L'agonia dell'università italiana

Di Ennio Di Nolfo Venerdì 29 Febbraio 2008 15:05 Stampa

Nel maggio 2007 il ministero per l’università diffondeva un elenco dal titolo: «Università e Ricerca, rapporto sull’attuazione del programma di governo a un anno dalla formazione». All’inizio di agosto il «Corriere della Sera» (e verosimilmente altri quotidiani) dava notizia della firma, fra il ministro Mussi e il ministro Padoa Schioppa, di un accordo per il finanziamento dello sviluppo triennale dell’università italiana (2007-09). Pochi si sono resi conto del fatto che l’accordo interministeriale non era che l’esplicitazione pro futuro di ciò che era già previsto (e annunciato sul sito del MIUR con evidenza, in un comunicato poi scomparso) sin dalla presentazione del DPEF alla fine del precedente mese di giugno. Chi poi consultasse l’elenco diffuso in maggio resterebbe colpito dalla desolante povertà delle cose fatte e dal fragore silente delle cose preannunciate.

Resterebbe in altri termini colpito dal fatto che il ministro Mussi molto ha riflettuto, poco ha sinora (15 settembre 2007) compiuto, se si eccettuano alcuni provvedimenti intesi a ostacolare la vita accademica: non è ancora riuscito a ottenere che il bando per i Progetti di ricerca di interesse nazionale (PRIN) sia reso pubblico, nonostante l’angosciosa attesa di chi vorrebbe sapere se nel prossimo anno potrà continuare nel suo lavoro. Sebbene centinaia (forse migliaia) di dottori di ricerca, contrattisti, assegnisti e altri precari che lavorano nell’università attendano di conoscere il loro avvenire, ha tollerato che, per motivi fiscali, le loro già minime borse di studio fossero ulteriormente ridotte e, per compenso, ha posto un vincolo al turn over dei pensionandi, magari per serie ragioni di bilancio ma in contraddizione con l’ipotesi fondamentale della radicata urgenza di arruolare sta bilmente docenti giovani, per evitare che un’altra generazione di studiosi (come già è accaduto) vada perduta oppure sia indotta a far fuggire altrove «il suo cervello». Ha creato nuovi organi di valutazione, così da dilazionare nel tempo la loro entrata in funzione. Poi ha coraggiosamente rifiutato di sottoscrivere una laurea honoris causa, per la scarsa credibilità dell’interessata, trascurando di scorrere l’elenco, piuttosto scandaloso, di coloro che hanno ricevuto (forse perché rinomati evasori fiscali) eguale titolo negli anni più recenti. Così applica una sequenza logica secondo la quale, per evitare che sia eletto un avversario giudicato indegno, si potrebbe anche abolire ogni procedura elettorale italiana. «Lacci e lacciuoli», insegnava Guido Carli, paralizzano la vita sociale italiana. Il ministro Mussi sembra impegnato a crearne di nuovi e di più elaborati, con l’arguta astuzia tipica dei toscani.

Un vecchio universitario, che per sessant’anni, come studente e docente, ha conosciuto mali e virtù dell’accademia italiana ma che ora è messo nell’impossibilità di nuocere per ragioni di età, può forse fare qualche commento su questa situazione. Lo fa prendendo le mosse proprio dalla questione anagrafica. Come ha osservato Sartori, l’intelligenza scientifica e l’esperienza didattica non si misurano con l’età anagrafica. Nei paesi più progrediti, si preferisce scegliere secondo il metodo delle verifiche periodiche: accade abbastanza spesso che un giovane quarantenne sia meno adatto a rimanere nell’università, dove può solo fare del male ma percepisce un salario, di un vecchio ottantenne, che l’anagrafe trasforma in un rimbambito che deve inderogabilmente essere espulso dal corpo accademico. Per restare al nome citato, l’esperienza di Sartori non potrebbe che arricchire gli studenti mentre sarebbe facile elencare decine di nomi di docenti che, pur essendo giovani, all’università fanno solo del male.

