La Turchia post secolarista e l'Unione europea

Di Mario Zucconi Venerdì 29 Febbraio 2008 16:29 Stampa

Lo scorso aprile, di fronte al veto posto dai generali turchi alla candidatura di Abdullah Gül a presidente della Repubblica, gli analisti internazionali parlarono di uno scontro in atto, in Turchia, fra democrazia e autoritarismo secolarista (che voleva negare a un dirigente di un partito di matrice islamica di accedere a quella carica). In modo analogo, il recente accesso di Gül alla presidenza, dopo un voto anticipato che ha visto crescere il Partito della giustizia e dello sviluppo (AKP secondo la sigla in turco) fino a un 46,6%, è stato letto semplicemente come una vittoria del processo democratico in quel paese.

Indubbiamente, il grande successo elettorale dell’AKP lo scorso luglio (12 punti percentuali aggiunti al 34,3% delle precedenti elezioni politiche) ha alzato pericolosamente la posta in gioco per i generali e ha contribuito a dissuaderli dall’intervento minacciato. E tuttavia, pensare che il problema dell’evoluzione politica della Turchia si riduca a quelle due sole variabili – democrazia procedurale e secolarismo autoritario – è tanto analiticamente errato quanto politicamente sterile. Come si indica qui di seguito, la stessa mossa dell’AKP di mostrare la forza dell’appoggio popolare ha funzionato in un contesto in cui, nonostante le difficoltà, il processo di avvicinamento istituzionale all’Unione europea risulta ancora fortemente condizionante per la politica del paese. Per intenderci, nonostante tutte le riserve europee alla candidatura turca, nonostante la disputa relativa al riconoscimento della Repubblica (greco-cipriota) di Cipro da parte di Ankara e la conseguente, parziale sospensione dei negoziati di accesso, quel condizionamento rimane oggi molto rilevantee spiega la differenza con il 1997, quando i militari intervennero per l’ultima volta nel processo politico del paese.

Questo significa che per capire la stessa evoluzione politica della Turchia è essenziale definire il ruolo che in essa ha giocato e gioca, in particolare nell’ultimo decennio, l’accesso all’UE. A sua volta, poi, l’esperienza della politica turca aiuta a chiarire sia le potenzialità della condizionalità collegata all’accesso istituzionale in Europa e sia le debolezze e inadeguatezze delle politiche europee quando queste si allargano verso le periferie dell’Unione stessa.

L’Islam politico al potere La politica turca degli ultimi cinque anni è stata caratterizzata dalla coabitazione di una dirigenza di origine islamista – e quindi più immediatamente conforme all’identità culturale del paese di quanto lo sia la classe dirigente kemalista – con istituzioni assolutamente secolari e di stampo europeo-occidentale. Tuttavia questo carattere della politica turca ha avuto sviluppo recente e ha a che fare, appunto, con la funzione che, nella politica del paese, ha acquistato il rapporto con l’Unione europea.

Il primo dato da evidenziare in proposito riguarda la recente, profonda trasformazione dell’auto-identificazione politica degli elettori turchi verso l’Islam. Nel 1995, per la prima volta, un partito che si richiamava all’Islam, il Partito del benessere (Refah Partisi), divenne il partito di maggioranza relativa al parlamento turco (21,4% del voto popolare), permettendo al suo presidente, Necmettin Erbakan, di accedere alla carica di primo ministro nel 1996. Al contrario del preteso carattere contingente di quel risultato (voto di protesta contro la corruzione dei partiti laici, declino della socialdemocrazia nel mondo occidentale, ecc.) sostenuto da analisti del fronte laicista,1 l’avanzata dell’Islam politico nella politica turca era destinata a continuare se non, addirittura, risultare irresistibile. Come già indicato, nel 2002 l’AKP, una delle due formazioni nate dopo la messa al bando di Refah e formata dall’ala progressista di questo partito, passò al 34,3%. Poi, ancora una volta smentendo le analisi che anche per il 2002 individuavano cause contingenti (la crisi finanziaria del 2000-2001 con una perdita di un terzo del reddito nazionale), alle amministrative del 2004 l’AKP raggiunse il 42% per poi avanzare ancora al 46,6% alle recenti politiche – elezioni tenutesi, oltretutto, sotto la minaccia di intervento militare.

