Aspetta primavera, Bianciardi...

Di Flavio Santi Lunedì 06 Dicembre 2010 12:37 Stampa

Intendiamoci, a me Luciano Bianciardi mi fa una pippa. Prima ho visto il film “La vita agra” di Lizzani, con Ugo Tognazzi e Giovanna Ralli, poi ho letto il libro. Embè? Questo è niente, mi sono detto al termine della lettura, le tue disavventure nel mondo editoriale e culturale sono niente, caro Bianciardi, ovunque tu sia adesso. Ci sarà, no, un paradiso degli scrittori? Anzi no, ti vedo meglio in una specie di purgatorio o addirittura all’inferno.


Intendiamoci, a me Luciano Bianciardi mi fa una pippa. Prima ho visto il film “La vita agra” di Lizzani, con Ugo Tognazzi e Giovanna Ralli, poi ho letto il libro. Embè? Questo è niente, mi sono detto al termine della lettura, le tue disavventure nel mondo editoriale e culturale sono niente, caro Bianciardi, ovunque tu sia adesso. Ci sarà, no, un paradiso degli scrittori? Anzi no, ti vedo meglio in una specie di purgatorio o addirittura all’inferno. Tutti gli scrittori dovrebbero stare in purgatorio o all’inferno; però in uno speciale, riservato solo a loro. Ecco, da lì dove stai adesso, caro Luciano, fai uno sforzo, sporgi un po’ la testa e guarda (in alto? in basso? fai un po’ te). Guarda verso il tuo paese terreno, sì l’Italia, zooma sulla tua città d’elezione, Milano, poi scendi a sud-ovest, segui il Naviglio, eccoti a Pavia, via del Massacro, civico 17, secondo piano. Mi vedi?

Sono quello che si è affacciato alla finestra e sventola la mano. Mi vedi, Bianciardi, mi vedi? Caro Bianciardi, tu non puoi saperlo, ma noi siamo la prima generazione di intellettuali-operai. Che buffo, una volta Flaiano ha scritto: «Non ci restano che gli artisti a voler sembrare operai». Adesso lo siamo diventati per davvero, e non per posa snobistica. C’è stata una sottile evoluzione della specie umana: dal proletariato delle fabbriche siderurgiche e metalmeccaniche a quello dei plurilaureati. Oggi le classi meno agiate sono spesso quelle che hanno il più alto grado di istruzione. Senza soldi, senza futuro e senza nulla da perdere e da rimpiangere. Almeno voi stavate per avere il Sessantotto, la tua ribellione contro l’industria culturale aveva un senso, speravate in grande: la rivoluzione, il cambio di guardia, grandi cose. Mi ascolti, Bianciardi, mi ascolti?

Finalmente ho capito cosa sono: sono uno stuntman delle lettere. Quei tipi spericolati che si lanciano in mezzo alle fiamme, saltano in aria durante un’esplosione, si schiantano a duecento all’ora con una Porsche, impennano su una Triumph, scalano le Montagne rocciose e nuotano nelle rapide del Canyon Gorge, ma poi la bella figura la fanno gli attori, sono per loro i titoli di testa, i premi, gli Oscar, le interviste, il conto in banca. Agli stuntman tocca il lavoro sporco. È un duro lavoro ma qualcuno lo deve pur fare, c’era scritto in qualche vecchio romanzo che ho tradotto.

Chi tira la carretta dell’editoria? I traduttori. Se non fosse per loro i grandi romanzi da centinaia di migliaia di copie sarebbero carta straccia. Chi sono quelli pagati con uno stipendio da fame? Sempre loro, i traduttori. Il cerchio si chiude. Una bella figura classica che all’università ci spiegavano si chiama Ring komposition (l’hai pronunciato all’inglese, vero, eh? Rin-composìscion? E hai fatto male, perché è tedesco: Ring-composizìon), cioè composizione ad anello. E sempre all’università ci dicevano che anello viene da anus, cioè ano, cioè culo, ma al diminutivo, e dunque piccolo ano, cioè piccolo culo. Ma allora tutto è una bella composizione a culo, cioè, riadattando e modernizzando: una figura di merda. E qua il cerchio si richiude definitivamente.

Tanto per restare in tema, ho scoperto che piglio quanto un portinaio: 800 euro netti al mese. Con tutto il rispetto per la categoria dei portinai, nobile e utile per carità, ma io avrei anche studiato, tra liceo, laurea e dottorato la bellezza di dodici anni (sempre con il massimo dei voti, lodi e menzioni varie, è sottinteso), avrei pure delle competenze altamente specializzate, spendibili, come si dice, sul mercato. In un mondo di veline e calciatori si tende sempre di più a dimenticare che c’è gente che ha studiato per tutta la vita. Io sono ancora della generazione (l’ultima da quello che vedo intorno) convinta che con lo studio e l’istruzione si arriva in alto. Ormai queste convinzioni si sono sciolte come meduse al sole. «Così la neve al sol si disigilla», mi pare dica Dante.