Del reclutamento Fino alla seconda metà degli anni Sessanta i ricercatori non esistevano; esistevano gli «assistenti», scelti da commissioni di comodo delle facoltà ma sottoposti a un vincolo rigido: se entro dieci anni non conseguivano la «libera docenza», venivano trasferiti a insegnare nelle scuole medie superiori. Oggi un ricercatore, trentenne o sessantenne che sia, una volta vinto il concorso, può giungere alla pensione anche senza scrivere una riga o dire una parola.

Fino alla seconda metà degli anni Sessanta (ma in definitiva anche oggi) alla base del sistema di arruolamento vi era il contestato sistema della cooptazione. Allora le commissioni giudicatrici per i concorsi a cattedra erano elette da tutti i docenti di una o più facoltà collegate (per esempio, giurisprudenza e scienze politiche). Erano centinaia di votanti dalle materie più disparate. Perciò le votazioni erano orientate da gruppi di potere (accademico o politico), da opinioni correnti, o da pressio- ni meno appariscenti. Questi gruppi erano formati talora da studiosi di grande spessore scientifico (perciò capaci di esercitare una forte e benefica influenza), talora da malandrini accademici che sceglievano su base clientelare. Un noto africanista italiano, il professor Carlo Giglio, pubblicò in quegli anni un opuscolo (non privo di fondamento) intitolato «Il cavallo di Caligola», per definire i risultati di un concorso nella sua materia. Per evitare che questi criteri clientelari (nel bene e nel male) sopravvivessero mentre nasceva l’università di massa, il legislatore ideò altri metodi: l’elezione per gruppi di materie omogenee, seguita dall’estrazione dei cinque commissari; la formazione di gruppi di materie o campi di ricerca, con elezione, al loro interno, dei cinque commissari. Il che dava luogo a una situazione scabrosa. Se il gruppo era molto numeroso, si ritornava alla logica dei potentati; se esso era poco numeroso (per esempio dieci-quindici elettori) entravano in funzione le camarille. I risultati erano in genere prevedibili, una volta presa visione dei risultati elettorali. Oggi si mena grande scandalo per la prevedibilità di certe soluzioni. Gli avvocati raccolgono parcelle e i TAR sono ricchi di ricorsi accademici contro i brogli delle commissioni giudicatrici. Questo concetto trascura il fatto che la comunità scientifica è, per sua natura, composta da poche persone (al massimo qualche decina e solo in pochissimi casi da qualche centinaio), che tutte si conoscono: si stimano o disprezzano, a seconda delle opinioni e del rigore del giudizio. C’è sempre chi preferisce un Caligola fedele ai suoi ordini futuri a uno studioso di somme virtù. Ma, almeno per i gruppi più ristretti, qualsiasi docente potrebbe ricorrere allo sciocco artificio di depositare in anticipo presso un notaio l’elenco dei vincitori: è un modo per arricchire gli avvocati o provocare scandalo virtuoso ma peloso. Quasi sempre chi ricorre a questi trucchi è un candidato già ripetutamente bocciato per la sua incapacità. Se chi scrive può offrire una testimonianza, gli sia concesso di dire che di quasi tutte le decine di concorsi ai quali egli ha preso parte come candidato, come giudice o come spettatore, egli avrebbe potuto depositare, con largo anticipo, l’elenco dei vincitori. Per la semplice ragione che chi studia certe tematiche conosce i propri colleghi o i giovani che lavorano nello stesso ambito e non può non avere su tutto questo un parere, spes- so condiviso. Insomma, la demarcazione tra gli sciocchi e i competenti è ben nota. Come accade per la legge di Grasham, la moneta cattiva scaccia quella buona. Ma la demarcazione non è il frutto della corruzione bensì della valutazione, fatta secondo i criteri anche discutibili.

