Ground Zero dieci anni dopo

Di Livio Sacchi Martedì 19 Luglio 2011 10:52 Stampa
Ground Zero dieci anni dopo Foto: Miloartist

La riprogettazione del World Trade Center è frutto della mediazione tra una pluralità di istanze diverse, se non contrastanti. | Di Livio Sacchi per il focus "A dieci anni dall’11 settembre" del numero 7/2011.


La riprogettazione del World Trade Center è frutto della mediazione tra una pluralità di istanze diverse, se non contrastanti: dal rispetto delle vittime alla tutela dei proprietari, dagli interessi degli imprenditori e delle compagnie assicuratrici ai desideri degli abitanti del quartiere. Non ultima, resta forte la necessità di conferire al complesso una valenza simbolica nuova, che passa attraverso l’architettura per incarnare i sentimenti, i desideri e le speranze di una società globale che qui trova il suo fulcro.


Sono passati dieci anni dall’attacco terroristico dell’11 settembre 2001 che provocò la distruzione delle torri gemelle del World Trade Center e di altri grandi edifici nel centro finanziario di New York. Un gesto inimmaginabile, luciferino, ambiguamente definito da Karlheinz Stockhausen, il compositore tedesco scomparso nel 2007, «the greatest work of art that is possible in the whole cosmos».

La scelta di colpire un complesso così fortemente connotato sul piano dell’immagine, con valenze che travalicano la dimensione urbana per estendersi a quella globale, da una parte rese evidente il ruolo simbolico dell’architettura, e non soltanto di quella storica, dall’altra provocò un ampio dibattito sui problemi posti dalla ricostruzione, portando a interrogarsi sull’opportunità di continuare a realizzare simili edifici. La tipologia delle torri, frutto del capitalismo statunitense sviluppatosi a Chicago e a New York dalla fine del XIX secolo, è oggi spesso percepita come il prodotto dell’arroganza economica e culturale americana, pur trattandosi di una forma largamente presente dovunque il capitalismo, nei suoi aspetti anche più diversi e contraddittori, sia diffuso: nelle Americhe come in Europa o in Asia e, in particolare, nei paesi islamici ricchi, dagli Emirati Arabi alla Malesia, ma anche nella “comunista” Cina. Di tali colossali fabbriche furono subito messi in discussione la sicurezza, la sostenibilità, l’economia di gestione, la funzionalità e, soprattutto, il ruolo simbolico, con le ricadute sui valori (o disvalori), anche etici, da esse più o meno esplicitamente rappresentati. Ma emersero anche altri, inquietanti fantasmi: con l’11 settembre era stata forse anche punita la babelica insolenza di edifici intollerabilmente alti usque ad coelum?

Realizzate nel 1973 da Minoru Yamasaki (1912-86) con lo studio Emery Roth & Sons e gli ingegneri John Skilling e Leslie Robertson, le torri, all’epoca le più alte del mondo, costituirono comunque, nel breve arco dei loro ventotto anni di vita, un modello strutturale al quale si guardò con sistematicità. I due colossali gemelli che si ergevano sullo sfondo dello skyline metropolitano, oltre a rappresentare un forte punto di riferimento visivo per l’intera parte meridionale di Manhattan, costituivano un segno potente e inquietante nella loro meccanica, reiterata duplicità: due gigantesche, monolitiche colonne d’Ercole; un grande pezzo di scultura minimal. Il clima culturale postmoderno mise a nudo il fallito rapporto con il tessuto urbano e con la vita dell’uomo alla quota stradale e la loro stessa, eccessiva altezza. Così, alla fine del secolo scorso, il World Trade Center appariva ai più come il relitto di un passato architettonico scomodo e ingombrante, che poco aveva dell’epica grandiosità dei primi grattacieli.

Il processo di riprogettazione dell’intera zona e quello di ricostruzione, attualmente in corso, hanno posto all’attenzione pubblica quanto sia difficile gestire correttamente e consensualmente ciò che, per sua natura, deve interagire a livelli diversi e rispondere a esigenze spesso in contrasto fra loro. Era infatti necessario mostrare e rappresentare il dovuto, e comunque da tutti sentito, rispetto per le quasi 3000 vittime dell’attentato, tenendo conto della volontà dei comitati dei parenti, perlopiù orientati alla realizzazione di un grande memorial e comprensibilmente poco propensi alla normalizzazione dell’area; tutelare i diritti della proprietà – la Port Authority of New York & New Jersey, potente società pubblica interstatale – oltre a quelli dell’imprenditore titolare del leasing, Larry Silverstein (titolare di un contratto di novantanove anni, stipulato sei settimane prima dell’attacco) e delle compagnie di assicurazioni, tutti interessati alla ricostruzione della maggiore cubatura possibile; ma anche tener conto delle necessità pratiche degli abitanti del quartiere, interessati a una normalizzazione che, risanando – e sostanzialmente cancellando – i danni, migliorasse la qualità funzionale ed estetica della zona; senza dimenticare, infine, le valenze simboliche, percepite non solo a livello urbano o nazionale, ma anche mondiale: valenze che il complesso aveva e dovrebbe avere, in misura anzi molto maggiore, dopo la ricostruzione.

