il contenimento dei costi dell’energia. Senza dimenticare le opportunità che possono nascere investendo nella ricerca di soluzioni tecnologicamente all’avanguardia anche nei mercati «a valle» dei prodotti. La traduzione operativa delle finalità di policy in misure da intraprendere per impostare un quadro di interventi coerente e in grado di conseguire gli obiettivi enunciati non è affatto semplice. Le ragioni sono molteplici. In primo luogo, alcuni degli obiettivi citati sono tra loro in trade-off. A questo si aggiunga che, negli ultimi venti anni, mentre il dibattito intorno ai grandi temi delle liberalizzazioni e della regolazione è stato acceso e proficuo, si è parlato poco di politica e programmazione energetica e non è stata valutata con attenzione l’opportunità di integrare le regole per il funzionamento dei mercati con le esigenze di sviluppo delle filiere. Regolazione e politica energetica sono rimaste due materie a sé stanti, con la prima a fare da catalizzatore dell’attenzione tanto a livello accademico, quanto a livello politico.

Molta regolazione poca programmazione. Per quanto riguarda i profili regolatori si può affermare che, ad oggi, le riflessioni accademiche sono, almeno negli elementi fondamentali della teoria, ampiamente condivise. In effetti queste poggiano su un dibattito ventennale che ha permesso di definire sul piano operativo sistemi di governance e assetti di filiera che, con le eccezioni del caso, appaiono sostanzialmente ben rodati e funzionanti. Ciò non toglie la necessità di una più attenta e mirata opera di tuning regolamentare e l’opportunità di passare con decisione ad una seconda fase della regolazione, vale a dire quella in cui alla definizione delle regole segue una forte e autorevole politica di vigilanza e controllo. In tale contesto, in coerenza con quanto sta avvenendo da alcuni anni, l’autorità di regolazione e quella di tutela della concorrenza dovrebbero intensificare il dialogo istituzionale e operativo.

Di contro, i temi di politica energetica non sono stati sufficientemente approfonditi e conseguentemente il dibattito in sede politica non è stato in grado di dare un indirizzo chiaro e strategico al settore. È doveroso compiere uno sforzo per trovare la chiave di volta che consenta di recuperare il potere di indirizzo politico all’interno di un contesto liberalizzato. Tale esigenza è tanto più forte se si considera che il sistema di regole sin qui definito, in un contesto a stock di capitale definito e tecnologia data, pur adatto alla gestione delle dinamiche di breve-medio termine, si è mostrato incapace di gestire al meglio la dinamica del sistema nel lungo periodo. Ci riferiamo a due questioni interrelate: la definizione del livello ottimale di investimenti in infrastrutture e la promozione della ricerca e dello sviluppo di tecnologie innovative. La regolazione ha avuto, infatti, il grande merito di risolvere le problematiche connesse alla presenza di condizioni di monopolio naturale in alcune fasi all’interno delle filiere energetiche e di dare una risposta ai problemi di coordinamento propri dei mercati dell’energia, ma poco ha fatto per affrontare le criticità poste dalla presenza di asimmetrie informative, incertezza ed esternalità caratteristiche dei mercati elettrici e del gas.

Per quanto riguarda gli investimenti, negli ultimi anni il paese ha osservato a proprie spese l’emergere di un chiaro deficit di dotazione infrastrutturale. Ciò ha avuto evidenti conseguenze in termini di esercizio del potere di mercato da parte degli operatori dominanti, restrizioni dell’offerta, contingentamento dei consumi, blackout e tensioni sui prezzi. La ragione è essenzialmente una: la fiducia riposta nei meccanismi di mercato è stata tale da ritenere che il libero operare delle forze di mercato all’interno di un contesto di regole predefinito potesse essere in grado di assicurare un adeguato livello di investimenti e un’oculata selezione delle fonti energetiche primarie, sia in termini di tipologia che di provenienza geografica. Tale convinzione si è dimostrata alla prova dei fatti erronea.

Investimento in infrastrutture e ricerca e sviluppo. Questa riflessione assume un particolare rilievo con riferimento alle decisioni di investimento in infrastrutture e in ricerca e sviluppo. Su un orizzonte temporale di lungo periodo, il singolo operatore è costretto a compiere le proprie scelte imprenditoriali in condizioni di asimmetria informativa e di incertezza, nella consapevolezza che le decisioni degli altri operatori della filiera e dei mercati degli input produttivi possono condizionare la redditività del proprio investimento. Si pensi, ad esempio, con riferimento alla filiera dell’energia elettrica, alle condizioni di sostituibilità tra investimenti in impianti di generazione e reti. Mentre i primi risolvono le condizioni di deficit di offerta all’interno delle zone che hanno saturato la propria capacità di «importazione», i secondi consentono di decongestionare le sezioni che separano la zona in oggetto da quelle confinanti: è evidente quindi che l’investimento in reti può incidere sensibilmente sulle condizioni di profittabilità di quello in impianti di generazione e viceversa.

