Un bipolarismo con standard europei

Di Stefano Ceccanti Venerdì 29 Febbraio 2008 20:16 Stampa

La transizione istituzionale ha accompagnato una più vasta evoluzione sociale e politica rimuovendo vecchie anomalie: l’unità ideologica della sinistra intorno a un’egemonia comunista e il suo riflesso speculare dell’unità elettorale dei cattolici nella DC, sistemi elettorali destinati esclusivamente a fotografare e non a trasformare le opinioni in decisioni, un livello troppo elevato di centralismo nel rapporto centro-periferia. Ne sono però sopravvissute altre e se ne sono formate di nuove, poco sostenibili in un quadro europeo. Sul piano più elevato, quello costituzionale, l’anomalia più evidente è la persistenza di due camere entrambe titolari di un rapporto fiduciario.

L’ultima legge elettorale votata dal centrodestra ha reso potenzialmente ancor più necessaria la riforma perché, attraverso il sistema dei premi regionali e sulla base delle regolarità dei comportamenti di voti nella stragrande maggioranza delle regioni, ha trasformato il senato in una camera che non è strutturalmente governabile sulla base di una maggioranza autosufficiente. In qualche modo ha quindi creato le precondizioni per una fuoriuscita di fatto dal rapporto fiduciario e dalla sua logica stringente, ancor prima che tale fatto si trasformi in diritto approdando all’esclusiva del rapporto fiduciario per la camera e al modulo generalizzato di bicameralismo asimmetrico sull’approvazione delle leggi ordinarie. Sul piano regolamentare la transizione ha visto praticare una scissione non sostenibile tra soggetti politico-elettorali e gruppi nelle assemblee elettive, con la costante formazione di nuove realtà mai presentatesi in passato o mai destinate in futuro ad esse- re conosciute come tali nel momento della scelta dei cittadini, con la creazione di cartelli finalizzati solo a superare soglie di sbarramento per poi ridividersi subito dopo e così via. Una scissione tra tempo del consenso e tempo della rappresentanza che nessuna teoria può legittimare nelle democrazie europee contemporanee, in cui le regole parlamentari formalizzate hanno come perno la coerenza tra soggetti politico-elettorali e loro proiezioni parlamentari, senza la quale nessuna formula elettorale può avere effetti permanenti. Sul piano delle formule elettorali e della legislazione di contorno, che intrattengono con i partiti un rapporto biunivoco, la spinta è stata alla creazione di uno strabismo fortissimo tra la tensione verso un bipolarismo sempre più inclusivo (le elezioni politiche del 2006 sono state le prime dal 1994 a registrare l’assenza di terze forze consistenti) e quella simultanea all’abbassamento delle soglie di esclusione per i coalizzati (dal 4% generalizzato della quota proporzionale del Mattarellum alla camera, si è scesi al 2% del «Porcellum», ma con recupero del primo degli esclusi sottosoglia, che ha consentito alla lista DC-Nuovo PSI di dotarsi di un gruppo parlamentare con lo 0,7%). Ci concentriamo qui su questo terzo aspetto perché su di esso, a differenza degli altri due livelli, dove le soluzioni per ottenere standard europei appaiono a rime obbligate, le soluzioni ragionevoli sono plurime.

Autonomia delle singole forze politiche e bipolarismo: la preferibilità dei doppi turni La questione principale con cui ci dobbiamo confrontare è quella della conciliabilità tra il mantenimento di una logica bipolare, contro forme di ritorno a una palude centrista, e il riconoscimento di una maggiore autonomia alle varie forze politiche e principalmente di quelle a vocazione maggioritaria che sembrano poter nascere. Un bipolarismo più ordinato e più convergente al centro, come nella fisiologia delle esperienze europee, può effettivamente nascere e in che misura può essere favorito da nuove formule elettorali? Ben inteso, non si tratta di proporre nuove convenzioni per escludere a priori le forze più radicali dalla partecipazione alle maggioranze. E, tuttavia, il sistema non può dare per scontato che in ogni situazione esse debbano essere sempre e comunque coalizzabili, né è immaginabile che le coalizioni odierne si trasformino per intero in partiti a vocazione maggioritaria. Una prima risposta è relativamente semplice in termini scientifici. Un sistema a doppio turno, di collegio ma anche di coalizione come in uso nei nostri comuni, concilia entrambe le esigenze. Ove le differenze politico-programmatiche non consentano una immediata convergenza, il primo turno certifica le forze e il secondo è aperto alla convergenza delle forze politiche o anche solo degli elettori. Le maggioranze in seggi sono fortemente probabili in caso di collegi o sono garantite in caso di premi che, in presenza di doppio turno, possono giungere legittimamente anche alla soglia di sicurezza del 60%, che riduce i poteri di veto. Immettere sistemi di questo tipo non è però politicamente semplice. Il doppio turno di collegio ancor più di quello di coalizione. Contro il sistema francese gioca non solo la riserva generale del centrodestra contro i doppi turni (frutto della convinzione probabilmente erronea che a priori quell’elettorato si mobiliti di meno in un secondo turno, quando si tratta della propensione del centrodestra nella legislatura in cui era al governo), ma anche il problema della geografia dei voti della sinistra radicale. Quest’ultima, a differenza del PCF, non ha roccaforti tali in cui giunge al primo turno davanti all’Ulivo per cui, escludendo che il candidato ulivista più votato possa desistere a favore di un candidato meno votato, risulta improponibile suggerire a tali forze il voto a favore di un sistema in cui in tutti i collegi dovrebbero desistere o, in alternativa, dovrebbe essere stipulato un accordo a monte del primo turno. Più praticabile invece il secondo turno di coalizione, agganciato a un candidato premier, giacché in quel caso una quota di seggi sarebbe comunque garantita ai settori non facenti parte dei due partiti a vocazione maggioritaria. L’unico doppio turno realmente plausibile sembra essere quindi quello delle elezioni dei sindaci, accompagnato dal ritorno a una significativa soglia di esclusione, quale quella del 4%, oltre ai vincoli regolamentari prima esposti e ad alcuni correttivi istituzionali sui poteri del premier (di cui il più rilevante e minimale è l’importazione dell’articolo 68 della Legge fondamentale di Bonn, che apre la strada ad elezioni anticipate in caso di rigetto della questione di fiducia) e sulle garanzie a bilanciamento degli equilibri tra i poteri. Il fatto che sia l’unico possibile non elimina alcune eventuali controindicazioni ad adottarlo per una forma di governo nazionale. Se infatti lo si declina in maniera debole, non introducendo cioè la formalizzazione di un’elezione diretta e di alcuni poteri conseguenti, si promette all’elettorato una scelta diretta che poi potrebbe rivelarsi nei fatti non così decisiva per bilanciare la frammentazione. Se viceversa si fa quella scelta in modo forte e incondizionato, si corre il rischio di una concentrazione eccessiva dei poteri. Le controindicazioni non precludono la scelta, ma impongono prudenza nel concreto dosaggio con cui realizzare il raccordo tra consenso, potere e responsabilità.