Per eludere questo rischio, ora il ministro Mussi elabora (con ponderosa lentezza) un sistema di reclutamento cabalistico. Anzitutto egli si propone di riformare i gruppi di elettori, per evitare le schermaglie che dividono pochi specialisti. Ma nel compiere questa operazione, taglia secondo criteri che sfuggono al buon senso. Per citare un solo esempio, tutte le materie che oggi appartengono alle storie non nazionali sono state accorpate con storia delle dottrine politiche, filosofia politica, storia delle istituzioni. Così storia dell’Africa, dell’Asia, delle Americhe, dell’Europa e delle relazioni internazionali sono gettate in un calderone sul quale domina l’inevitabile incompetenza tecnica di quell’africanista che dovrà giudicare un asiatista; un filosofo, uno storico, e così via. Inoltre, per gettare maggiore scompiglio nella cabala del reclutamento, ha ideato un sistema misto del quale pochi comprendono la logica interna ma del quale tutti intuiscono che renderà le procedure pressoché interminabili e probabilmente arbitrarie. Questo è un sistema che non reggerà alla forza delle cose e alle giuste pressioni degli interessati. Sicché non è difficile prevedere un provvedimento che, come è già accaduto in passato, trasformi tutti coloro che hanno titoli formali (senza considerazione per la qualità scientificodidattica) e ope legis sani la situazione e ponga fine all’esplosivo malumore che anima i giovani che attendono di sapere quale sarà il loro avvenire. Per ora si applicano (votazioni previste per l’ottobre 2007) le leggi e i decreti del 1998.

L’idea, così feconda e naturale, di costruire un sistema che produca elenchi nazionali di idonei ai vari ruoli di docenza, fra i quali ogni università possa scegliere secondo le proprie esigenze, i propri orientamenti scientifici o, persino, secondo la volontà delle camarille maggioritarie, un’idea che appartiene a gran parte del mondo accademico non italiano, è stata abbandonata senza motivazioni persuasive.

L’organizzazione Come è noto, grazie al lavoro di Luigi Berlinguer e di Letizia Moratti, dal 2001 vige nelle università italiane il sistema del 3+2. Per chi non ne sa proprio niente, occorre precisare che si tratta di una scissione del percorso di studi in due frazioni. Nella prima (tre anni) si consegue la laurea breve, dall’incerto significato e dallo scarso valore pratico, intesa come indicatore della crescita del numero di studenti che completano il loro lavoro e fanno aumentare anche per l’Italia il numero dei cosiddetti laureati. Nella seconda frazione, denominata originariamente laurea specialistica, e divenuta ora, grazie alla formidabile carica innovativa del ministro Mussi, laurea magistrale, si acquisiscono (o si dovrebbero acquisire) competenze professionali specifiche.

Sulla carta, questo meccanismo parrebbe efficace e tale da reggere la concorrenza con il sistema delle università europee. In pratica è accaduto il contrario. Anzitutto bisogna sapere che per conseguire il primo titolo non è necessario, in primo luogo, sostenere esami, ma acquisire crediti: da 12 a 2 o 3 per volta, secondo la difficoltà della materia. Il voto riportato in un esame diviene un aspetto secondario e, benché ciò possa apparire paradossale, finisce per smarrire gran parte del suo peso nella valutazione finale. Basta che lo studente del triennio raccolga, con una serie di esami e con altre attività «formative» (un capitolo che meriterebbe un lungo discorso a parte, qui impossibile) 180 crediti, e poi rediga una breve memoria, poche pagine di compilazione, per essere ammesso all’esame finale. In tale contesto, il voto riportato diviene un aspetto accessorio del lavoro compiuto. I crediti si ottengono superando con un voto di almeno 18/30 alcuni esami obbligatori e, assieme a questi, una serie di esami relativi a tematiche collegate ragionevolmente ma riguardanti aspetti minori degli stessi temi: talora aspetti marginali, eguali a un capitolo di un libro se non anche a un paragrafo.

