I cattolici sono migliori dei laici?

Di Emma Fattorini Giovedì 01 Luglio 2010 16:32 Stampa
In cosa, ammesso che lo siano, i cattolici sarebbero miglio­ri dei laici? Sono davvero possessori di una superiorità mo­rale, valoriale? O non si tratta, piuttosto, di una loro mag­giore capacità di mantenersi fedeli al senso del progetto di cui sono portatori a prescindere dalla sua concreta realiz­zazione? Forse in questo consiste il loro essere migliori di una sinistra che, di fronte al fallimento del comunismo rea­lizzato, si è smarrita in un vuoto fatto di assenza di moti­vazioni più che di proposte politiche.
 I cattolici sono migliori dei laici? Ma che domanda è mai questa? Chi ha detto che i laici non abbiano valori?
Sono questi i rozzi interrogativi che, come scorie, sembrano depositarsi dopo le liti furiose degli ultimi anni tra laici e cattolici, residui patetici di confronti–scontri all’ultimo sangue soprattutto sui temi di bioetica. Confronti non sempre e solo penosi; spesso anche vitali, considerando l’innegabile centralità assunta dalle religioni nel mondo globalizzato.
Non fu felice una battuta con la quale il pur acuto e lungimirante Giuliano Amato chiosò i suoi generosi tentativi di evitare inutili accapigliamenti sull’aborto o su altri temi caldi della bioetica. Nei dialoghi pionieristici con monsignor Vincenzo Paglia sulle possibilità di ragionevoli incontri tra laici e cattolici, Amato ebbe modo di dire che «i cattolici hanno una marcia in più».
Era un’espressione che coglieva una situazione reale ma anche che si prestava a troppi equivoci. I cattolici non sono migliori dei laici per definizione, perché hanno più valori, come si sarebbe potuto fraintendere. Tra l’altro, prima o poi, sarebbe utile chiarire le ambiguità e le trappole dei discorsi valoriali.
Non si tratta di superiorità morali degli uni rispetto agli altri, ma di una maggiore capacità di mantenere fermo il baricentro, il fine, il progetto al di là del suo risultato. Parliamo qui di una religione davvero interiorizzata e non prestata ad usi pubblici. Riflettiamo su quei credenti che hanno condiviso le ragioni storiche della sinistra e, ospiti quanto mai bistrattati, ne hanno condiviso progetti e attese. Ebbene, quando sono iniziati l’erosione delle speranze, la fine delle ideologie, i postumi del crollo del comunismo, gli unici che non hanno mollato la presa sono stati coloro che non avevano identificato l’aiuto agli altri, il riscatto degli ultimi con una ideologia e con il suo modello politico che, nella fattispecie, si rivelava ogni giorno di più un meccanismo di autopromozione del potere (e del benessere personale).
Tra gli scritti più belli di don Milani c’è una famosa lettera al comunista Pipetta nella quale il prete di Barbiana scrive: io vi aiuterò finché non avrete raggiunto il risultato di giustizia sociale per il quale operiamo insieme, ma «quando avrete preso il potere – dice – io non ci sarò più», vi tradirò.
«È la storia che mi si è buttata contro, è il 18 aprile (del 1948 ndr.) che ha guastato tutto, è stato il vincere la mia grande sconfitta. Ora che il ricco t’ha vinto col mio grande aiuto mi tocca dirti che hai ragione, mi tocca scendere accanto a te a combattere il ricco…Ma il giorno che avremo sfondata insieme la cancellata di qualche parco, istallata insieme la casa dei poveri nella reggia del ricco, ricordatene Pipetta, non ti fidare di me, quel giorno io ti tradirò. Quel giorno io non resterò là con te. Io tornerò nella tua casuccia piovosa e puzzolente a pregare per te davanti al mio Signore crocifisso». Così scriveva Lorenzo Milani nel 1950, quando le passioni erano estreme, buoni e cattivi da una parte come i poveri e i ricchi, il bene e il male, in quella cultura post resistenziale che si misurava nello scontro della guerra fredda e delle galvanizzanti spinte ricostruttive del paese. Un contesto diametralmente opposto a quello attuale. Eppure c’è un nocciolo, quello più spirituale del radicalismo egualitario di don Milani che non va perduto e che ci dice qualcosa anche oggi, quando parafrasando quello splendido scritto potremmo ribaltarlo per dire «dato che non avete preso il potere, non avete realizzato il comunismo io continuo a esserci, non me ne vado, non mollo».