Se le elezioni politiche del 1999 costituiscono un’eccezione in questacostante ascesa dell’Islam politico (il Partito della virtù, in cui si erano riciclati i dirigenti di Refah, non andò oltre il 15,4%), questo sembra potersi spiegare con la recente messa al bando di Refah, con una fortissima pressione dei militari sulle organizzazioni e sulle imprese caratterizzate in senso islamico e con la cattura, solo due mesi prima delle elezioni, del capo del PKK (la rivolta armata nelle province curde), che dirottò vistosamente il voto verso posizioni nazionaliste. Già evidente negli anni immediatamente precedenti al 1995 (le amministrative del 1994 davano già il 19% a Refah), l’ascesa dell’Islam politico è un fenomeno affatto nuovo. Fino agli anni Ottanta, quello stesso partito e altre precedenti incarnazioni dell’Islam politico, con Erbakan sempre alla testa, non si erano mai avvicinati al 10% del voto popolare.

In un contesto sempre di alta partecipazione elettorale, prima degli anni Novanta il voto era piuttosto diretto verso partiti di matrice laica – questo sia per la cooptazione in quei partiti delle classi dirigenti dell’interno anatolico (la cosiddetta «periferia» arretrata e culturalmente conservatrice, contrapposta a un «centro» di popolazione urbanizzata e culturalmente ed economicamente avanzata, secondo una famosa analisi del sociologo S,erif Mardin)2 e sia per i frequenti interventi giudiziari (e militari) diretti a eliminare successive formazioni politiche a base etnica e generalmente identitaria.

È interessante notare come, al tempo stesso, l’identità islamica della grandissima parte del paese sia sempre stata vista come un fattore potenzialmente sfruttabile dalle dirigenze politiche. Nelle prime elezioni multipartitiche, quelle del 1950, il Democrat Partisi riuscì a scalzare dal potere i kemalisti facendo appello, appunto, a quell’identità (pur rimanendo un partito di ispirazione laica), come farà anche Turgut Özal negli anni Ottanta. Considerata una sorta di «Vandea», come una possibile sacca reazionaria e controrivoluzionaria rispetto al kemalismo,3 permezzo secolo l’identità islamica e la regione dell’interno anatolico sono sempre state viste, appunto, tanto come un pericolo quanto come una opportunità dalle élite secolariste.

A cambiare questa situazione intervennero, nel corso degli anni Ottanta e nei primi anni Novanta, la deruralizzazione e una sua accelerazione (legata anche alla guerra fra lo Stato e il PKK). Nei quindici anni fino al 1995 la popolazione di Istanbul e delle altre città principali del paese triplicò; in queste nuove periferie urbane le masse degli immigrati dall’est dell’Anatolia si separarono dalla loro identità localistica e tribale per trovare una nuova identità, più individuale, su base culturale ed etnica. Le analisi politologiche parlano, a proposito delle elezioni del 1995, di un emergere delle «politiche dell’identità». Nei centri urbani, anziché dal clientelismo dei partiti tradizionali, le nuove masse urbanizzate vennero accolte dal comunitarismo ed egualitarismo sociale delle associazioni islamiche e dello stesso partito Refah che nel 1994 conquistò le amministrazioni di molte importanti città, a cominciare da Istanbul (di cui l’attuale primo ministro, Recep Tayyip Erdogan, divenne sindaco) e Ankara.

