È finita l'epoca del dopo 11 settembre? Gli Stati Uniti e le elezioni di metà mandato del 2006

Di Sergio Fabbrini Domenica 02 Marzo 2008 18:18 Stampa

Le elezioni americane di midterm del novembre 2006 sono destinate ad avere un’importanza rilevante sulla politica americana e sulla sua proiezione internazionale. Dopo sei anni di inusuale governo unificato, da parte del Partito Repubblicano, delle istituzioni separate tra il 2001-06 (con la sola eccezione di una risicatissima maggioranza democratica di un seggio al senato tra il 2001-02), gli Stati Uniti sono ritornati al governo diviso che aveva connotato il periodo 1968-2000 (con le eccezioni del quadriennio 1977-80 e del biennio 1993-94). Infatti, sull’onda dello shock prodotto nel paese dagli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001, il partito del presidente repubblicano George W. Bush fu in grado di riconquistare, nelle elezioni di midterm del 2002, la maggioranza al senato e di accrescere quella già esistente alla camera dei rappresentanti.

 

Le elezioni presidenziali e congressuali del 2004, a loro volta, avevano confermato la maggioranza repubblicana in tutte e tre le istituzioni separate del governo federale (presidenza, senato e camera).1 Per di più, tale governo unificato delle tre istituzioni federali venne sostenuto da un Partito Repubblicano estremamente coeso sul piano organizzativo ed estremamente coerente su quello programmatico.

Si è trattato di una esperienza senza precedenti, se solo si considerano le divisioni che hanno tradizionalmente attraversato i partiti politici americani, e in particolare il Partito Democratico quando si era trovato (tra il 1961 e il 1968) in una condizione simile a quella dei repubblicani del dopo 11 settembre (cioè in grado di controllare tutte e tre le istituzioni federali di governo). In quel periodo, infatti, la divisione interna ai democratici tra i conservatori del Sud e i liberali del Nord (e del Nord- Est in particolare) aveva loro impedito di esercitare un vero e proprio governo di partito.

Dunque, le elezioni di midterm del 2006 hanno interrotto una esperienza senza precedenti di governo unificato, tant’è che non pochi osservatori2 avevano parlato, a proposito di quella esperienza, della formazione di una sorta di «tirannia della maggioranza». I democratici hanno riconquistato la maggioranza alla camera dei rappresentanti (234 contro 201) e al senato (51 contro 49), oltre che in molti legislativi di Stato e governatorati. Certamente la nuova maggioranza democratica del Congresso non rappresenta una coerente alternativa alla maggioranza repubblicana che sostiene il presidente. È piuttosto una maggioranza in negativo, tenuta insieme dalla volontà di neutralizzare la politica neoconservatrice, piuttosto che dal desiderio di promuovere una nuova politica progressista.

Tuttavia, essa sembra abbastanza determinata a chiudere l’epoca che si era aperta con le elezioni congressuali del 1994 (con la conquista repubblicana del Congresso dopo mezzo secolo di controllo democratico) e che quindi aveva portato al regime neoconservatore del periodo 2001-06.3 Insomma, i risultati delle elezioni di midterm del novembre 2006 consentono di chiudere il «dopo 11 settembre», anche se non sono sufficienti per aprire una nuova stagione politica (all’interno e a livello internazionale).

L’ascesa dei neoconservatori e l’11 settembre

Tra il 2001 e il 2006, come era capitato raramente nella storia degli Stati Uniti, una stessa maggioranza ideologica, definita come neoconservatrice, si era affermata in tutte e tre le istituzioni separate del governo federale. Tale maggioranza è stata l’espressione di una coalizione territoriale, sociale e culturale che si era venuta a costituire sulla base di profonde trasformazioni strutturali registratesi nel paese, e in particolare per via dello spostamento dell’elettorato degli Stati del Sud dal Partito Democratico a quello Repubblicano.4 Tale spostamento fu l’effetto della politica a favore dei diritti civili degli afro-americani perseguita dai democratici nella prima metà degli anni Sessanta.