L’impegno cristiano trascende quello sociale, non si riduce mai ad esso; si può estendere a un progetto di qualsiasi natura. È solo la centralità dell’uomo, il suo bene complessivo, materiale e spirituale (per questo i cristiani preferiscono parlare di persona), che sta loro a cuore, che è, per loro, indisponibile.
La presunta superiorità dei credenti (questo vale per ogni religione interiorizzata e non semplicemente utilizzata come religione civile) sta nel non identificarsi con il risultato, sia che esso riesca sia che fallisca. Certo, per riuscire bisogna credere in qualcosa che trascenda il risultato. E che proprio per questo rende l’impegno al cambiamento non meno, ma più forte e più solido. È tutta lì la marcia in più. E non è poco. Perché è l’uomo il centro di tutto.
Quanto di più lontano si possa immaginare da quell’uomo inconsapevole, il moucheron, di cui parlava Jean Paul Sartre, che si riduceva ad essere semplice materiale da costruzione per un progetto superiore che, appunto lo trascendeva, ma che se ne serviva, lo “strumentalizzava”; così come, usandolo come merce, un sistema accecato dal mero profitto lo “alienava” da sé. Categorie vecchie e obsolete, ma alle quali è utile tornare per capire il punto a cui siamo giunti.
Una volta chiusa la prospettiva rivoluzionaria, il militante rivoluzionario – faticando a riconoscere il limite creaturale – rischia il nichilismo oppure la deriva radicale.
Non c’è dubbio che il cuore del conflitto spirituale di fondo del nostro tempo stia nel contrasto tra un’idea di uomo nella sua creaturalità dipendente e il nocciolo antropologico, eredità residuale del marxismo e frutto del nuovo protagonismo scientista, non rispettoso del limite, tecnocratico, onnipotente e illimitato.
Tra i tanti fallimenti della generazione che ha creduto nel comunismo e specialmente tra coloro che vedevano come una speranza l’incontro con i credenti c’è il fallimento dell’occasione di stemperare l’onnipotenza («la rapina dell’assoluto») intrinseca nel disegno di eguaglianza materialista, grazie al confronto con il senso del limite della realtà creaturale del cristiano. Come, per converso, i cristiani, non hanno “imparato” dai comunisti una maggiore attenzione ai bisogni materiali concreti e un più sentito dovere di giustizia sociale.
Questo modello – espresso nelle sue forme più sistematiche da Franco Rodano – fallì ancora prima di realizzarsi. Il cristianesimo, quale antidoto anti idolatrico del marxismo, non funzionò come correttivo, semmai come acceleratore della sua fine. Con il risultato, lucidamente preconizzato da Augusto del Noce, di una radicale subalternità del comunismo alla società radicale. Società radicale quale risultato e compimento paradossale del comunismo. Un caso classico di eterogenesi dei fini.
Nel 1990 vi fu un interessantissimo dibattito tra Raniero La Valle e Claudio Napoleoni, il primo cattolico di sinistra, il secondo a lungo sodale di Franco Rodano. Lì Napoleoni, ormai morente, intravedeva quanto oggi è pienamente attuale: la fine dello storicismo e quindi la impraticabilità dell’ipotesi di una salvezza dell’uomo per via esclusivamente politica. E vedeva, ancora, il pieno dispiegarsi della minaccia della tecnica e della sua pretesa onnipotente, contro la quale per lui valeva il finale grido heideggeriano «ormai solo un Dio ci può salvare!». Si tratta di un libretto che è estremamente utile tornare a leggere oggi.[1]
Questo grido, che nasceva nel cuore del ripensamento di quel fallimento, non è stato capito, né raccolto da una sinistra smarrita, impaurita, esausta: è diventato il grido di battaglia di un conservatorismo integralista cattolico che ne ha fatto una bandiera identitaria, invertendone, capovolgendone il significato, come se senza Dio non fosse più possibile un umanesimo che tornasse ad avere davvero l’uomo al vertice e al centro del suo sentire. I laici, che a questo punto diventavano un fronte unico con la sinistra, non hanno resistito alla tentazione di una reattività bellicosa, innalzando la loro bandiera di risposta, scrivendo sul loro stendardo etsi deus non daretur.