Pur se sistematicamente disconosciuta dalle analisi laiciste, è difficile esagerare l’importanza di questa modernizzazione della politica turca negli anni Novanta. Uno Stato che negava identità culturali ed etniche risultava sempre più dissonante rispetto alla progressiva trasformazione demografica e identitaria dei suoi stessi cittadini. La laicità divenuta ideologia e la ribellione della «periferia» erano, in modo crescente, fenomeni complementari. Invece, l’ascesa dell’Islam politico e il suo accesso al potere – come ha spiegato soprattutto l’antropologa Jenny White – demotivarono gran parte delle posizioni ribellistiche e antisistema presenti nel movimento islamico4 e, in sostanza, unifcarono il paese politicamente nelle istituzioni rappresentative.

Il 1997 e l’uscita dall’impasse della politica turca Si trattò – per usare una categoria analitica generalizzante – della democratizzazione attraverso l’islamizzazione, una tendenza evidenziatasi in anni recenti in diversi paesi di cultura islamica (la vittoria di Hamas fra i palestinesi, nel 2005, per esempio). Ma questa maggiore congruenza della politica turca con l’identità culturale e, specificamente, il settarismo politico del Refah di Erbakan (comprese le posizioni espresse allora da Erdogan e Gül, quest’ultimo allora vice di Erbakan) si scontrarono con la storiaparticolare, laicizzante e filoccidentale della Turchia repubblicana. Di qui, tra febbraio e giugno del 1997, le crescenti pressioni dei militari che portarono alle dimissioni di Erbakan e poi al bando giudiziario del Refah (1998). In sostanza, nel 1997 l’evoluzione istituzionale e politica del paese raggiunse un bivio: una democrazia più matura e più rappresentativa si muoveva in direzione di politiche islamiste, mentre il consolidamento delle istituzioni e politiche secolari risultava ora possibile soltanto in un contesto di evoluzione autoritaria.

Il superamento di quest’impasse doveva avvenire attraverso la trasformazione della piattaforma politica dei partiti successori di Refah e, soprattutto con la nascita dell’AKP e il suo deciso identificarsi con i valori, principi e politiche dell’Unione europea. Questo è il secondo dato che è fondamentale tener presente per capire i fattori che influenzano l’evoluzione della politica turca. Mentre si presentava come l’erede dell’integrazione di parti importanti della società turca nella politica parlamentare nazionale, l’AKP, per la sua identificazione con l’Europa, attuava tale integrazione sulla base di valori e diritti universali, anziché su basi settarie come i partiti secolaristi o lo stesso Refah. Quella evoluzione dell’AKP, in breve, rese possibile il superamento dell’impasse politica del 1997 e costituì un passo avanti importantissimo nel consolidamento della democrazia nel paese. Di quel passo avanti l’Unione europea era condizione essenziale, non un fattore accessorio. Come indica la letteratura scientifica sulla transizione democratica, l’appartenenza (o lo stesso processo di accesso, nel caso turco) a organizzazioni regionali è un fattore importante per facilitare la transizione stessa. Per esempio, il fatto che le nuove regole economiche siano importate dall’estero – e siano quindi percepite come neutre – rassicura i vecchi gruppi privilegiati: la trasformazione politica non implicherà la loro semplice sostituzione con nuovi gruppi nelle posizioni di privilegio. L’appartenenza a organizzazioni internazionali facilita la transizione «perché aiuta a segnalare» le intenzioni del nuovo regime.5 Questo meccanismo è tanto più importante nel caso dell’accesso al potere di un partito come l’AKP, avvenuto nel 2002, date le sue credenziali particolarmente «dubbie» dovute alle origini islamiste. In altri termini, mentre trasformava se stesso, l’AKP trasformava il paese sia al suointerno (consolidamento democratico), sia verso l’esterno (acquisizione di regole economiche europee come inserimento nelle dinamiche della globalizzazione) usando la strada dell’armonizzazione e integrazione con l’Unione.