Più in generale, le decisioni sulla capacità di trasporto/trasmissione ovvero di generazione/immissione richiedono una conoscenza approfondita della configurazione futura dei flussi di elettricità e gas nelle reti. Quindi, solo in presenza di precise indicazioni da parte di un soggetto pianificatore esterno è possibile che la filiera nel suo complesso realizzi un volume di investimenti ottimale. Ne consegue che gli operatori tendono ad adottare un’ottica di breve periodo, che colloca in una posizio- ne di favore gli investimenti con un pay-back period breve. Tale approccio è peraltro rafforzato dal crescente peso assunto nelle scelte imprenditoriali dalla finanza e dai mercati azionari. La quotazione in borsa delle utilities ha favorito la diffusione di una vera e propria «sindrome da trimestrale», che mal si concilia con le caratteristiche dei mercati in esame, e di politiche di distribuzione dei dividendi unicamente finalizzate all’obiettivo di stabilizzare il corso dei titoli. Si è poi trascurato il problema dell’inidoneità del nuovo assetto di mercato a garantire un livello soddisfacente di investimenti in ricerca e sviluppo. Difatti, in un contesto quale quello descritto nei paragrafi precedenti non esistono le condizioni affinché gli operatori siano sufficientemente incentivati ad investire in attività con un ritorno aleatorio e di lungo periodo quale è la ricerca.

La miopia con cui è stato affrontato il problema della ricerca nei settori dell’energia è testimoniata dall’aver trascurato che l’introduzione di nuove tecnologie ovvero la loro diffusione su vasta scala non rilevano solamente al fine di soddisfare la domanda, ma anche a quello di ridurre i costi energetici. Altri obiettivi di natura più squisitamente politica sono cruciali, quali la diversificazione delle fonti energetiche, la riduzione dell’impatto ambientale, l’indipendenza energetica e lo sviluppo del paese attraverso la creazione di un’industria energetica nazionale che possa assumere una posizione di leadership internazionale nei settori innovativi. La politica non può sperare che sia il mercato a selezionare il livello ottimale di investimenti in ricerca e sviluppo e le tecnologie più adatte al perseguimento degli obiettivi ambientali, sociali e politici, ma deve sforzarsi di individuare quali soluzioni promuovere, in che misura e per quanto tempo.

Il fine è quello di arrivare a un quadro serio e non di parte sulle possibili evoluzioni tecnologiche, evitando il contrasto tra le molte posizioni, ciascuna arroccata sulla tecnologia preferita, che non aggiungono molto al dibattito per individuare un mix di fonti energetiche adeguato. L’analisi comparativa non può escludere a priori alcuna fonte, dal nucleare alle fonti energetiche rinnovabili. Se si vuole puntare su ricerca e sviluppo e sull’entrata in filiere produttive non è sufficiente limitarsi a comparare i costi attuali e prospettici delle diverse fonti di energia. È necessario comprendere se e come le nostre università, i centri di ricerca e le imprese siano in grado di rivestire una posizione di rilievo nelle tecnologie del futuro anche attraverso rapporti di collaborazione con le altre potenze europee e con paesi extracomunitari.

Rapporto tra finalità e strumenti. L’individuazione e il funzionamento della strumentazione idonea a realizzare gli obiettivi sopra richiamati e a superare le attuali difficoltà e carenze sul piano degli investimenti passa attraverso la predisposizione di un insieme di regole che riducano le condizioni di incertezza e le asimmetrie informative, consentano di gestire le esternalità e assicurino che eventuali sistemi di incentivazione trattino in maniera uniforme soluzioni tecnologiche o di investimento alternative. A titolo esemplificativo, nel momento in cui si riconosce che gli investimenti in capacità di generazione sono, sotto certe condizioni, sostituti degli investimenti in capacità di trasmissione, non ha senso predisporre due meccanismi di incentivazione distinti: è invece preferibile prevederne uno solo, che metta in concorrenza le soluzioni alternative. Parimenti, se il sistema elettrico nazionale presenta aree con un forte deficit zonale e tra le priorità di politica energetica rientrano la diversificazione delle fonti energetiche e la riduzione dell’impatto ambientale, allora diventa opportuno predisporre uno strumento che incentivi gli investimenti in generazione distribuita, in maniera mirata rispetto alle esigenze del sistema elettrico, e quindi non distribuisca incentivi a pioggia sul territorio nazionale. In caso contrario si avrebbe l’effetto di peggiorare le dinamiche dei flussi di rete, senza peraltro risolvere alcunché.