Una vicenda quindi estremamente complessa e articolata, che ha visto e continua a vedere vere e proprie battaglie politiche fra i diversi attori coinvolti, che ha generato un dibattito inevitabilmente molto acceso e il susseguirsi di una lunga serie di proposte diverse. Una vicenda che ha anche evidenziato le grosse difficoltà che fatalmente s’incontrano quando si voglia garantire qualità architettonica a complessi di tali dimensioni, dietro i quali si muovono interessi, non solo economici, di così eccezionale portata: in una parola, una vicenda che ha reso chiaro quanto l’architettura come arte del fare sia, prima di tutto e soprattutto, arte del compromesso.

Una prima consultazione fu autonomamente promossa da un gallerista di New York, Max Protetch. Questi invitò sessanta progettisti, perlopiù di grande rilievo internazionale, ad avanzare le loro proposte, per poi esporle e pubblicarle. Due diversi incarichi esplorativi vennero invece ufficialmente conferiti allo studio Beyer Blinder Belle e a Steven Peterson e Barbara Littenberg: sebbene alcune delle conclusioni cui giunsero le due analisi sarebbero state ampiamente condivise da tutti i successivi progetti, gli esiti formali raggiunti furono considerati insufficienti. Nel frattempo Silverstein aveva conferito un incarico a un architetto di sua fiducia: David Childs. Relativamente poco noto ai non addetti ai lavori, Childs è senior partner di SOM (Skidmore, Owings & Merrill), uno dei maggiori studi di progettazione americani, con una delle sue sedi proprio in Wall Street, a pochi metri dal World Trade Center.

Nel luglio del 2002, all’interno del colossale Javits Center di New York, si tenne un dibattito pubblico senza precedenti, al quale parteciparono circa 5000 persone, con la possibilità di esprimere dalle proprie postazioni un voto elettronico: ne emerse con chiarezza la generale aspettativa per un nuovo complesso architettonico di grande qualità iconica. La stampa e le reti televisive iniziarono a prendere posizione, ponendo la questione in tutta la sua drammatica eccezionalità. Un ruolo chiave fu quello giocato da Herbert Muschamp (morto nel 2007), il critico del “New York Times”: le proposte da lui raccolte furono esposte alla Biennale di Venezia del 2002, in un’ala del padiglione degli Stati Uniti, mentre nell’altra erano in mostra quelle selezionate da Protetch.

Seguì poi un concorso di idee bandito dalla LMDC (Lower Manhattan Development Corporation), agenzia pubblica incaricata dal governatore dello Stato di New York di gestire la ricostruzione. Il concorso, che inizialmente doveva servire solo come strumento di orientamento, si trasformò poi, strada facendo e in maniera un po’ anomala, in un vero e proprio concorso di progettazione. Fra gli invitati, spesso consorziati in raggruppamenti provvisori, c’erano: il gruppo newyorkese composto da Richard Meier, Peter Eisenman, Charles Gwathmey (morto nel 2009) e Steven Holl; quello denominato United Architects (Ben van Berkel e Caroline Bos, Greg Lynn, Foreign Office, Kevin Kennon, Reiser + Umemoto), fra i più giovani; il già citato studio Peterson Littenberg (consulenti della LMDC) e quello inglese di Norman Foster; SOM; il gruppo THINK; Daniel Libeskind.

La proposta di Foster risultò la più prossima all’originario schema del vecchio World Trade Center: due altissimi edifici a geometria variabile, che, toccandosi in alcuni punti, collaborano reciprocamente alla propria stabilità e sicurezza. Quella di United Architects era invece piuttosto simile a un affollato groviglio di torri: funzionava bene nello skyline urbano ed era vertiginosamente inquietante dal basso, come testimonia l’enorme modello realizzato nello studio di Greg Lynn. Qualche riflessione supplementare richiederebbe la proposta del supergruppo newyorkese: sgraziata a prima vista, e come tale liquidata da molti critici, la soluzione elaborata dallo studio Meier, ancorché poco approfondita, si è rivelata nel tempo, con le sue due griglie verticali ortogonali fra loro, quasi un’astratta matrice di pieni e vuoti, una delle più interessanti e innovative. Fra gli invitati c’era anche Roger Duffy di SOM, con una proposta piuttosto modesta, nonostante la collaborazione di una giovane creativa di grande talento quale la giapponese Kazuyo Sejima (nel 2010 insignita del Pritzker Prize e nominata direttore della Biennale di architettura di Venezia). Molto prossimo alla vittoria arrivò il progetto del gruppo THINK, formato da Rafael Viñoly, Fred Schwartz e Shigeru Ban. Ma alla fine, fra le polemiche agitate dalla stampa e dai maggiori talk show televisivi e non senza una serie di teatrali colpi di scena fra gli architetti e le diverse agenzie di pubbliche relazioni che li rappresentavano, in un’atmosfera da circo mediatico senza precedenti in architettura nemmeno in una città come New York, il progetto vincitore del concorso risultò, com’è noto, quello elaborato da Daniel Libeskind.