Sebbene questa «europeizzazione» permetta di aggregare varie forze e interessi attorno all’AKP, nello specifico contesto politico della Turchia repubblicana (in cui i militari detengono il ruolo istituzionalizzato di guardiani della laicità dello Stato) risulta impossibile immaginare la permanenza al potere di un partito di origine islamica, a meno che questo non sia collegato alla forte visibilità e credibilità di una cornice istituzionale esterna, come quella europea, appunto. Le differenze fra il 1997 e gli anni del governo AKP danno sostegno a tale conclusione. Ed è interessante notare, come, specie in un contesto di forti legami con l’Europa (la politica di accelerazione dell’armonizzazione all’acquis del governo Erdogan portò nel 2004 alla decisione europea di aprire i negoziati d’accesso) l’acquiescenza dei militari alla coabitazione con l’AKP poteva spingersi fino a concepire il quadro normativo e istituzionale europeo come alternativa a loro nella salvaguardia della laicità dello Stato turco. Con l’AKP al potere, nell’agosto del 2003, il generale Hilmi Özkök, capo di stato maggiore generale in Turchia, avvertì che «gli intereventi militari non dovevano più esser visti come la panacea di tutti i problemi della Turchia».6 Di fatto, proprio la coabitazione con il governo AKP stimolò un dibattito interno agli alti gradi militari sulla funzione dell’Europa, in cui prevalse una chiara identificazione dell’Europa con la modernizzazione, uno dei principi fondamentali del kemalismo. «Le forze armate turche – dichiarò Özkök a pochi mesi dall’insediamento del nuovo governo – hanno svolto un ruolo di pionieri nell’ammodernamento della Turchia» e «sono sempre state a favore dell’accesso della Turchia all’UE». In modo analogo il vice di Özkök e attuale capo di stato maggiore, generale Yashar Buyukanit, nel maggio del 2003 contestò che i militari fossero contrari all’integrazione nell’UE e spiegò come l’Unione fosse «una necessità geopolitica e geostrategica per l’obiettivo della modernizzazione che Mustafa Kemal Atatürk ha indicato per la società turca».7 In breve, sia l’evoluzione programmatica dell’AKP, sia il consolidamento democratico stesso della Turchia erano impensabili senza la presenza forte, visibile e credibile dell’Unione nella politica del paese – presenza iniziata soprattutto con l’accettazione della Turchiacome paese candidato nel 1999 e, in modo ancor più vincolante, proprio con la trasformazione dei partiti successori di Refah.

Il rapporto con l’Europa come condizione della coabitazione Ma questo implica anche che, se diminuisse il condizionamento dell’Europa sulla sua vita politica, la Turchia potrebbe tornare alle vecchie contraddizioni della sua storia recente. Se si toglie una gamba a un tavolo a tre gambe questo, semplicemente, non sta più in piedi. E la mancanza della terza gamba è esattamente la percezione della situazione che si è avuta quando i comandi militari hanno annunciato la loro opposizione all’elezione di Gül a presidente lo scorso aprile.

Già due anni prima della sospensione parziale del negoziato di accesso, avvenuta l’autunno scorso, i rapporti con l’Unione avevano cominciato a peggiorare e il condizionamento dell’UE sulla politica turca era gradualmente diminuito. I rapporti difficili fra Ankara e Washington, come conseguenza dell’intervento americano in Iraq, gli sviluppi e i comportamenti come quelli di Abu Ghraib e Guantanamo (oltretutto rivolti a paesi e individui di cultura islamica) avevano minato profondamente l’autorevolezza e la credibilità dell’Occidente nel suo insieme di fronte all’opinione pubblica turca. Il vecchio problema di esser discriminati nei criteri di accesso all’Europa aveva trovato una conferma quando la «stanchezza dell’allargamento» europea si era focalizzata specificamente sulla candidatura turca, proponendo nuove e disparate condizioni come il mea culpa per il «genocidio» degli armeni, o la proposta di un referendum nazionale sui nuovi accessi all’Unione proposto dal ex presidente francese Jacques Chirac.