Bisogna però aggiungere che i crediti e i corsi possono essere conquistati anche in altre maniere. Quanto ai crediti, ogni studente dispone di un certo numero di possibilità di ottenerli anche mediante attività parascolastiche che gli vengano riconosciute: un’attività professionale collegata ai suoi studi; la partecipazione a corsi o seminari specialistici. Sulla carta ciò avrebbe un senso se in realtà le cose fossero applicate con rigore. Invece accade spesso che tali attività vengano riconosciute e «accreditate» su presupposti inconsistenti e finiscano per diventare un privilegio clientelare dei docenti. Quanto ai corsi, vale la pena di dire che questi non sono necessariamente omogenei. Un corso di 3 crediti (come nel gioco del Monopoli) può essere diviso in tre «moduli», insegnati da tre docenti diversi, spesso esterni all’università e arruolati con un contratto che prevede compensi oscillanti da un minimo di 200 euro all’anno (sic) sino a qualche migliaio di euro. Non esiste, a quanto si sa, un censimento di questi «moduli», ma è ben noto che centinaia di liberi professionisti, di pensionati della pubblica amministrazione, di dirigenti privati, e persino di professori universitari in quiescenza anticipata, per loro scelta, prima di avere raggiunto i limiti di età, sono ben felici di tenere, anche gratuitamente un modulo di insegnamento (per esempio di nove o dodici ore di lezione in un anno accademico) poiché ciò consente loro di sentirsi chiamare con l’appellativo di «professore», un tito- lo che parrebbe svalutato ma che tutti poi si precipitano ad aggiungere al loro curriculum e sul loro biglietto da visita.

Immaginare che da questo sistema si riceva una formazione sufficiente per affrontare il mondo del lavoro significa passeggiare per i pascoli del cielo. Solo pochi studenti volenterosi danno un senso al lavoro compiuto. Tanto più che in molti atenei di poco credito gli studenti condizionano le scelte dei docenti, mettendo, come scrive Salvatore Satta nel suo «Il giorno del giudizio», «i maestri al posto degli scolari e gli scolari al posto dei maestri», magari con l’aiuto di genitori litigiosi, presuntuosi e incompetenti. Un accenno, questo, che rinvia al capitolo più vasto relativo alla necessità che nelle università si ricomponga una gerarchia dei valori e dei ruoli effettivamente esercitati.

Dopo il triennio accade perciò che molti passino alla laurea magistrale, che conferisce il titolo di dottore, ottenuto dopo due anni di studi un po’ più rigorosi, per complessivi 120 crediti, con una tesi di laurea (che anch’essa produce crediti) analoga alle tesi di una volta. In pratica, il percorso accademico è stato allungato di un anno, reso più futile nel primo triennio e più faticoso nel biennio «magistrale». Tutto ciò avviene quasi ovunque, sulla base del precetto dell’autonomia universitaria, secondo la tecnica della semestralizzazione (della quale si dirà sotto) il cui principale effetto è di rendere impossibile un lavoro efficiente e di favorire invece il proliferare della ricerca di crediti a basso costo, cioè concessi e ottenuti mediante pochi giorni di studio e poche ore di lezione.