E così lo scontro, del tutto impropriamente, è diventato, per responsabilità di entrambi, quello tra laici e cattolici, in una miopia provinciale che non vedeva come le questioni in gioco chiamassero una assoluta e totale trasversalità di appartenenze, confessionali o laiche.
C’è stata così una grande confusione del discorso: la questione non era che senza Dio non fossero possibili umanesimi caldi e generosi, ma che quell’approccio, uscito ammaccato ma straordinariamente motivato dalla seconda guerra mondiale, aveva esaurito le sua forza interna, i suoi alleati, come il comunismo, i suoi corollari, come la politica.
Il discorso cattolico, soprattutto nella visionarietà geopolitica di quel sovrano pontefice slavo che fu Giovanni Paolo II lo ha invece capito, ha avuto una marcia in più. Altra è la riflessione di come queste intuizioni siano state tradotte e reinterpretate dalle Chiese dell’ultimo ventennio.
Ma è in quella svolta, che Wojtyla ha chiamato antropologica, che è precipitata la sinistra italiana, cadendo in un vuoto identitario perché non si è mai interrogata a fondo sulle ragioni interiori, soggettive, che motivavano la sua militanza.
Un vuoto interiore di motivazioni prima che di proposte politiche. E questo soprattutto nelle sue èlite, nei suoi gruppi dirigenti, quelli più a contatto con lo scacco vero, con la progressiva astrattezza etica e con le irresistibili lusinghe delle compensazioni più ovvie. E con le cadute di stile e di morale proprie della piccola borghesia italiana: il fascino incontrollato dello status sociale, la casa, la barca, i vestiti, le frequentazioni, il successo sociale, l’apparire. Sobrietà, cultura, rigore: virtù scomparse. Delle fascinazioni piccolo-borghesi più banali si è straparlato con il consueto invidioso moralismo nostrano.
Sarebbe interessante riflettere invece su un’altra sindrome che ha colpito: l’ossessione per il rendimento scolastico dei figli, un fenomeno curioso, più interessante. Il valore della cultura che tanto aveva segnato i comunisti italiani e il loro straordinario contributo alla cultura nazionale è diventata la caricaturale ansia di competizione sul rendimento scolastico, l’essere i più bravi, il mito dell’eccellenza, il mito della conoscenza e della competenza, come se educare e formare fossero marginali rispetto alla prestazione. Il vecchio, antico bisogno di risarcimento attraverso i figli avviene sulla prestazione più che su un armonico sviluppo della loro personalità, come se non ci fosse altro da rivendicare, e , in fondo, da desiderare.
Come se una generazione fosse sprofondata nella delusione più triste e non, piuttosto, in una del tutto legittima ma matura disillusione, segno di un atteggiamento consapevole del limite e delle reali possibilità di cambiamento.
Concludiamo con una autocitazione: «Anche nella storia delle culture politiche le rimozioni e le scorciatoie hanno costi pesantissimi. Nella vita politica come in quella personale bisogna sapere passare notti oscure, accettare di non avere nulla da dire, saper passare la mano, sapere reggere lo scacco e l’insuccesso, in nome di una maggiore profondità e di una più ricca interiorità. Chi non è capace di consentirsi questa sospensione, questo scarto e agisce in un perenne, continuo acting out tutto rivolto all’esterno si brucia in logiche trasformiste sul piano pubblico e in inconsistenza esistenziale sul piano privato».[2]
                                          


[1] Si veda L. Napoleoni, Cercate ancora, Editori riuniti, Roma 1990.

[2] E. Fattorini, Dalle tristi alle tranquille passioni, in F. Lussana, L. Motti (a cura di), La memoria della politica. Esperienze e autorappresentazione nel racconto di uomini e donne, Ediesse, Roma 2007.