Nessun’altra questione, tuttavia, contribuì a questo deterioramento del rapporto con Bruxelles più del problema di Cipro, le cui pesanti implicazioni di politica interna (particolarmente importante per i nazionalisti e i militari, anche per il suo echeggiare perdite territoriali del passato ottomano) furono aggravate dagli sviluppi successivi. I turchi ritenevano, infatti, di aver fatto abbondanti concessioni (nonostante le serie resistenze interne) nell’aver portato la dirigenza turco-cipriota ad accettare il piano delle Nazioni Unite per la riunificazione dell’isola. Invece, l’ammissione incondizionata della Repubblica di Cipro nel maggio del 2004, all’indomani dell’inaspettato voto negativo di questa nel referendum sull’unificazione, lasciò il governo AKP senza alcuna contropartita politica. Cipro continuava a essere un delicato problema interno, l’Unione non era in grado, a questo punto, di influenzare la situazione e, soprattutto, Nicosia poteva «tenere in ostaggio» l’accesso della Turchia all’Unione europea, nel tentativo di realizzare i suoi obiettivi nell’isola.8 Il problema nuovo che i turchi avevano ora di fronte consisteva nell’identificazione della posizione europea con quella greco-cipriota e nel fatto che, anche volendo cambiar qualcosa, Bruxelles non aveva più alcuno strumento per costringere Nicosia a modificare atteggiamento, qualunque concessione fosse venuta da parte turca e turco-cipriota. Infine, incapace per ragioni di processo decisionale e per ragioni politiche (le resistenze grecocipriote all’accesso della Turchia facevano comodo a una serie di capitali europee, permettendo loro di non esporsi direttamente) di indurre Nicosia ad ammorbidire la propria posizione, ipocriticamente i governi dell’Unione sceglievano di nascondersi dietro un problema procedurale: per accedere all’UE, la Turchia doveva normalizzare i rapporti con la Repubblica di Cipro, essendo ora questa un membro della stessa Unione. Ineccepibile formalmente, nei fatti quel problema procedurale era una condizione nuova (inesistente prima del 2004) per l’accesso della Turchia, prodotta da errori politici a ripetizione nella gestione del problema di Cipro da parte dell’Unione e dai limiti del processo decisionale della stessa.9

Il paradosso, fra l’altro, era che proprio quella non normalizzazione dei rapporti con Nicosia diveniva l’unica carta in mano ad Ankara: l’unica leva per forzare Bruxelles a rispettare i suoi stessi impegni di premiare il voto favorevole dei turco-ciprioti al Piano delle Nazioni Unite, impegnandosi a porre fine al loro isolamento politico ed economico.10 Anche se, di fronte al conseguentemente circolo vizioso fra uso di quella leva da parte di Ankara e veto ai programmi a favore dei turco-ciprioti da parte di Nicosia, Bruxelles poteva sempre trincerarsi dietro l’elemento formale dell’essere ormai la Repubblica di Cipro un membro dell’UE. Di tutta la complessa faccenda di Cipro quel che qui interessa sottolineare è il grande peso negativo che essa ha avuto sulla credibilità dell’UE presso l’opinione pubblica e la classe politica della Turchia e la relativa perdita di «presa» dell’Unione sulla politica di quel paese. Già nella primavera del 2005 gli osservatori insistevano sull’emergere di un senso di isolamento fra i turchi e sul crescere di atteggiamenti nazionalisti e isolazionisti. Questo, avvertiva uno di quegli osservatori, rischia di «produrre un effetto domino reciproco fra Turchia e UE»,11 fenomeno che si è puntualmente verificato. La diminuita credibilità dell’Europa e il crescente scetticismo riguardo alle prospettive di accesso ha diminuito l’interesse per le riforme. Questo ridotto interesse per le riforme, a sua volta, ha giustificato le critiche di Bruxelles e ha dato ragione a quanti si opponevano all’accesso della Turchia all’Unione. Inoltre, come si è già detto, un’Europa sempre più lontana ha costretto di nuovo lo sviluppo politico della Turchia a stare su due sole gambe, lo ha cioè riportato all’impasse del 1997.

