Identità

Di Francesco Remotti Lunedì 28 Marzo 2011 16:11 Stampa
Identità Illustrazione: Maurizio Santucci

Aparte l’uso logico e ontologico attestato nella storia della filosofia occidentale, il concetto di identità ha conosciuto una diffusione sempre più estesa nel linguaggio sociale e politico, al punto da indurre alcuni studiosi a parlare del nostro tempo come dell’«epoca dell’identità», ovvero come di un tempo segnato dal mito dell’identità.

 

Aparte l’uso logico e ontologico attestato nella storia della filosofia occidentale, il concetto di identità ha conosciuto una diffusione sempre più estesa nel linguaggio sociale e politico, al punto da indurre alcuni studiosi a parlare del nostro tempo come dell’«epoca dell’identità», ovvero come di un tempo segnato dal mito dell’identità.

Che cosa significa “identità”? È indubbio che il significato delle parole dipende dall’uso che se ne fa (si pensi, ad esempio, alla parola “libertà”); è anche vero, però, che i concetti presentano certe costanti che tendono a riemergere nei diversi impieghi. Nel caso dell’identità, è facile comprendere come essa possa configurarsi ora come uno strumento per rivendicare diritti da parte di soggetti che esigono un riconoscimento sociale, ora come un’arma per difendere privilegi ed erigere barricate. Ciò che accomuna i diversi usi è però l’idea, più o meno esplicita, che l’identità corrisponda a una essenza, di cui si afferma l’autonomia.

Per capire meglio come funziona la logica dell’identità occorre rivolgersi ai soggetti collettivi che l’adottano. Questi soggetti sono, molto semplicemente, dei “noi”. I “noi” di cui facciamo parte (famiglie, insiemi di amici, partiti politici, movimenti religiosi, gruppi e strutture politiche) sono vari, molteplici e multiformi, e non tutti i “noi” rivendicano la propria identità. Proponiamo a questo punto una tesi importante e decisiva (e ovviamente discutibile): è inevitabile che si costituiscano dei “noi” e che gli individui ne facciano parte; non è necessario però che i “noi” possiedano, rivendichino o affermino una loro identità. Ovvero: non si può vivere senza qualche “noi”; ma i “noi” possono vivere senza richieste di identità.

Per spiegare meglio questo punto occorre introdurre un altro concetto, quello di riconoscimento. Abbiamo detto prima che i “noi” (qualunque forma essi abbiano) sono irrinunciabili; qui aggiungiamo che irrinunciabile è anche il loro riconoscimento. I “noi”, come soggetti collettivi, chiedono di essere riconosciuti, e spesso lottano per questo obiettivo. Ma riconoscimento non è la stessa cosa che identità. I “noi” si battono perché venga riconosciuta la loro esistenza, perché vengano riconosciuti certi loro caratteri (linguistici, culturali), certi loro bisogni, soprattutto certi loro diritti. Possono anche battersi – ma non è indispensabile – affinché venga riconosciuta la loro identità.

I “noi” si costituiscono mediante processi storici: alla loro base ci sono accordi, patti, convenzioni di diversa natura. Far parte di un “noi” significa riconoscere, condividere e talvolta rinnovare (anche trasformare) questi accordi. Di questi tempi (centocinquant’anni dall’Unità d’Italia), gli italiani sono chiamati a riflettere sul loro stesso “noi” e l’idea di identità nazionale viene rievocata dalle più alte cariche dello Stato insieme ai simboli che a questo “noi” sono stati conferiti (bandiera, inno nazionale ecc.). Si comprende bene come la rievocazione dell’identità abbia il significato – oggi – di arginare i preoccupanti processi di disgregazione del tessuto sociale, di richiamare i valori della solidarietà nazionale e persino di rinnovare, nonostante certi spettacoli della politica attuale, l’orgoglio di appartenenza a una “patria”, a un “paese”, a un “noi”, per costituire i quali vi sono stati sacrifici di individui e di generazioni. I miti possono avere questa funzione corroborante, e l’identità è un mito. L’identità è un’idea che trasforma in un “è”, in un’“essenza”, in una “sostanza”, tutto un insieme eterogeneo di azioni, di processi, di conflitti, di aspirazioni, di imposizioni. In effetti, l’identità di questo “noi” dov’è? Quello che c’è sono soltanto le manifestazioni di questo “noi”, dei suoi accordi e dei suoi disaccordi, delle sue coesioni e delle sue lacerazioni, delle sue potenzialità e dei suoi fallimenti. La celebrazione dei centocinquant’anni dell’Unità nazionale è un’occasione importantissima e irrinunciabile per rinnovare le ragioni di un “noi”, indotto a riesaminare i propri accordi per decidere se confermarli o trasformarli, riempiendoli eventualmente di nuovi contenuti, di nuovi valori, di nuove prospettive.

