La Chiesa cattolica del XXI secolo guarda a sud

Di John L. Allen jr. Martedì 26 Aprile 2011 15:54 Stampa
La Chiesa cattolica del XXI secolo guarda a sud Illustrazione: Lorenzo Petrantoni

I cambiamenti demografici del XX secolo hanno portato a una crescita esponenziale del numero di cattolici nell’emisfero meridionale. Ogni riflessione sulla Chiesa cattolica, sulla sua dottrina e sulle linee guida della sua azione non può non tenere conto di un punto di vista e di sensibilità non più solo occidentali ma globali.

Un noto aforisma di Auguste Comte afferma che la demografia è il nostro destino. Se è così, il destino della Chiesa cattolica nel XXI secolo si foggerà nell’emisfero meridionale. Due terzi della popolazione cattolica mondiale, oggi un miliardo e duecento milioni di persone, vivono in America Latina, in Africa e in Asia ed entro la metà del secolo questa proporzione raggiungerà i tre quarti.

Visto a posteriori, questo spostamento da nord a sud del baricentro della Chiesa è stato il fenomeno più rilevante della storia cattolica del XX secolo. Solo nell’Africa subsahariana la popolazione cattolica è passata da 1,9 milioni di persone nel 1900 a quasi 140 milioni nel 2000, con un tasso di crescita verticale vicino al 7000%. Una crescita di tali proporzioni ha fatto nascere un nuovo modo di pensare tra i leader cattolici del Sud del mondo, che oggi non si ritengono più soci di secondo piano di un’impresa multinazionale con sede centrale in Europa, ma si considerano invece come i rappresentanti delle comunità cattoliche più dinamiche della Terra, pronti a discutere in modo maturo del futuro della Chiesa con le proprie controparti di Roma o di altri centri. In altri termini, si avverte la sensazione che sia arrivato il loro momento.

Il compianto sociologo Neil Postman faceva una distinzione tra cambiamento “per addizione” e cambiamento “organico”. Il primo inserisce un nuovo elemento in un insieme pre-esistente, il secondo trasforma tutti gli elementi di un sistema nello stesso tempo. Il movimento da nord a sud del cattolicesimo si configura come un classico caso di cambiamento organico, che influenza il pensiero cattolico sia riguardo alle tematiche considerate prioritarie, sia rispetto alle prospettive.

 

Le tematiche prioritarie per i cattolici del Nord e del Sud del mondo

Se fermate per la strada un europeo o un nordamericano medio e gli domandate quali siano i problemi più importanti che deve affrontare la Chiesa cattolica, nove volte su dieci vi verrà esposto un elenco pressoché identico: donne, contraccezione, aborto, diritti dei gay, lotte per il potere e, ovviamente, la crisi provocata dallo scandalo degli abusi sessuali.

Due caratteristiche di questo schema sono prive di valore: in primo luogo, esse sono scontate e rivelano che il dibattito su questi temi è rimasto nella sostanza cristallizzato da decenni. Se un segnale della vitalità di un’istituzione sta nel saper trovare nuovi argomenti su cui dibattere, questo fatto induce a pensare che il carburante intellettuale della Chiesa cattolica in Occidente sia sceso a un livello pericolosamente basso. In secondo luogo, molti degli argomenti elencati hanno un carattere ad intra, ovvero riguardano la vita interna della Chiesa, ciò che la Chiesa insegna, chi ha la facoltà di ricevere gli ordini, chi deve detenere il bastone del comando.

Al contrario, le tematiche che, di solito, interessano il cattolico del Sud del mondo sono molto più rivolte ad extra. I cattolici dell’America Latina, dell’Africa e dell’Asia possono avere opinioni assai divergenti su varie questioni, come il sacerdozio delle donne e l’autorità del papa, ma ciò che tende a unirli è il fatto che il loro pensiero non si concentra in primo luogo su questi aspetti. La loro attenzione è piuttosto rivolta al modo in cui la Chiesa può agire come soggetto di cambiamento nel mondo nel suo insieme.

Ad esempio, nel corso del recente sinodo dei vescovi sul Medio Oriente, i leader cattolici di quell’area hanno elaborato una prospettiva audace: che i cristiani del Medio Oriente, pur in un numero che tende a ridursi, possano, in un certo senso, fungere da catalizzatori di una rivoluzione democratica che non sia imposta da bombardamenti occidentali, ma che si sviluppi e cresca dall’interno. Non c’è luogo nel mondo cattolico come il Medio Oriente, infatti, nel quale i leader cattolici siano più favorevoli al laicismo, perché per loro si tratta di una questione di sopravvivenza. In questa parte del mondo l’alternativa ai diritti umani, alla libertà religiosa e alla legalità è una teocrazia islamica o il caos totale, i cui sanguinosi effetti per le minoranze cristiane sono sotto gli occhi di tutti oggi in Iraq.