Il pronunciamento dei militari e le recenti elezioni Quando arrivò il momento di rinnovare la presidenza della Repubblica, la scorsa primavera, le condizioni per la coabitazione fra governo AKP e uno Stato in mano alle élite secolariste sembravano ormai non esistere più. La perdita della presidenza implicava, per i secolaristi, la scomparsa della più importante garanzia della laicità dello Stato turco. Così, il 27 aprile, alla vigilia del voto parlamentare, lo stato maggiore turco avvertì della «assoluta risolutezza [delle Forze Armate] di compiere il loro dovere (…) di salvaguardare il carattere immutabile della Repubblica di Turchia». Allo stesso tempo, il governo in carica veniva attaccato direttamente per i suoi «sforzi senza fine per cambiare i valori fondamentali della Turchia».12 Il tentativo del parlamento di eleggere un nuovo presidente, infine, fu frustrato dall’intenzionale mancanza del numero legale, che indusse il governo AKP a ricorrere alle elezioni anticipate. A proposito della posizione sempre più ostiledei militari verso il governo AKP è stato scritto da un osservatore autorevole che «la nomina del generale Yashar Buyukanit a capo di stato maggiore alla fine dell’agosto 2006 [può segnare] una nuova era nei rapporti tra civili e militari nel paese».13 Considerato un falco, Buyukanit era apparso particolarmente polemico con il governo AKP fin dal suo insediamento come capo di stato maggiore. All’inizio dell’anno accademico dell’Accademia di guerra turca, nell’ottobre 2006, aveva dichiarato: «Non ci sono forse persone in Turchia che sostengono che il secolarismo debba essere ridefinito? Non occupano forse tali persone le più alte cariche dello Stato? Non è forse l’ideologia di Atatürk sotto attacco?».14 Ma lo stesso Özkök, pur in anni e in un contesto di più tranquilla convivenza tra autorità civili e militari, si era trovato, in più occasioni, a dover mandare avvertimenti al governo AKP. Inoltre, nel 2006, avvertimenti polemici e minacciosi verso lo stesso governo erano venuti anche da altre autorità dello Stato a cominciare dal presidente Ahmet Necdet Sezer. In breve, a parte un’indubbia differenza di stile fra Buyukanit e il suo predecessore, è probabilmente impossibile ricondurre tutte le differenze a un problema di personalità, separandole dal mutato contesto politico di cui si è parlato sopra. La sospensione da parte dell’Unione europea dei negoziati di accesso a pochi mesi dall’elezione del nuovo presidente appare come una coincidenza particolarmente sfortunata, oppure come un’altra iniziativa europea particolarmente maldestra, se si preferisce.

Con il ricorso alle elezioni, il governo AKP ha voluto mostrare ai mili-tari quanto fossero cambiate le condizioni di fronte a cui si sarebbero trovati in caso di un colpo di Stato, rispetto al 1997. E tuttavia come si diceva all’inizio, è probabile che l’attuale situazione politica sia anche il risultato delle relazioni con l’Europa. È quanto sembrano indicare, per esempio, le risposte di uno dei più alti gradi delle forze armate turche, il generale S,adi Ergüvenç, a un intervistatore che chiedeva – dopo le elezioni politiche e l’accesso di Gül alla presidenza – della possibile sostituzione della Costituzione esistente, emanata nel 1982 sotto regime militare, da parte del governo AKP. «Abbiamo bisogno di una nuova Carta», rispondeva Ergüvenç, «quella vecchia non è più adatta alla Turchia di oggi». E, di fronte alla osservazione che questo potrebbe portare all’azzeramento del potere dei militari, rispondeva: «Sì, perché sarà una Costituzione filoeuropea, pensata per l’ingresso nell’Unione. E questo, per la Turchia, è un passo molto importante».15