Le alternative monoturniste: meglio la Spagna della Germania Come conciliare autonomia dei partiti e bipolarismo in un quadro che escluda il doppio turno? La questione è più difficoltosa: in tal caso ci si dovrebbe privare dello strumento dell’apparentamento ai fini del premio che nega l’autonomia spingendo a coalizioni omnicomprensive e con liste create ad hoc. Siamo sicuri che senza premio e senza collegio maggioritario (o comunque con un uso non decisivo del collegio, come in Germania) l’autonomia non vada a spese del bipolarismo? La risposta non è univoca, sia perché diversi sono i sistemi utilizzabili sia perché influisce il momento in cui introdurli: un conto è ragionare sulla loro adozione dopo la formazione di partiti a vocazione maggioritaria, con un quadro già abbastanza stabilizzato, e un altro con un processo costituente ancora aperto che la modifica della formula potrebbe anche frenare. Il sistema tedesco è quello che lascia maggiormente spazio all’autonomia delle forze politiche, che ne può ridurre il numero, ma che, essendo più fotografico delle formazioni sopravvissute e meno costruttore di maggioranze, non recide il rischio di un ritorno del centrismo. Affida alle dinamiche politiche il compito di resistere a tali tentazioni. È lecito nutrire seri dubbi sul fatto che per l’Italia questo possa bastare. Se si deve andare in una direzione monoturnista appare allora preferibile la soluzione spagnola: quest’ultima per un verso è meno rigida nelle soglie di esclusione, consentendo un costoseggi non elevato alle formazioni regionaliste, ha un costo-seggi maggiore per le piccole e medie formazioni nazionali senza tuttavia escluderle e ha un premio «nascosto» per entrambe le formazioni politiche a vocazione maggioritaria. Né appare vero che la costruzione dei collegi sia difficile, in quanto è sufficiente applicare il criterio secco previsto in Spagna della coincidenza della circoscrizione con la provincia. Un criterio d’altronde non derogabile per non ricadere nelle logiche fotografiche della formula tedesca. Anche in questo caso occorrerebbero alcune limitate modifiche alla forma di governo: anche qui sarebbero necessari l’importazione dall’articolo 68 della Legge fondamentale di Bonn e nuovi contrappesi, e in più la protezione delle maggioranze relative. Mentre nel doppio turno simil-comunale si garantisce una significativa maggioranza assoluta, in questo caso occorrerebbe proteggere, come in Spagna, una maggioranza relativa che possa reggersi su maggioranze variabili fondate sui partiti regionalisti che tendono ad addensarsi intorno al primo partito uscito dalle urne, facendo pesare le astensioni e le assenze in modo opposto a quanto previsto nel nostro odierno senato, cioè a favore della maggioranza. Si tratta di moduli presenti in vario modo in Spagna, in Francia, in Portogallo, nelle democrazie scandinave, in cui l’onere della prova è spostato sull’opposizione, che deve dimostrare di essere in maggioranza. Se non disponessimo del deterrente dei referendum elettorali, per quanto di per sé non risolutivo, forse queste riflessioni potrebbero essere lette solo come un generoso libro dei sogni, ma esso può contribuire a ricondurre tutti alla consapevolezza della gravità della crisi e al dovere di rispondere con un disegno coerente.