L'evoluzione del Trattato costituzionale europeo e le prospettive future dell'Unione

Di Ernst Stetter Venerdì 29 Febbraio 2008 20:59 Stampa
Molta strada è stata percorsa tra la firma dei Trattati di Roma nel 1957 e il cinquantesimo anniversario dell’Unione europea celebrato a Berlino nel marzo 2007. Dopo la mancata ratifica del Trattato costituzionale da parte di due stati membri dell’Unione, il progetto europeo rischia di orbitare all’infinito senza concludersi. In questo momento l’UE si trova realmente a girare su se stessa, dopo essere entrata in una fase di riflessione sul futuro dell’Europa. Se nei Paesi Bassi oggi si parla poco della Costituzione, in Francia – dove sia a sinistra sia a destra la si considera più o meno defunta – sembra si sia imboccata definitivamente una spirale discendente.

Il Trattato costituzionale è stato siglato da tutti i capi di Stato e di governo dell’Unione europea a Roma, il 29 ottobre 2004. Per molti rappresentanti, in particolare per coloro i quali siedono nella Commissione per gli affari costituzionali del Parlamento europeo, la situazione è chiara e razionale: pacta sunt servanda. Di conseguenza, diciotto Stati membri hanno già interamente ratificato la Costituzione mediante gli strumenti parlamentari o con un referendum. Per questa larga maggioranza di Stati, dunque, ogni successivo emendamento al Trattato equivarrebbe a cedere diritti già acquisiti o concordati. D’altro canto, dopo il non e il nee di Francia e Paesi Bassi, i paesi rimanenti non hanno ancora fissato una data per la ratifica, ma non per questo i tempi di approvazione si bloccano.

Quasi tutti gli Stati membri vedono poco spazio per modificare la sostanza della Costituzione – tutt’al più sono possibili alcuni interventi di chirurgia estetica sulla forma – e preferiscono citare il motto «fermi sui principi, flessibili sulla forma». L’attuale versione del Trattato costituzionale è vista, infatti, come il miglior compromesso raggiunto dopo le lunghe procedure di mediazione della Convenzione sul futuro dell’Europa. Ogni nuovo tentativo porterebbe solo a un accordo peggiore di quello già negoziato. Ricomincerebbe inoltre il carosello delle ratifiche, dal momento che ogni emendamento al Trattato avrebbe bisogno dell’accordo di tutti i membri.

Una Europe à la carte, in cui ogni Stato membro possa scegliere solo quanto di suo gradimento guasterebbe un progetto costituzionale così significativo. L’UE ha bisogno di rimanere un’entità unitaria con valori, regole e trattati riconosciuti da tutti e applicati equamente a tutti, in modo da essere forte al suo interno come all’esterno. Nel periodo immediatamente successivo al «no» francese e olandese al Trattato costituzionale europeo, si sentivano in tutta Europa voci che minacciavano di ritirare l’approvazione a ulteriori allargamenti, nel caso non ci fossero stati progressi sulla questione costituzionale. Con l’ingresso di Romania e Bulgaria, molti Stati membri e la stessa Commissione europea considerano praticamente congelato il meccanismo di allargamento quasi automatico che abbiamo conosciuto nelle passate trattative. Ciò allenta le pressioni e può offrire il tempo necessario per realizzare il progetto costituzionale su una base più stabile.

Nel gennaio 2007 la Germania ha assunto la presidenza dell’UE e, in giugno, il Consiglio europeo dovrà discutere anche il progetto di Costituzione. Il governo tedesco ha dunque un ruolo cruciale per la ripresa del processo costituzionale. Berlino ha, infatti, anche il mandato di redigere, entro la fine del semestre di presidenza, un rapporto nel quale vengano suggerite le strategie per uscire dalla crisi costituzionale, e il governo tedesco non perde occasione per enfatizzare la necessità di un Trattato costituzionale.