Quella politica aveva portato ad una progressiva emigrazione della popolazione di colore dagli Stati del Sud a quelli del Nord e, di converso, ad una impetuosa immigrazione di individui delle classi medie e bianche negli Stati della vecchia Confederazione.5 La «rivoluzione dell’aria condizionata», come ebbe a definirla il politologo berkeleyano Nelson W. Polsby,6 aveva consentito tale flusso immigratorio, trasformando il Sud in un’area regionale omogenea demograficamente e dinamica economicamente. Su questi Stati, il Partito Repubblicano aveva basato la sua ricostruzione di partito del nuovo conservatorismo, populista ed elitista insieme, impegnato a combattere l’eccessiva espansione del governo federale, ma anche ad utilizzare quest’ultimo per imporre norme vincolanti le libertà individuali.

Questa coalizione è cresciuta sistematicamente dagli anni Settanta in poi, giungendo a controllare più volte la presidenza (dal 1968 al 1976 e poi dal 1981 al 1992) e quindi il Congresso (continuativamente dopo il 1994). Tuttavia, essa ha potuto affermarsi istituzionalmente in tutti e tre gli organi di governo solamente dopo l’11 settembre 2001.

Naturalmente, l’11 settembre rappresenta una data storica per il mondo, e non solo per gli Stati Uniti.7 Quel giorno è avvenuto un atto di terrorismo che non ha precedenti. Nella storia vi sono state molte aggressioni alla sovranità territoriale di uno Stato e non poche di tali aggressioni hanno prodotto innumerevoli vittime. Tuttavia, quelle aggressioni furono pensate e perseguite da altri Stati territoriali, impegnati a conseguire obiettivi militari di varia natura (conquista, espansione, provocazione, ritorsione, rappresaglia). Ciò che caratterizza l’11 settembre è che l’aggressione è stata condotta da un’organizzazione privata, e non già da uno Stato territoriale, e non è stata finalizzata a conseguire nessun obiettivo militare, se non a generare «terrore di per sé».

Con l’11 settembre gli Stati Uniti hanno incontrato un nuovo nemico. Con quell’attacco il dopo guerra fredda si è concluso, ovvero si è conclusa quella fase nuova e incerta che si era aperta con il crollo dell’Unione Sovietica nel 1991.

La parentesi del dopo guerra fredda

Dopo mezzo secolo di organizzazione bipolare della politica mondiale, con gli anni Novanta del secolo scorso si era aperta una fase «nuova» e «incerta» di evoluzione del sistema internazionale.8 Si era aperta una fase «nuova», perché il mondo non conosceva da molto tempo le condizioni di un potere unipolare. Prima del bipolarismo successivo alla seconda guerra mondiale, il mondo (ovvero l’Europa allargata) aveva sperimentato diverse formule per mettere ordine nelle relazioni tra gli Stati, anche se la più convincente ed efficace si era dimostrata quella nota come «equilibrio di potenze ». Naturalmente, tale equilibrio tra le potenze (principalmente europee) non aveva impedito che si formassero accordi (più o meno espliciti) tra di esse, così da garantire ad ognuna di queste ultime un controllo unipolare in quella o in quell’altra parte del globo. Si è trattato il più delle volte di una distribuzione concordata del potere coloniale delle potenze europee. E quando l’accordo non era stato possibile trovarlo (in particolare tra le vecchie potenze e le nuove in ascesa), si era affidato alla guerra locale il compito di stabilire la distribuzione delle forze tra di esse. Ma, naturalmente, tale logica era improponibile in Europa. Qui, invece, la legge ferrea perseguita da tutti gli Stati nazionali è stata quella del bilanciamento, così da impedire che si formasse una potenza o coalizione di potenze in grado di controllare tutto il continente (che era poi il mondo che contava tra il XVI e il XIX secolo). Non può stupire dunque che, con gli anni Novanta, il potere unipolare degli Stati Uniti abbia costretto gli analisti ad andare molto indietro nella storia. La metafora della Roma imperiale diventò quella predominante per concettualizzare il potere globale dell’unica potenza sopravvissuta alla guerra fredda.9 Ma, va da sé, si è trattato e si tratta di una metafora impropria, non solamente perché il mondo di allora era assai diverso da quello di oggi, ma anche perché, soprattutto, gli Stati Uniti democratici hanno poco da spartire con la Roma dittatoriale dell’impero.