Questo sistema diviene ancora più farraginoso e inesplorabile se lo si considera dal punto di vista della proliferazione dei corsi «fantasia» e delle classi di laurea dedicate a tematiche talora evanescenti, troppo spesso collegate con interessi di bottega o fantasie malate. Su questo punto è corretto osservare che Mussi ha cercato di mettere un po’ di ordine, riducendo classi di laurea e numero dei corsi. Si è tuttavia fermato a metà strada. I corsi di laurea breve sono stati ridotti da 46 a 43 e quelli per la laurea magistrale da 104 a 94. Chi scor- resse il recente decreto dedicato alle classi di laurea troverebbe ancora proposte che con difficoltà si possono collegare a un percorso scientifico accademico e, più spesso, derivano da interessi localistici o personalistici. Qual è il senso di questa organizzazione? La risposta principale dice che in questo modo i giovani vengono avviati più rapidamente al mondo del lavoro. Ma decine di interviste e numerose statistiche recenti (si vedano i dati di AlmaLaurea) attestano il contrario. C’è un rimedio? La risposta più sincera e diretta impone di dire che questo sistema va raso al suolo e sostituito da un’organizzazione più credibile. Ma siccome in Italia di questi problemi si discute da mezzo secolo senza venirne a capo ragionevolmente, è lecito dubitare di tutto e di tutti. Bisognerebbe però che chi governa il sistema fosse messo nella condizione di non recare altri danni. Egli ha consiglieri esperti: che cosa gli suggeriscono?

Della didattica I «professori universitari» si dividono in varie categorie e strati. Quelli di vecchia generazione sono studiosi che sognavano di entrare nel paradiso accademico e, a poco per volta, sono passati per il purgatorio, sulla via dell’inferno. Molti di loro (così come moltissimi fra i più giovani) sono studiosi esemplari, di rara competenza, di valida esperienza didattica, di dedizione al lavoro che svolgono. Nei primi anni della carriera ricevono compensi miserevoli. I più vecchi invece non avrebbero ragione di lamentarsi (pur che con qualche risparmio siano riusciti a comperarsi la prima casa e non paghino affitti esosi). Altri sono professori solo di nome. Nonostante le numerose velleità di verifica, esiste ancora una robusta falange di docenti che con vari metodi (per esempio, tenere lezione alle 8 di mattina o alle 19 della sera; non partecipare alle riunioni degli organi accademici; fare lezione distrattamente) riesce ancor oggi a mantenere la cattedra e a esercitare una professione più lucrosa.

Alle origini, gli obblighi di un docente universitario erano di tenere almeno tre ore di lezione alla settimana, più tre ore di ricevimenti per gli studenti. Da luglio a settembre erano tre mesi di gradita vacanza: da dedicare a studi severi oppure a più ameni svaghi. Parve una grande riforma l’obbligo, successivamente introdotto, che i docenti «a tempo pieno» dedicassero alla loro attività non meno di 350 ore ogni anno. Ma siccome in questo «monte ore» erano compresi anche i colloqui con gli studenti, bastano poche operazioni aritmetiche per capire che nulla era cambiato. L’università (che frattanto era divenuta università di massa) vedeva il corpo docente diviso in tre categorie: i docenti seri e preparati anche sul piano didattico; i docenti preparati ma didatticamente incapaci, i docenti assenteisti.

Dal 2001 questa situazione è radicalmente cambiata. Quasi ovunque, i corsi debbono essere esauriti entro un semestre e secondo un predeterminato numero di ore. Il semestre, in Italia, è un’entità discutibile. Fra vacanze, esami e altre occupazioni, dura a malapena tre mesi. In tre mesi un docente di materie futili ha il tempo per dire mille cose inutili. Ma un docente di materie formative deve comprimere una sessantina di ore di lezione. Non è infrequente il caso di docenti che siano costretti (anche per ragioni logistiche) a tenere sino a quattro ore consecutive di lezione. Tuttavia qualsiasi pedagogo sa che per tematiche complesse non si possono inserire in una lezione più di uno o due concetti fondamentali, dato che la curva dell’attenzione e dell’assimilazione di un ascoltatore raggiunge il suo picco dopo venti minuti dall’inizio della lezione e poi cala inesorabilmente. Quattro ore di lezione, pur separate da qualche minuto di intervallo, sono un crimine pedagogico che impedisce la trasmissione del sapere.