I costi di una «non Costituzione» – che avrebbe ripercussioni in numerosi ambiti all’interno dell’Unione europea, quali la politica estera, le migrazioni, il terrorismo e le politiche energetiche – possono rappresentare un buon argomento a favore del completamento del progetto. Tali costi sono più difficili da quantificare di quelli del mercato unico o dell’unione monetaria; certamente però, sarebbe elevato – quanto basta per convincere i detrattori del progetto – il numero di aree in cui rimarrebbe ristretto lo spazio d’azione di una UE priva di un Trattato costituzionale, con conseguenti ripercussioni su ogni singolo cittadino. Sarà da vedere fino a che punto la presidenza tedesca riuscirà a fare effettivi progressi su questo tema, soprattutto considerando che nel maggio 2007 la Francia è chiamata ad eleggere un nuovo presidente. Anche se il governo tedesco ha chiesto alla Francia di non porre condizioni, solo dopo la decisione dell’elettorato francese sapremo in quale direzione Parigi intenda muoversi sulla questione costituzionale.

Una possibilità in più potrebbe essere offerta dalle celebrazioni per il cinquantesimo anniversario del Trattato di Roma, durante le quali una dichiarazione politicamente rilevante e con una prospettiva di lungo termine potrebbe iniettare nuova linfa vitale al progetto europeo nel suo insieme.

L’intera questione del nel Trattato costituzionale e dei futuri allargamenti deve essere posta nel contesto di urgenza in cui l’Europa è chiamata a definire le proprie regole di governo e le proprie politiche, alla luce di un’Europa e un mondo in costante cambiamento. Questo dibattito ha bisogno di altro tempo per svilupparsi, poiché attiene alla questione cruciale ed essenziale del ruolo di questo continente nel Ventunesimo secolo. In Europa c’è attualmente un ampio dibattito su questo tema, e continua ad esserci molta confusione. Questo è naturale. Gli europei non hanno mai affrontato la questione chiave di quello che si aspettano dall’Unione europea. La maggioranza dei dibattiti sono caratterizzati da considerazioni a breve termine, spesso puramente tattiche, e da una miopia nazionale. Pertanto, sarebbe ora di elevare il dibattito sulla questione costituzionale e sull’allargamento alle sfide autentiche che oggi è necessario affrontare.

Sessanta anni dopo la seconda guerra mondiale la pace in Europa viene data per scontata, al pari della libertà e dello Stato di diritto. Le guerre sembrano piaghe di altri tempi. I cittadini europei godono oggi di felicità e prosperità: viaggiano, apprezzano la cultura e lavorano all’interno della struttura sociale europea. Occorre anche sottolineare che il progetto dell’integrazione europea è unico nel suo genere. Guardando ai passati due millenni, dall’antico Egitto al tempo di Alessandro Magno e all’Impero romano, fino al fascismo di Hitler di sessanta anni fa e all’imperialismo stalinista, mai nella storia mondiale i popoli e le nazioni avevano così liberamente deciso di unirsi. Si potrebbe perciò dire che, in una prospettiva storica, l’Europa nel suo insieme ha compreso la necessità di sviluppare una strategia unitaria basata su interessi comuni. Tuttavia, nel mondo che prende forma ai nostri giorni, l’Unione europea è a un punto di svolta della sua storia. Stiamo affrontando numerosi punti decisivi che riguardano il nostro futuro: primo, l’obiettivo ultimo della stessa Unione non è ancora chiaramente definito; secondo, il tema dei limiti territoriali: per la prima volta l’Unione solleva la questione dei propri confini; terzo, le istituzioni e il loro funzionamento. Tali questioni lasciano tuttavia ai cittadini europei la sensazione che i loro interessi non siano presi seriamente in considerazione. Essi avvertono una insicurezza globale alla quale vanno aggiunti l’inasprirsi delle disuguaglianze sociali e la diminuzione del benessere. Il risultato è la disillusione nei confronti dell’Europa democratica, che traspare dall’astensionismo degli elettori, dall’aumento dei voti per i partiti più estremisti e, parallelamente, dalla contrazione della base elettorale dei partiti tradizionalmente rappresentati in parlamento.

Da alcuni anni e all’improvviso, l’Europa ha smesso di essere l’Europa del successo e della prosperità per diventare l’Europa dei progetti indeterminati, piena di rischi e contestata dai suoi cittadini circa la direzione finale verso cui muoversi. La questione dei confini territoriali dell’Europa e dei suoi obiettivi muta a seconda di come è formulata; la posta è sul piatto: un’unione politica o un vasto mercato per il libero scambio!