La fine della guerra fredda aveva anche aperto una fase «incerta». Infatti, è risultato a lungo poco chiaro quale nuovo equilibrio globale avrebbe potuto sostituire quello dissoltosi (per fortuna pacificamente). E, infatti, gli Stati Uniti degli anni Novanta sono stati un paese, per così dire, schizofrenico. Beneficiavano di una potenza che non aveva precedenti, ma non sapevano come usarla. Si rendevano conto che erano rimasti gli unici in grado di risolvere le crisi internazionali (come è avvenuto con gli accordi di Dayton o con l’intervento militare in Kosovo, con cui venne avviata la chiusura della carneficina balcanica), ma si rendevano conto anche che non disponevano delle risorse materiali interne e della legittimazione politica esterna per agire come «poliziotti del mondo». Tale incertezza aveva diviso l’opinione pubblica e l’elite politica come non avveniva da tempo. Il governo diviso del periodo 1994-2000 (con un presidente democratico alla Casa Bianca e una forte maggioranza repubblicana sia alla camera che al senato) è stato la proiezione istituzionale di tale incertezza. Il presidente perseguiva una strategia multilateralista basata sull’apertura degli scambi economici, il Congresso affermava con forza l’esigenza unilateralista basata sul controllo monopolistico del potere militare. Il primo pensava a promuovere il mercato globale, contribuendo ad esempio a dare vita alla World Trade Organization nel 1995, così facendo del dopo guerra fredda un’occasione per fare avanzare il processo di globalizzazione economica. Il secondo, invece, pensava agli Stati canaglia, cioè a quei paesi che si riteneva potessero minacciare il predominio globale degli Stati Uniti, in particolare in quelle aree (come nel Medio Oriente) che disponevano di risorse di importanza strategica per questi ultimi (come il petrolio). Ed è proprio la maggioranza repubblicana del Congresso che incominciò a porre nell’agenda pubblica la questione dell’Iraq. Ovvero la necessità di «finire il lavoro non concluso nel 1991», quando le truppe americane e alleate si erano fermate a pochi chilometri da Baghdad, dopo aver liberato il Kuwait dall’occupazione irachena.

L’11 settembre e la rinascita dell’«eccezionalismo americano»

Per i neoconservatori, la novità e l’incertezza del dopo guerra fredda si sono concluse proprio con l’11 settembre 2001, in quanto quest’ultimo ha imposto agli Stati Uniti un nuovo avversario globale: il terrorismo islamico.10 Si tratta di un nemico che non ha un retroterra territoriale, che beneficia anzi della dissoluzione territoriale di alcuni Stati, che tende ad allearsi con quelli più estranei all’ordine internazionale, capace però di utilizzare le moderne tecnologie informatiche e belliche (se non nucleari). Grazie alla possibilità di accedere alle «armi di distruzione di massa», questo nuovo nemico potrebbe portare la sfida nel cuore stesso dell’Occidente, minacciandone i valori e gli stili di vita. Un nemico di questo tipo è imprevedibile. Quindi non può essere affrontato con gli strumenti tradizionali del confronto tra Stati, così come esso è stato regolato dalle istituzioni politiche e giuridiche del sistema internazionale dopo la seconda guerra mondiale. E infatti i neoconservatori hanno reagito all’11 settembre affermando il dovere del paese ad agire unilateralmente nell’arena internazionale.