Nell’Africa subsahariana la primissima preoccupazione dei cattolici tende a essere la lotta contro la corruzione, con l’obiettivo di formare una nuova generazione di leader civili capaci di difendere il bene comune contro gli interessi personali e le alleanze fondate sui legami di sangue e tribali. Tale obiettivo è frutto di una penetrante diagnosi: le nazioni ricche potrebbero raggiungere gli obiettivi del millennio, aprire i propri mercati, fare a meno degli aiuti, pagare completamente la Tobin tax, ma le cose non cambierebbero se il trasferimento di ricchezze che ne deriverebbe finisse nelle tasche di politici corrotti e delle aristocrazie economiche.

In Asia la Federazione delle conferenze episcopali del continente ha elaborato quello che viene chiamato il “triplice dialogo”, ovvero una maggiore attenzione verso le culture dell’Asia, le grandi tradizioni religiose asiatiche e i poveri. Date le realtà del continente, i leader cattolici sono inevitabilmente spinti a investire molte più energie intellettuali in altri temi, ad esempio nel dialogo interreligioso, piuttosto che nelle questioni interne che si trova a fronteggiare la Chiesa cattolica.

In America Latina gran parte dei teologi cattolici afferma che la massima attenzione per loro è rivolta alla povertà, soprattutto per il modo in cui l’ordine globale neoliberale colpisce le persone che restano escluse dalle nuove opportunità. Anche coloro che tendono a focalizzarsi su temi religiosi più tradizionali in generale riflettono di più sulla rapida diffusione del protestantesimo pentecostale o evangelico che sulle vicende interne della Chiesa cattolica. Il frate passionista belga Frans Damen, un veterano del corpo vescovile della Bolivia, alla fine del secolo scorso era arrivato a scoprire che nel XX secolo le conversioni dal cattolicesimo al protestantesimo in America Latina avevano in realtà superato per numero quelle della Riforma protestante in Europa nel XVI secolo.

Da tutto questo si può dedurre che, siccome i cattolici del Sud del mondo sono quelli che sempre più influenzano la Chiesa del XXI secolo, l’orientamento generale tenderà a rivolgersi sempre più verso tematiche ad extra.

 

Prospettive future

Anche quando rivolgono lo sguardo verso le tematiche che in Occidente sono considerate prioritarie, i cattolici del Sud del mondo lo fanno da un punto di vista sorprendentemente diverso. Lo illustrano due esempi: la crisi seguita alla denuncia degli abusi sessuali e il dialogo interreligioso.

Fin da quando è esploso lo scandalo, un elemento centrale di critica verteva intorno al fatto che la Chiesa cattolica si considera troppo spesso “al di sopra della legge”, ritenendo di non dover rispondere alla polizia, agli organi inquirenti e ai tribunali civili. I gruppi di appoggio alle vittime, i legali, i media hanno preteso più volte che il Vaticano imponesse una politica di piena e totale collaborazione con le autorità civili.

Gran parte degli europei e dei nordamericani ritiene che questa esigenza sia del tutto ragionevole, perché considera la Polizia e la magistratura organi corretti e affidabili. Al contrario, in certe zone del Sud del mondo una politica del genere suscita timore tra i leader cattolici, che vivono in paesi in cui lo Stato, con la sua Polizia e i suoi tribunali, è apertamente ostile nei confronti della Chiesa.

In India, ad esempio, la Chiesa cattolica è ampiamente rispettata, nonostante la sua limitata incidenza sociale, soprattutto grazie alla sua vasta rete di scuole, di ospedali e di centri di assistenza sociale. Eppure essa ha attirato l’ira dei radicali hindù che periodicamente lanciano allarmi sul presunto proselitismo cattolico e spesso scatenano attacchi contro obiettivi cattolici per conquistarsi qualche vantaggio politico.

Lo scorso anno nello Stato indiano del Karnataka è sorta una disputa di natura territoriale quando i radicali hindù hanno annunciato il progetto di costruzione di un tempio accanto a una scuola della Santa Croce. Pretendevano che la scuola cedesse parte del proprio terreno per costruirvi una strada di accesso al tempio, ma hanno ricevuto il rifiuto del vicerettore, fratel Philip Noronha. La Polizia locale, operando secondo le istruzioni di funzionari pubblici appartenenti al movimento radicale hindù, ha arrestato Noronha con l’accusa di abusi sessuali su tre studentesse. L’arresto è stato considerato da molti un modo per liberarsi di Noronha per consentire ai radicali di ottenere ciò che volevano.