L’Unione europea di fronte al caso turco Quella dell’integrazione in Europa rimane, per ora, la strada verso la modernizzazione e l’inserimento nella globalizzazione che raccoglie il consenso di un ampio schieramento dei gruppi dirigenti turchi (pur nel contesto emerso di conflitto istituzionale, la maggiore associazione degli industriali si è schierata per una conferma del governo AKP prima delle elezioni). Gli investimenti stranieri diretti nel 2005, il primo anno dopo la decisione di Bruxelles di iniziare i negoziati di accesso, sono stati pari alla metà del totale dei cinquanta anni precedenti. Per una serie di ragioni – per quelle esposte sopra e per il contesto regionale – l’evoluzione politica della Turchia può considerarsi l’esempio più eclatante della capacità dell’Unione di persuadere, mediante la sua politica di allargamento, i governi degli Stati vicini ad attuare profonde trasformazioni. Ma che l’Unione europea seguiti passivamente a contare solo sul suo potere gravitazionale è ormai politicamente irresponsabile. Non è solo il consolidamento democratico della Turchia e l’evoluzione del suo sistema dei diritti a essere in ballo, ma, assieme a questo, la capacità stessa dell’Unione di continuare a creare stabilità nelle sue periferie attraverso la promozione della democrazia.

L’importanza e delicatezza di questo caso di allargamento, a differenza di casi come, per esempio, la Slovenia o la Repubblica Ceca, deriva prima di tutto dal contesto regionale cui questo paese appartiene: alla convergenza di zone e regioni come il Caucaso, l’Asia centrale, l’Iran e ilGolfo Persico, di zone problematiche ma anche di importanza strategica per la sicurezza e lo sviluppo economico dell’Europa. In anni recenti, assieme al prezzo del petrolio è aumentata enormemente l’importanza di quelle zone e regioni che, dal ruolo di semplici fornitori di materie prime dell’Occidente industriale sono divenute elemento fondamentale e condizionante dell’economia globale. Per almeno una parte dei paesi di quelle regioni la Turchia costituisce un punto di riferimento culturale, politico ed economico essenziale. Per l’intero mondo islamico, essa costituisce un caso importante da osservare mentre cresce l’interazione culturale e politica di quel mondo con Europa e Stati Uniti.

Questi sono fattori nuovi, dinamici che non solo ampliano le opzioni politiche che la Turchia si trova davanti, ma che anche costituiscono delle sfide per i paesi europei. E se in passato questi hanno contato, per il loro approvvigionamento energetico, sull’ordine stabilito in Medio Oriente (e nella stessa Asia centrale dopo la guerra fredda) dagli Stati Uniti, oggi si trovano sempre più a contatto diretto con le realtà e i problemi di quelle regioni via via che le architetture di stabilità regionali costruite da Washington vacillano o, addirittura, crollano.

Di fronte ad alcune capitali europee che acquistano coscienza di questa nuova realtà, altre seguitano a considerare quello turco come un caso spendibile, se possibile da evitare. A cavallo fra il mondo e il tipo di sviluppo politico occidentali (la dinamica della democratizzazione) e le regioni a essa circostanti (dove il peso del petrolio tende a far da sostegno a regimi autoritari), la Turchia costituisce oggi per l’Unione europea un’opportunità di grandissimo valore strategico. Fin dalla prima metà del XIX secolo, quel paese ha sempre guardato all’Europa come alla via verso la modernizzazione, ma oggi, con il petrolio che crea una sua dinamica politica globalizzante, esso potrebbe avviarsi verso questa via alternativa associandosi ad altri paesi della regione. In sostanza, da caso di straordinario successo della politica di allargamento dell’Unione europea, la Turchia potrebbe diventare il peggior fallimento della storia di quell’istituzione.

[1] Si veda, per esempio, Z. Onis, The Political Economy of Islamic Resurgence in Turkey: The Rise of the Welfare Party in Perspective, in «Third World Quarterly», 4/1997.