Si è trattato di una reazione immediata. È come se, in quella fatidica giornata, ci fosse già a Washington DC un gruppo di potere in possesso di una soluzione, in attesa di un problema cui applicarla. Bin Laden ha creato il problema, fornendo a George W. Bush l’opportunità per promuovere quella soluzione. Così, ad un fondamentalismo (quello di piccole e minoritarie sette islamiche alla ricerca di una improbabile rivincita nei confronti della modernità liberale) ha finito per opporsi un altro fondamentalismo (quello di una grande potenza protestante alla ricerca di una altrettanto improbabile rivincita nei confronti di tutte le costrizioni che essa stessa si era data).

Quello scontro si è dimostrato utile anche a fini interni. La critica ai condizionamenti multilaterali del sistema internazionale ha fornito al presidente una giustificazione per criticare i condizionamenti multilaterali del sistema interno di separazione dei poteri. Dopo l’11 settembre il Congresso ha abdicato ad ogni ruolo di controllo e di controbilanciamento del presidente,11 trasformando in legislazione ogni sua richiesta (tra il 2001 e il 2006, il presidente ha sottoposto a votazione una legge congressuale solamente una volta, nel 2006, un fatto, quest’ultimo, che non ha precedenti dopo la seconda guerra mondiale).

Così, l’11 settembre ha consentito ad una coalizione divenuta maggioritaria di avanzare un progetto complessivo sull’ordine internazionale e interno, entrambi interpretati come ineluttabilmente divisi.12 Il mondo esterno diviso tra distinte civiltà (religiose e politiche) destinate a scontrasi tra di loro. Il mondo interno diviso invece tra una società monoculturale devota ai principi del credo americano e una società multiculturale priva di principi aggregativi. I neoconservatori hanno offerto un’interpretazione complessiva dei cambiamenti intervenuti nel mondo e all’interno del paese, collegando gli uni agli altri. Hanno cioè usato quei cambiamenti per rilanciare un paradigma (quello dell’«eccezionalismo » americano)13 che ha accompagnato la storia del paese sin dalle sue origini. Gli Stati Uniti sono un paese che ha una missione da svolgere nel mondo e nella storia, quella di diffondere i principi della libertà e della democrazia. Sono un paese indispensabile, speciale, eccezionale. Per questo motivo essi debbono ritrovare se stessi, rivalutare la loro identità culturale, ritornare alla loro origine religiosa. Gli Stati Uniti non sono stati creati dalla dichiarazione di indipendenza del 1776, o dalla costituzione del 1787 o dai suoi dieci emendamenti del 1789. Essi sono stati creati da quei gruppi di colonizzatori (e non già di immigrati) che sono arrivati nelle sponde atlantiche portando con sé la cultura anglosassone e la religione protestante che hanno poi reso possibile l’esperimento americano con la democrazia.14

Per i neoconservatori, dunque, l’identità degli Stati Uniti non è costituzionale, ma principalmente culturale (se non etnica) e religiosa. La forza degli Stati Uniti è dovuta alle sue pratiche sociali ed economiche, più che istituzionali. La combinazione di identità e forza ha fatto degli Stati Uniti una potenza democratica espansiva. Essa ha bisogno di esportare i suoi valori per garantire i propri interessi. Così, non privi di una rude consapevolezza degli interessi economici ed energetici del paese, i neoconservatori della Casa Bianca e di Capitol Hill hanno finito per giustificare la lotta al terrorismo islamico sulla base di un nuovo interventismo democratico, tanto militante sul piano militare quanto scettico su quello giuridico. Gli Stati Uniti non hanno bisogno di dare una giustificazione della loro azione internazionale. È la loro stessa natura di paese eccezionale (ovvero eccezionalmente democratico) che li giustifica, qual siasi cosa facciano. «C’è una mano divina che accompagna il nostro destino», ha affermato George W. Bush nel suo discorso sullo «Stato dell’Unione» del 2003.