Un ulteriore profilo che vale la pena sottolineare è che il policy maker non deve mai confondere le finalità con gli strumenti, perseguendo questi ultimi in quanto fini a se stessi. Situazione paradossale, ma non così rara negli esercizi di programmazione, in cui si perdono di vista gli obiettivi e il quadro generale di policy che li ha generati. Tutto ciò è reso più complicato dal fatto che, spesso, gli obiettivi stessi non sono tra loro indipendenti, ma interagiscono a più livelli. Ciò è particolarmente vero per gli obiettivi di tutela dell’ambiente. In tale contesto, obiettivi riferiti ad esternalità locali connesse a specifiche fonti e a dati luoghi possono interagire con obiettivi di carattere globale, come la riduzione delle emissioni di gas ad effetto serra. Appare evidente che, in presenza di impegni assunti a livello internazionale, sarebbe opportuno indirizzare ad essi gli strumenti locali (nazionali ed europei), prima ancora che al soddisfacimento degli obiettivi locali (riduzione delle esternalità locali, incremento della sicurezza dell’approvvigionamento ecc.). È necessario cioè tenere conto delle esternalità globali connesse alle proprie decisioni e dei possibili feedback che possono derivarne.

Non l’oggi per l’oggi ma l’oggi per il domani. La strategia da pensare e poi da intraprendere deve fare i conti con le scelte fino a oggi attuate. La decisione di puntare sulle fonti rinnovabili ha portato ad un esborso di 100 mila miliardi di lire dal 1981 a oggi, per ottenere un con- tributo dello 0,09% alla copertura del fabbisogno elettrico nazionale. Anche a fronte di un prezzo del barile stabilmente sopra i cinquanta dollari, la ripresa dell’impegno nel settore nucleare appare quanto mai lontana, scontrandosi in Italia con problemi di diversa origine. Un impianto nucleare richiede un investimento iniziale molto rilevante e tempi di costruzione almeno doppi rispetto a quelli richiesti da una centrale convenzionale. A questi effetti si sommano le resistenze all’accettazione dell’impianto, che possono prolungare indefinitamente i tempi realizzativi. In un periodo in cui gli investimenti a redditività differita rischiano di essere gravemente penalizzati, l’opzione nucleare viene ostacolata inoltre dalla scarsa sensibilizzazione della popolazione sul problema energetico. A ciò si aggiungano le difficoltà connesse con la definizione di un’analisi costi-benefici di lungo termine del nucleare, in termini sia ambientali che meramente finanziari.

Occorre capire comunque che non esiste uno strumento di per sé superiore: la scelta va adattata al contesto dei singoli sistemi energetici. Questo paese, se vuole imboccare una strada che gli garantisca la sicurezza degli approvvigionamenti, la riduzione della bolletta energetica e l’adempimento degli impegni assunti per la riduzione delle emissioni di anidride carbonica, deve puntare sulla definizione di un programma energetico nazionale non basato su posizioni ideologiche, ma su una riflessione matura e frutto di un confronto politico aperto e sereno. Concretamente, è doveroso descrivere un percorso di sviluppo del settore di lungo termine e trasparente, che non presti il fianco a interpretazioni divergenti e soprattutto che possa essere considerato credibile dagli operatori. Un’oculata pianificazione centralizzata, priva di accezioni dirigiste, può in effetti consentire agli operatori di attuare un processo di decisione decentrata efficiente.

Per concludere: tutti a Viterbo? Di fronte alla drammaticità del tema energetico e del peso che esso ha per lo sviluppo o per il semplice mantenimento degli attuali livelli del benessere, il tema della strategia di medio-lungo periodo non può essere disatteso, anche a costo di ricorrere ad un escamotage che si è rivelato efficace già nel 1271, quando i cittadini di Viterbo, dopo che per tre anni i cardinali colà convocati per eleggere il nuovo papa non avevano trovato un accordo, scoperchiarono il palazzo del conclave lasciando gli elettori esposti alle intemperie, elettori che in breve tempo trovarono un accordo. Che sia necessaria una bella sessione «operativa» in un palazzo senza energia elettrica e privo di riscaldamento e di condizionamento per stimolare il raggiungimento di un piano condiviso e realizzabile?1

[1] Sono debitore per queste mie riflessioni alle discussioni giornaliere con amici come Alberto Biancardi, Fulvio Fontini, Fortunato Lambiase, Isabella Imperato e Raffaella Moccia.