Si pensi anche al caso dell’Ucraina, dove la Chiesa greco-cattolica ha svolto un ruolo fondamentale nella Rivoluzione arancione che portò al potere un governo moderato filo-occidentale. Oggi, invece, l’Ucraina è nuovamente sotto il controllo di un regime filo-russo, che considera la Chiesa greco-cattolica una minaccia. Lo scorso anno il rettore dell’Università cattolica è stato sottoposto a un interrogatorio dai servizi di sicurezza ucraini, in pratica il vecchio KGB con un altro nome. Anche altri membri della facoltà hanno ricevuto telefonate sui propri cellulari, i cui numeri non erano nell’elenco, da parte di agenti della sicurezza. In sostanza un modo per dire: «Sappiamo come arrivare a voi». Di conseguenza, ai leader cattolici di questi due paesi una politica di collaborazione con la Polizia e la magistratura non appare così scontata come alla maggioranza delle persone in Occidente.

Un altro campo in cui i punti di vista non convergono è quello dell’atteggiamento della Chiesa cattolica verso le altre religioni. L’ascesa del Sud del mondo è un fattore di primo piano nel passaggio dall’ebraismo all’Islam come elemento paradigmatico del rapporto tra il cattolicesimo e le altre religioni. Tale transizione era già in corso, in parte perché con l’andar del tempo è andato attenuandosi il forte impatto emotivo della tragedia dell’Olocausto che aveva ispirato i pionieri del dialogo tra ebrei e cattolici dopo il Concilio Vaticano II (1962-65). Gli attentati terroristici dell’11 settembre e la “guerra al terrore” globale hanno conferito all’Islam una posizione privilegiata.

Un altro pezzo importante del puzzle è rappresentato dalla psicologia dei cattolici del Sud del mondo. In gran parte dell’emisfero meridionale l’ebraismo non ha un’importante incidenza sociale, mentre i leader cattolici del Medio Oriente, dell’Africa e dell’Asia vivono spesso a fianco a fianco con popolazioni musulmane molto numerose.

Questo passaggio dall’ebraismo all’Islam come principale interlocutore ha enormi conseguenze sull’approccio interreligioso della Chiesa cattolica. Il dialogo con l’ebraismo si è svolto all’ombra dell’Olocausto e di secoli di antisemitismo cristiano e, poiché era quello che definiva ogni rapporto interreligioso, i cattolici avviavano ogni dialogo con un esame di coscienza: quando si presentava un problema, istintivamente si chiedevano che cosa c’era di sbagliato dalla parte cattolica, quali dottrine o quali pratiche dovevano essere riformate per rendere più tollerante la Chiesa.

Ora che l’Islam è diventato il prisma attraverso il quale i cattolici guardano ai loro rapporti interreligiosi, sembra prevalere un approccio più equilibrato. I cattolici si dimostrano più disposti a respingere e non solo a denunciare i propri errori, ma anche quelli dei loro interlocutori.

In realtà, il nuovo rapporto con l’Islam indica che il nuovo approccio cattolico ha superato la fase del “tè e biscottini”, dove il dialogo consiste semplicemente in uno scambio di cortesie. Oggi i cattolici sono più propensi a sollevare questioni come quelle del terrorismo, della libertà religiosa, di quella che il Vaticano chiama “reciprocità” – intendendo con questo che se gli immigrati musulmani in Occidente rivendicano una tutela legale, le minoranze cristiane nelle società a maggioranza islamica dovrebbero godere della stessa protezione. È questa la ricetta per un dialogo interreligioso più problematico, ma anche più concreto.

I cattolici del Sud sono particolarmente aperti a un dialogo interreligioso più deciso, perché non si considerano eredi di nessuna colpa storica per le Crociate, l’Inquisizione o l’Olocausto: essi ritengono che di queste pagine oscure della storia sia responsabile l’Occidente, non la Chiesa cattolica. In altre parole, essi non si considerano istintivamente oppressori, ma piuttosto vittime.

L’arcivescovo John Onaiyekan di Abuja, in Nigeria, ad esempio, è convinto che un punto debole dell’approccio della Chiesa all’Islam risieda nell’eccessiva dipendenza dai cattolici mediorientali, in gran parte cresciuti in mezzo a schiaccianti maggioranze musulmane. In questo contesto, sostiene Onaiyekan, essi nutrono aspettative limitate nei confronti dei propri vicini islamici: «Finché non ci uccidono, va tutto bene». Con un atteggiamento del genere si punta troppo in basso. I cattolici devono insistere per far accettare ai musulmani la libertà religiosa come una questione di principio, afferma ancora l’arcivescovo, e non come una mera cittadinanza di seconda categoria.

Questi punti di vista globali caratterizzeranno sempre di più la vita cattolica del XXI secolo e il tentativo di comprendere la Chiesa soltanto attraverso occhi europei o nordamericani renderà sempre meno giustizia alla sua complessità.