Una benedizione, si ritiene, che è all’origine della nascita di quel paese e che continua a sorvegliarne lo sviluppo. A parlare con George W. Bush è l’America del nazionalismo monoculturale (naturalmente, bianco, anglosassone e protestante, anzi evangelico), così piena di sé da pensare che il suo nazionalismo sia l’unico (tra i nazionalismi che ci sono nel mondo) ad avere un carattere universale.15

Le conseguenze dell’eccezionalismo

Certamente, gli Stati Uniti sono stati aggrediti l’11 settembre anche per ciò che rappresentano: una società libera e democratica. Tuttavia, in quella aggressione c’è stato assai di più che un attacco alla libertà americana. Quell’aggressione avrebbe potuto essere affrontata con una strategia diversa, una strategia capace di garantire sia la legittima esigenza di sicurezza del paese (come si è cercato di fare in Afghanistan) che la altrettanto necessaria esigenza di tenere separati i terroristi dal loro mondo di riferimento (come invece non si è fatto invadendo l’Iraq senza alcuna autorizzazione internazionale). È inutile aggiungere che interpretare il mondo come diviso tra civiltà inconciliabili non fa giustizia delle differenze interne ad ognuna di quelle civiltà, quasi che interi popoli e intere aree regionali fossero riconducibili ad un’unica ed esclusiva identità. Con l’invasione militare dell’Iraq, con l’inserimento dell’Iran nell’asse del male, con la riduzione di ogni movimento di liberazione nazionale (dalla Palestina alla Cecenia e al Libano) a movimento terroristico, gli Stati Uniti hanno finito per attivare logiche di divisione che prima non esistevano (o che comunque non avevano una capacità ordinatrice delle identità individuali). Se si considera che la reazione americana si è focalizzata su un’area del mondo (quella a prevalenza islamica) che da tempo ha un rapporto difficile con l’Occidente e la sua cultura (oltre che con sé stessa), allora si può facilmente comprendere perché quella reazione abbia finito per generare un esito incontrollabile (come si può vedere dalla guerra civile che si è scatenata in Iraq).

Naturalmente, la considerazione sulle drammatiche conseguenze dell’eccezionalismo americano non può giustificare un atteggiamento pietistico o acritico nei confronti del cosiddetto mondo mussulmano. Le classi dirigenti islamiche di quasi tutti i paesi dell’area mediorientale hanno una grande responsabilità per avere alimentato quel sentimento di alienazione nei confronti dell’Occidente da parte dei loro cittadini (o meglio sudditi). È stato rivolto verso l’Occidente il malessere prodotto dalla loro corruzione interna, esito inevitabile in regimi non solo non democratici, ma anche illiberali. La ricchezza prodotta dal petrolio non è stata distribuita socialmente o investita a scopi civili. È stata appropriata da piccoli gruppi oligarchici e dinastici, preoccupati esclusivamente di proteggere i loro privilegi, piuttosto che di sfamare e alfabetizzare le masse di diseredati che circondano i loro palazzi. Peggio ancora, il sentimento religioso è stato non di rado utilizzato (come spesso è avvenuto anche in Europa) per controllare e irreggimentare masse minacciose di poveri (e giovani). Tuttavia, non possiamo non riconoscere che il sentimento di umiliazione percepito dalla comunità islamica internazionale è il risultato anche di scelte dei governi occidentali, che più frequentemente hanno creato problemi (basti pensare al conflitto palestinese- israeliano) piuttosto che soluzioni (come invece è avvenuto in Kosovo). Comunque sia, il nuovo eccezionalismo americano ha cambiato sensibilmente il paese e il mondo. All’interno, esso ha prodotto uno svuotamento dello Stato federale, in nome dei diritti degli Stati e dell’autosufficienza degli individui. La riduzione della spesa sociale ha accentuato il fenomeno della povertà (oggi più di 47 milioni di individui sono senza alcuna copertura sanitaria). La politica di defiscalizzazione (a favore dei redditi alti e altissimi) ha accentuato la disuguaglianza sociale. All’esterno, l’unilateralismo ha portato ad un isolamento progressivo degli Stati Uniti, anche perché la sua strategia di esportare la democrazia si è rivelata fallimentare su tutta la linea. Insomma, dopo l’11 settembre gli Stati Uniti, con le loro scelte, hanno messo in moto una serie di processi che hanno finito per mutare il sistema internazionale. Che piaccia o meno, gli Stati Uniti sono l’unico paese che quando starnutisce fa venire la polmonite agli altri.