[2] S,. Mardin, Center Periphery Relations: A Key to Turkish Politics, in «Daedalus», 102/1973.

[3] Dall’est dell’Anatolia (curda) partirono rivolte contro la giovane Repubblica fin dal 1925, sotto la guida di Shaikh Said e di altri capi tribali che spesso si richiamavano all’identità islamica per legittimare la loro azione. Queste rivolte lasciarono un’impressione profonda nello sviluppo culturale e politico della Repubblica: gli strati più colti e la classe politica guarderanno, infatti, con preoccupazione e disprezzo a qualunque rivendicazione e attivismo di quella regione.

[4] J. B. White, The Islamist Movement in Turkey and Human Rights, in «Human Rights Review», 1/2001.

[5] J. C. Pevehouse, Democracy from Above: Regional Organizations and Democratization, Cambridge University Press, Cambridge 2005. Si veda in particolare il capitolo 2.

[6] Citato in M. Heper, The Justice and Development Party Government and the Military in Turkey, in «Turkish Studies», 2/2005, p. 218.

[7] Citato in M. Heper, The European Union, the Turkish Military and Democracy, in «South European Society and Politics», 1/2005, p. 41.

8 Mentre Bruxelles, nel referendum dell’aprile 2004, ancora si aspettava dal governo di Nicosia un atteggiamento favorevole al piano dell’ONU, in una discorso televisivo all’inizio del mese il presidente Tassos Papadopoulos chiedeva ai greco-ciprioti di votare no. Tra breve, suggeriva Papadopoulos, «la Repubblica di Cipro sarà un membro a pieno titolo e uguale dell’UE», trovandosi in una posizione molto più favorevole per ottenere una migliore soluzione al problema della divisione dell’isola. Si veda in proposito E. Olgun, The Potential Role of the European Union in the Resolution of Deep-Rooted and Identity-Related Conflicts in its Periphery, in N. Neewale and H. Kabaalioglu (a cura di), European Union and Turkey: Reflections on the Prospect for Membership, TUNAECS, Istanbul 2006.

[9] In quello che può considerarsi probabilmente l’errore peggiore della storia della CE/UE, negli anni Novanta Bruxelles si era progressivamente legata le mani sulla possibilità di ammette solo la Cipro greca per una serie di veri e propri ricatti politici della Grecia.

[10] Prima dell’ammissione formale di Nicosia, il 1° maggio 2004, al fine di attenuare le conseguenze (disastrose per l’Europa stessa) del voto negativo dei greco-ciprioti, il Consiglio europeo aveva deciso una serie di misure in favore dei turco-ciprioti, con un bilancio di oltre 250 milioni di euro, successivamente bloccati dal veto di Nicosia.

[11] Si veda West Fears Turkey May Be Drifting into «Isolationism’», in «Turkish Daily News», 28 aprile 2005.

[12] Pochi giorni dopo, in un’indicazione di disprezzo e truculenza di altri tempi, scrivendo sul quotidiano «Cumhuriyet», un generale in pensione prometteva ai triumviri al potere (il primo ministro Erdogan, Abdullah Gül e il presidente del parlamento Bület Arinc) «il fato di Bayar, Menderes and Koraltan,» i dirigenti esautorati dal colpo di stato militare del 1960, durante il quale il primo ministro Adnan Menderes fu anche impiccato. Turkish Military's Statement Raised Concern, in «Turkish Daily News», 1 maggio 2007.

[13] G. Jenkins, Continuity and Change: Prospects for Civil-Military Relations in Turkey, in «International Affairs», 2/2007, p. 339.

[14] Z. Baran, The Coming Coup d'Etat? Once again, the Gnerals Are Muttering Angrily about how the Government is Undermining the Scular State - and Turkey, in «Newsweek», 4 dicembre 2006.

[15] M. Ansaldo, Il giorno più difficile dei militari, in «La Repubblica», 30 agosto 2007.