«Con tutto lo studio che fai se non diventi ricco tu...» mi ricordo che mi dicevano i parenti del Friuli, sani e pragmatici contadini per cui a un tanto di sforzo corrisponde un tanto di compenso, non si scappa. Un etto di farina di granoturco pesa un etto, mica un chilo. Un maiale da un quintale e mezzo è un maiale da un quintale e mezzo e produrrà di conseguenza tot salami, tot coppe, tot lardo, tot costolette, tot cotechini. Non si scappa. Invece un traduttore da 80 chilogrammi non è detto che produca un tot di euro all’anno o al mese.

Che poi a ben pensarci a me non interessa nemmeno diventare ricco, ho poche esigenze in fondo: mangiare, bere, stare al caldo. E nemmeno mi interessa la pensione, traguardo comicamente impossibile per chi fa un lavoro come il mio (per una questione di pura convenienza non è consigliabile versare contributi autonomi, troppo alti, che andrebbero a intaccare una parte consistente del budget mensile).

Che poi c’è anche una motivazione scientifica a tutto questo. Una teoria economica. Questa teoria ipotizza che un lavoratore con una “vocazione” non sia interessato esclusivamente allo stipendio e agli incentivi materiali, ma che invece attribuisca anche un “valore intrinseco” alla sua attività di lavoro, un valore intrinseco che è parte della soddisfazione che egli trae dal lavoro. In parole povere (è il caso di dirlo), la vocazione si traduce in una “ricompensa intrinseca” non monetaria o materiale che il soggetto ricava da quel determinato lavoro. Dunque quando c’è la vocazione, l’ammontare del salario non è l’unico fattore determinante. Per Anthony Heyes, l’ideatore della teoria, la vocation è proprio «il desiderio di un individuo di impegnarsi direttamente nell’attività a cui attribuisce un valore in sé». Perciò se il salario offerto dal datore di lavoro è minore di quello di mercato, ma un lavoratore l’accetta, il suo comportamento (l’accettazione) indica di per sé che il lavoratore ha un livello di ricompense vocazionali o intrinseche maggiore di zero, poiché a compensare c’è la soddisfazione intrinseca che quel lavoro gli dà; il “gap remunerativo”, cioè, viene colmato dalla felicità del lavoro in sé. Dunque secondo questa teoria sarei l’uomo più felice al mondo. A me non sembra, ma magari sbaglio.

Ecco, l’unica cosa che vorrei, però, è non vivere – come vivo – senza un domani, con il naso sempre appiccicato alla vetrina opaca delle occasioni mordi e fuggi, di tre mesi in tre mesi, finito un lavoro, dentro un altro; oppure perennemente a caccia, ma che poi non è una caccia virile, anzi non è nemmeno una caccia vera e propria, perché tu non sei il cacciatore, sei piuttosto la vittima. È più propriamente una questua, il piattino non c’è, è tutto più tecnologico, ma non c’è differenza con l’elemosina, ora la fai via internet mandando e-mail e impietosendo il tuo destinatario, la mano tesa è elettronica, ma non muta l’immutabile tangenza del tuo destino.

È come se avessi davanti a me un muro altissimo e insormontabile, e io grattassi con la sola forza delle mie unghie. Dalle cuticole lacerate esce sangue. Sangue. Sangue. Il muro resta davanti a me, intatto e massiccio.

La vita ti dissangua. Mi immagino tranquillo e sereno a passare un normale weekend di pace, rilassato e fiducioso. Per ora non è possibile. Chissà quando sarà possibile. Se mai sarà possibile. Vivo appeso a un periodo ipotetico. Appeso a un cappio invece ci è finito un mio amico, per cui al momento mi ritengo fortunato.

Questa forse è la storia di un talento che non potrà mai esprimersi compiutamente perché non ha le condizioni per farlo: non è ricco, non è di buona famiglia, non ha potenti amici di papà né accondiscendenti amanti di mammà, non è raccomandato dall’Opus Dei, non è ruffiano, non ha tempo per i cocktail party, deve razionare le telefonate e i viaggi.

O forse questa, molto più semplicemente, è la storia di un esaurimento nervoso mascherato da talento, di un’infinita crisi di nervi che non trova altro sbocco che nelle contumelie, nelle lamentele reiterate, nelle accuse senza prove. Chi può dirlo? Vedremo strada facendo.
La solita vita insomma.