Conclusioni

Il paradigma neoconservatore è stato messo in discussione da più parti. In Europa da tempo. Qui è stata messa in dubbio l’idea stessa di trasformare il terrorismo (che è una modalità di azione) in un avversario (che logicamente dovrebbe essere un soggetto e non già un metodo). Per i critici europei del paradigma neoconservatore, la vera svolta nel sistema internazionale è stata rappresentata dall’11/9 (cioè dal 9 novembre 1989) e non già dal 9/11 (cioè dall’11 settembre 2001). È stato il crollo del Muro di Berlino, a cui è seguito due anni dopo il collasso dell’Unione Sovietica, che ha cambiato il mondo, favorendo processi di globalizzazione economica e di integrazione regionale che non hanno precedenti nella storia. Ciò ha portato gli europei a disconoscere la drammaticità di ciò che è avvenuto a New York e a Washington DC, ma tuttavia ha consentito loro di affermare le ragioni di una interpretazione del mondo non esclusivamente americanocentrica.

Con le elezioni di midterm del novembre 2006, il paradigma neoconservatore è stato però messo ufficialmente in discussione anche negli Stati Uniti. Le difficoltà crescenti incontrate nell’azione di stabilizzazione dell’Iraq dopo l’invasione, il numero anch’esso crescente di soldati americani uccisi in quel paese (più di 3.000 alla fine del 2006), il costo economico anch’esso crescente dell’occupazione militare (357 miliardi di dollari alla fine del 2006), tutto ciò non poteva che portare ad una progressiva critica della strategia neoconservatrice. Dopo tutto, lo stesso Congresso a maggioranza repubblicana si era incaricato di avviare già nel marzo 2006 una revisione della politica estera del paese, dando vita al cosiddetto Iraq Study Group presieduto dal repubblicano ed ex segretario di Stato James Baker III e dal democratico ed ex presidente del comitato per le relazioni internazionali della camera dei rappresentanti Lee Hamilton. Ma anche la politica interna aveva finito per suscitare reazioni negative. Pur in presenza di una crescita, la politica di bilancio perseguita dai neoconservatori aveva finito per penalizzare le classi mediobasse, senza il consenso delle quali nessun partito può vincere le elezioni. Inoltre, l’approccio illiberale adottato nei confronti delle comunità dei nuovi immigrati (approccio emblematizzato dal Patriot Act approva- to un mese dopo l’11 settembre 2001 e quindi rinnovato nel marzo 2006) aveva finito per generare sospetti diffusi sull’uso partigiano delle istituzioni della sicurezza nazionale. Se poi a tutto ciò si aggiunge la corruzione e l’inefficienza nella gestione delle istituzioni federali (nel primo caso, si pensi ai non pochi membri repubblicani del Congresso che hanno dovuto dimettersi e, nel secondo, al drammatico fallimento nella gestione del dopo Katrina a New Orleans), allora non può stupire che tale malessere diffuso abbia utilizzato le elezioni di midterm per esprimersi.