Oggi l’Europa annovera quarantacinque Stati, più della metà dei quali sono membri dell’Unione europea. Per tutti i paesi della periferia orientale e meridionale del continente l’ingresso nell’Unione è divenuto un obiettivo e un’aspirazione verso cui esiste una forte adesione. L’Europa non ha mai definito i propri confini, il proprio territorio o il numero degli Stati membri. Il Trattato costituzionale menziona semplicemente due requisiti per l’adesione: essere europei e difendere e rispettare i valori europei, come la democrazia, la libertà, la dignità umana, lo Stato di diritto, la tolleranza e l’uguaglianza tra i sessi.

È importante sapere se «la nostra Europa» continuerà ad avanzare, ad organizzarsi e affermarsi sulla scena mondiale, o se i meccanismi che l’hanno sorretta per cinquant’anni entreranno in crisi. La questione è rilevante se vogliamo rimanere fedeli ai padri fondatori e alle personalità politiche europee più eminenti: Jean Monnet, Robert Schuman, e più tardi Charles de Gaulle e François Mitterrand, Konrad Adenauer per la Germania e successivamente Willy Brandt, Helmut Schmidt e anche Helmut Kohl, Alcide De Gasperi per l’Italia e Paul-Henri Spaak per il Belgio, fino a Jacques Delors e persino Walter Hallstein. È necessario che, attraverso un’apertura reciproca, si elabori una regola comune che ci consenta di vivere insieme. Questo vale per la società europea, per l’economia europea, per la cultura europea e, ovviamente, per le istituzioni politiche europee.

Sul lungo periodo – si pensi al 2030-2050 – un’espansione europea entro i limiti massimi consentiti dalle condizioni espresse dal Trattato costituzionale appare un’ipotesi plausibile e molto verosimile. Che cosa sono 600 milioni di europei in un mondo di dieci miliardi di persone? Essi vedranno ovviamente l’approdo all’Unione europea come una sorta di protezione contro i capricci e le pressioni del mondo esterno. Ma sul breve periodo – all’incirca fino al 2020 – le prospettive di ulteriori ingressi sono molto più limitate. Dopo l’allargamento a venticinque del 1° maggio 2004 e a ventisette dello scorso gennaio, sembra che l’UE abbia bisogno di una «pausa creativa», per affrontare il drastico aumento dell’eterogeneità interna e per consolidare la propria governance. Con tutta probabilità questo processo durerà qualche anno, ma questa è un’occasione. Durante questo periodo, l’UE non può affrontare l’ingresso di nuovi membri, che rischierebbero di far lievitare le tensioni interne fino al punto di rottura.

L’Unione europea deve resistere pertanto alle pressioni dei paesi vicini che chiedono un ingresso prematuro. È l’attuale UE che deve decidere quando i tempi siano maturi per aprire a nuovi membri. Al momento di affrontare queste decisioni, sarà però necessario sentire il polso dei propri cittadini. Le recenti proteste in molti Stati membri contro l’ingresso della Turchia hanno scoperto un nervo sensibile, contrario ad imbarcare troppi paesi e troppo in fretta, mostrando che ci sono limiti alla solidarietà inter-europea. Per queste ragioni, non è affatto scontato che la Turchia entri a far parte dell’Unione verso il 2015, come l’UE ha invece fatto credere. Sono almeno quattro gli Stati membri – Francia, Germania, Austria e Slovacchia – che hanno serie obiezioni da porre. Essi preferirebbero che l’UE offrisse alla Turchia una «partnership privilegiata », ma nulla più. Dal momento che ogni nuovo allargamento richiede l’unanimità e la ratifica da parte di ogni Stato membro, le probabilità di pieno ingresso della Turchia sono al momento scarse, soprattutto perché ogni nuova adesione all’Unione europea sarà soggetta a un referendum in Francia. Tutto ciò potrebbe cambiare nel giro di dieci-quindici anni, in un contesto globale diverso, quando i cittadini europei avranno meno obiezioni all’ingresso di nuovi membri. Pertanto, nella prospettiva attuale, è difficile immaginare che l’UE porti avanti negoziati che abbiano come obiettivo la piena adesione di nuovi Stati. Se consideriamo le prospettive che l’UE nel suo lungo cammino ha dato finora agli altri paesi, essa è ancora aperta a ulteriori allargamenti. Bulgaria e Romania sono ora membri a pieno titolo. La Croazia potrebbe unirsi presto, se risponderà alle aspettative dell’UE e della comunità internazionale. È pertanto probabile che prima della fine del decennio l’Unione europea raggiunga i ventotto membri. La situazione è più complessa per gli altri paesi dei Balcani occidentali (Serbia, Montenegro, Kosovo, Bosnia-Erzegovina, Macedonia e Albania). L’UE ha prospettato a questi paesi l’eventualità di diventare membri, ma il percorso sarà accidentato e molto dipenderà dai processi interni di riforma. Ciò implica che, nonostante prevalga oggi, nella maggior parte degli Stati membri, un diffuso sentimento ostile all’allargamento, l’Unione è lontana dall’aver raggiunto i propri confini esterni e ci si può ragionevolmente aspettare che si realizzino nuovi ingressi nei prossimi due decenni.