Il progetto era sostanzialmente formato da cinque torri di altezza progressivamente ascendente; la principale, subito chiamata Freedom Tower, era sagomata in modo da ricordare alla lontana la Statua della Libertà e aveva un’altezza, in piedi, coincidente con l’anno in cui gli Stati Uniti conquistarono l’indipendenza: 1776 (541 metri). Il memorial previsto lasciava in una certa misura scoperta la cosiddetta fossa di Ground Zero, che, dopo la demolizione di ciò che restava delle torri e delle loro fondazioni, toccava il suolo granitico dell’isola di Manhattan. Il nuovo complesso appariva trasparente e svettante, sovraccarico di significati simbolici; le sue pur elevate cubature – tutte quelle rivendicate da Silverstein – non inficiavano l’immagine di un nuovo, esaltante skyline dominato dalla Freedom Tower, il cui profilo era forse anche memore del progetto del 1956 di Frank Lloyd Wright per il Mile High Skyscraper, il “grattacielo alto un miglio”.

Ma l’aggiudicazione del concorso, come talvolta accade, non chiuse i giochi. Un lungo braccio di ferro continuò a vedere impegnati, su fronti e a livelli diversi, oltre alla già citata Port Authority e a Silverstein, il governatore Pataki, il sindaco Bloomberg, altri politici come l’ex sindaco Giuliani, la LMDC, i rappresentanti delle vittime riuniti come s’è detto in diverse associazioni, vari comitati di pressione fra i quali New York New Visions, la stampa e l’opinione pubblica. Alla fine, con una decisione discutibile ma non priva di risvolti pratici, l’effettivo incarico della ricostruzione andò a una società a capo della quale era David Childs (che aveva nel frattempo ambiguamente ritirato la propria partecipazione al concorso) e che era formata al 51% dallo stesso studio SOM e per il restante 49% dallo Studio Daniel Libeskind.

Childs, pur tenendo sostanzialmente conto della proposta di Libeskind (non senza duri scontri con quest’ultimo), presentò una soluzione semplificata, con la quale riuscì comunque ad avviare rapidamente la progettazione esecutiva e l’effettiva ricostruzione. One WTC, la Freedom Tower, ad esempio, ha un’altezza più o meno pari a quella delle vecchie torri gemelle: soltanto l’antenna luminosa raggiungerà i 1776 piedi originariamente proposti da Libeskind.

Alcuni progettisti di fama internazionale sono poi stati coinvolti per la definizione degli altri edifici. Lo spagnolo Santiago Calatrava è stato incaricato da Port Authority della progettazione del WTC Transit Hub, il nodo di scambio ferroviario che, con i suoi 300.000 passeggeri al giorno, è uno dei più trafficati al mondo. Michael Arad e Peter Walker sono risultati vincitori del concorso (bandito nel 2003 e aggiudicato nel gennaio del 2004) per il Memorial Park in onore delle vittime con un progetto dal suggestivo titolo “Reflecting Absence”. Frank Gehry, in collaborazione con HOK Architects e il gigante dell’engineering Faithful + Gould, ha progettato il Performing Arts Center. Lo studio norvegese Snøhetta ha disegnato un centro culturale che include il WTC Memorial Pavilion e il Visitors Center. Tre torri, infine, estremamente efficienti sul piano energetico e su quello della sicurezza, completano il complesso: Two WTC di Norman Foster, con 78 piani, Three WTC di Richard Rogers, con 71 piani, e Four WTC di Fumihiko Maki, con 61 piani. Silverstein Properties, la società che gestisce il complesso, sta peraltro cercando di attirare inquilini di prestigio: dalla Condé Nast al governo cinese, dalla municipalità di New York alla catena alberghiera Four Seasons, oltre alle stesse Port Authority e Silverstein Properties (cioè i proprietari e i titolari del leasing).

I lavori procedono: le torri crescono; Bloomberg ha annunciato già nel dicembre 2010 il completamento della struttura del 9/11 Memorial e delle sue bellissime vasche e cascate ornamentali; centinaia gli alberi messi a dimora in vista del decennale. Non è facile prevedere oggi la qualità che un intervento così esteso e stratificato, una volta ultimato, sarà in grado di raggiungere. Siamo lontani dalla scintillante durezza simbolica del progetto originariamente proposto da Libeskind. Ma la professionalità dei progettisti – americani, europei e giapponesi – coinvolti, fra mille compromessi, incertezze, ritardi e difficoltà economiche (cose che solitamente non fanno un gran bene all’architettura), lascia tuttavia sperare. Oggi ancora gravemente ferita, Lower Manhattan, punta meridionale di un’isoletta rocciosa al centro di una delle aree metropolitane più grandi del mondo, sarà forse di nuovo il centro del centro del mondo.

 

 


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