Così, il 7 novembre 2006 gli elettori hanno voltato le spalle al presidente George W. Bush, mettendogli di fronte un Congresso a maggioranza democratica. Un nuovo periodo di governo diviso accompagnerà l’America almeno per i prossimi due anni. L’era che si era aperta dopo l’11 settembre è stata chiusa, anche se non è detto che il neoconservatorismo che l’ha connotata sia stato sconfitto definitivamente. Gli Stati Uniti sembrano essere in mezzo ad un guado. La «soluzione perfetta» che avevano trovato (quella neoconservatrice) si è dimostrata un fallimento. Tuttavia, nessuna «soluzione imperfetta» sembra essere all’orizzonte. I democratici non sono ancora in grado di elaborarla, perché la critica popolare a Bush che essi hanno rappresentato è a sua volta ambigua. I democratici sono divisi tra chi rifiuta il neoconservatorismo in quanto tale e chi invece critica il modo in cui è stato applicata la teoria del nuovo eccezionalismo. È poco plausibile che i democratici potranno risolvere da soli tale ambiguità. Avrebbero bisogno della pressione e dell’influenza di un’Europa unita capace di elaborare e perseguire un progetto coerente di multilateralismo internazionale e multiculturalismo interno. Dopo tutto, in un sistema transatlantico sempre più integrato,16 gli sviluppi politici in una sponda dipendono anche dagli sviluppi politici in corso nell’altra.

 

[1] Sulle caratteristiche del sistema di governo separato statunitense si rinvia a S. Fabbrini, L’America e i suoi critici. Virtù e vizi dell’iperpotenza democratica, Il Mulino, Bologna 2006.

[2] Si veda D. J. Caralay, Complications of American Democracy: Elections Are not Enough, in «Political Science Quarterly», 3/2005, pp. 379-405.

[3] Sulle caratteristiche del «regime neoconservatore», si veda J. S. Hacker e P. Pierson, Off Center. The Republican Revolution and the Erosion of American Democracy, Yale University Press, New Haven 2005.

[4] Cfr. J. Micklethwait e A. Wooldridge, The Right Nation. Conservative Power in America, Penguin Books, Londra 2004.

[5] Basti pensare che gli afro-americani costituivano il 41% della popolazione degli Stati del Sud nel 1860, e solamente il 19% nel 2002. All’inizio del nuovo millennio, i bianchi, a loro volta, non solo costituivano più dei 4/5 della popolazione del Sud, ma erano cresciuti così tanto in termini assoluti da rappresentare più di 1/5 della popolazione totale del paese.

[6] In N. W. Polsby, How Congress Evolves. Social Bases of Institutional Change, Oxford University Press, Oxford 2004.

[7] Si veda S. Hoffmann, Chaos and Violence. What Globalization, Failed States, and Terrorism Mean for U.S. Foreign Policy, Rowman and Littlefield, Lanham 2006.

[8] Come aveva argomentato J. S. Nye Jr., Bound to Lead. The Changing Nature of American Power, Basic Books, New York 1990.

[9] Si veda C. Calhoun, F. Cooper e K. W. Moore (a cura di), Lessons of Empire: Imperial Histories and American Power, New Press, New York 2006.

[10] Si veda la discussione in N. Ferguson, Colossus. The Rise and Fall of American Empire, Penguin Books, Londra 2004.

[11] Si veda T. E. Mann e N. J. Ornstein, The Broken Branch. How Congress Is Failing America and How To Get It Back On Track, Oxford University Press, Oxford 2006.

[12] Questo collegamento tra politica interna e politica estera del neoconservatorismo è argomentato da Fabbrini, US Unilatralism and American Conservative Nationalism, in Fabbrini (a cura di), The United States Contested. American Unilateralism and European Discontent, Routledge, Londra 2006, pp. 3-29.

[13] Sull’eccezionalismo americano vi è una vasta letteratura. Per tutti, si veda l’ormai classico volume di S. M. Lipset, American Exceptionalism. A Double-Edged Sword, W. W. Norton, New York 1997.

[14] Questa tesi è argomentata con grande forza da S. P. Huntington, Who Are We? The challenges to America’s national identity, Simon and Schuster, New York 2004.

[15] R. Kagan, American Power and the Crisis of Legitimacy, Alfred A. Knopf, New York 2004. Si veda la critica a questa interpretazione in A. Lieven, America Right or Wrong. An Anatomy of American Nationalism, Oxford University Press, Oxford 2004.

[16] Come ben argomenta T. Garton Ash, Free World. America, Europe, and the Surprising Future of the West, Random House, New York 2004.