La critica dell’identità si riduce forse a una questione di parole? In un certo senso sì, ben sapendo però che le parole hanno un peso e che certe parole – più di altre – hanno un effetto di trascinamento e di coinvolgimento spesso inconsapevole. Ebbene, identità è, da questo punto di vista, una parola pericolosa. Che sia pericolosa lo si intuisce, tanto per cominciare, dal fatto che – in questo frangente – non se ne può quasi fare a meno, come se questa parola, con i suoi contenuti più o meno segreti, avesse finito per “possedere” le nostre menti. Altro pericolo consiste nel far passare per realtà, per risultato conseguito, ciò che al massimo è un’aspirazione, un obiettivo che si intende perseguire: obiettivo di unità, di coerenza, di permanenza. Ma pensare di continuo all’identità significa anche mettere da parte una domanda fondamentale: siamo proprio sicuri che per ogni “noi” gli obiettivi dell’unità, della coerenza, della permanenza, in definitiva della chiusura, siano gli unici fondamentali? Più che di erigere barriere a propria difesa i “noi” hanno bisogno di intessere relazioni (non solo commerciali) con gli “altri”. L’“alterità” e persino l’“alterazione” sono momenti vitali e indispensabili per ogni “noi”. Il mito dell’identità acceca, in quanto costringe i “noi” a concentrarsi solo su se stessi e, nel contempo, a trasformare gli “altri” in minacce, in nemici. In giro possono esserci tanti nemici, ma è indubbio che l’identità li moltiplica all’infinito: tutti gli altri, da potenziali risorse quali sono, risultano trasformati in colo-ro che con la loro semplice presenza minacciano la nostra identità. Accecati dall’identità, si fa presto a scivolare lungo una china ancora più pericolosa: unità, coerenza, permanenza, integrità, purezza sono tutti modi di qualificare l’identità che spingono inesorabilmente i “noi” lungo un sentiero fatto via via di separazioni, di respingimento, di annullamento (fisico, oltre che mentale) degli altri. L’Europa con il suo Novecento ha ampiamente dimostrato questa china, quando con il mito della purezza della razza ha sterminato in poco tempo, nei campi di concentramento nazisti, milioni di ebrei, oltre che zingari e omosessuali. Ma l’identità, come ci fa chiudere gli occhi di fronte agli altri, così ci fa chiudere gli occhi anche verso il futuro: a pensarci bene, vittime di questo mito non sono soltanto gli altri che vengono da fuori, sono anche gli altri che sorgono dall’interno del “noi”: i nostri discendenti, i nostri figli. Con l’identità i “noi” evitano di attrezzarsi per il futuro e di pensare, con lungimiranza e saggezza, a coloro che lo abiteranno.

In conclusione, l’identità è un mito molto povero, espressione perfetta di una cultura impoverita, come quella del capitalismo, che ha paurosamente ridotto i “noi” da soggetti relazionali a soggetti unicamente mossi dai loro immediati interessi materiali, privi di ogni capacità di estendere lo sguardo verso i problemi incombenti della convivenza con i propri simili e della convivenza con la natura. Dizionario civile 152