Negli ultimi cinquant’anni, l’Unione europea è stata la principale forza trainante delle profonde trasformazioni che hanno avuto luogo nel Vecchio continente, soprattutto in campo economico e giuridico. Ha aiutato i nuovi arrivati, in particolare gli ultimi dodici Stati membri, a rivoluzionare i propri sistemi di governo, l’economia e la società. Grazie alla costante azione delle istituzioni comunitarie, gli europei oggi possono godere del più avanzato apparato normativo a livello mondiale e dei migliori standard tecnici per i prodotti alimentari, per la protezione dei consumatori e dell’ambiente, delle norme sui pesticidi, sulle telecomunicazioni, sulla concorrenza. Tali standard sono divenuti un punto di riferimento per gli altri paesi, a partire dai più vicini.

L’UE non ha avuto eguale successo nel sottoporre a revisione e nel riformare le proprie politiche. Fino a oggi non è riuscita ad affrontare di petto i temi forti dell’agenda europea delle riforme: mercato del lavoro, regime fiscale, salute e previdenza sociale, istruzione, ricerca e sviluppo e politica estera comune. Ogni Stato membro vuole mantenere il controllo in questi campi strategici, perché incidono non poco sulla competitività di ciascuno. Il corpo delle leggi finora elaborato dall’UE ha reso quasi impossibile l’armonizzazione delle politiche europee in ambiti così sensibili, che rimarranno pertanto tabù per molti anni ancora. Per rimediare, sarà necessario ricorrere, last but not least, agli strumenti della comunicazione. Non si può continuare a operare senza il coinvolgimento dei cittadini. Dovranno essere escogitati modi creativi e strumenti non burocratici per dialogare con gli abitanti dell’Unione, che hanno il diritto di sapere che cosa c’è di positivo nell’UE e dove invece essa non è in grado di intervenire efficacemente. L’UE dovrebbe esprimersi con una maggiore modestia e spiegare nel dettaglio ai cittadini quali sono le proprie responsabilità e quelle degli Stati membri, specialmente sulle politiche per l’occupazione e la sicurezza sociale.

La comunicazione da sola, però, non può produrre nei cittadini europei una maggiore soddisfazione e un’identificazione con l’Unione. I capi di Stato e di governo europei hanno discusso questi temi durante l’ultimo Consiglio europeo lo scorso dicembre; uno dei punti della dichiarazione finale affermava: «L’Unione europea sottolinea l’importanza di assicurare che l’UE riesca a mantenere e ad accrescere il proprio sviluppo.

Il processo di allargamento deve tenere conto della capacità dell’Unione di assorbire nuovi membri. Con il progressivo all’allargamento dell’Unione, affinché l’integrazione europea abbia successo è necessario che le istituzioni europee funzionino efficacemente e che le politiche dell’UE siano ulteriormente sviluppate e finanziate in maniera sostenibile ». In conclusione: se l’Unione sta bene, c’è spazio per l’allargamento. Perciò, i limiti propri dell’UE non sono definiti solamente dalla geografia, ma dai valori, da istituzioni ben funzionanti, da progetti ben definiti e da politiche comuni.