Come se ciò non bastasse, per ogni materia è previsto che vi sia una proporzione prederminata fra il numero delle ore che si presume lo studente dedichi al suo apprendimento e il numero delle pagine da leggere che gli sono assegnate. Ciò sulla base del presupposto che tematiche concettualmente complesse siano comprimibili nello spazio dell’equazione di Einstein. E anche questo è un crimine pedagogico. Infatti, le tematiche complesse richiedono un insegnamento che conceda tempo alla riflessione, sia sviluppato secondo testi esaurienti, e non volutamente sintetici, e sia esposto con sufficiente disponibilità di tempo perché gli studenti possano compenetrarsi degli argomenti di cui si occupano. Il sistema attuale garantisce l’ignoranza e l’immediato oblio di tematiche appiccicaticce. Il docente deve avere la forza fisica sufficiente per tenere quattro (o più) ore di lezione, spesso a centinaia di studenti, che poi dovranno, in diversi casi, sostenere una doppia prova, scritta e orale, una specie di tormentone da circo equestre più che da scuola di alta formazione. Infatti, il docente può limitarsi (come pure accade) a leggere le pagine di un libro qualsiasi, purché breve e povero di concetti; può entrare in un’aula e, senza proferire verbo, scrivere su una lavagna lunghe equazioni che solo pochi intimi comprenderanno; o può, quando è molto dotato per la didattica, esporre con chiarezza un concetto, ma uno solo, nella speranza che di esso rimanga traccia nella mente dello studente. In questo modo gli esami di fine semestre divengono una specie di rito simbolico, durante il quale ciascuno cerca di liberarsi di qualcosa: il docente delle centinaia di esami che gli si parano dinanzi; lo studente, delle poche nozioni che sarà riuscito a trattenere. È la fabbrica del nozionismo in pillole; la piramide dell’ignoranza eretta a sistema. E siccome un docente solo non basta a far fronte a centinaia di studenti, ecco allora entrare in gioco i «precari» che suppliscono con la loro buona volontà o con le loro speranze alle carenze del sistema.

Ciò accade nelle università maggiori e di maggior prestigio. Altre sono o mostruose macchine con decine di migliaia di studenti o piccoli centri di potere, privi di sostanza scientifica ma facili per la rapidità con la quale possono essere attraversati. Infatti, dal punto di vista della didattica (ma anche dell’organizzazione) è necessario distinguere fra le università che hanno tradizione e/o sostanza e gli accampamenti barbarici che in molte città d’Italia potentati locali, pur di poter far mostra della loro influenza intellettuale, hanno trasformato in università, ricche magari di risorse finanziarie (di qui lo stridente contrasto creato dalla recentissima introduzione di nuovi parametri per la valutazione del prodotto e la distribuzione delle risorse statali) e spesso del tutto prive di personale realmente preparato; povere di docenti in residenza, di strutture (biblioteche e laboratori) indispensabili allo studio o alla ricerca. Basta che sia possibile concedere un titolo di studio dal valore legale, che tutto fa brodo. Così, se si scorrono le tavole che sintetizzano lo stato dell’università italiana e che periodicamente appaiono sulla stampa si ha un quadro costruito su parametri fuorvianti che spesso rovesciano le gerarchie dei valori, dirottando i giovani appena usciti dal liceo verso false mete. O verso mete dove è possibile ottenere ciò che si vuole, purché si paghino in maniera salata le tasse d’ingresso.

La ricerca Questo panorama così desolante può essere considerato in modo meno sconsolato se si guardano i prodotti della ricerca. Qui si debbono fare molte distinzioni. Si deve aggiungere che quasi sempre i parametri adottati dalla comunità scientifica per misurare i risultati del lavoro svolto si rifanno a pubblicazioni scritte in inglese mentre è noto che, fuori del campo scientifico «duro», in Italia si scrive in italiano. Perciò gran parte di ciò che viene fatto fuori delle facoltà di scienze e di medicina è ignorato fuori dei nostri confini. Ma si deve aggiungere che su questo piano rifulge la secolare virtù italiana, cioè l’arte di arrangiarsi.

Non è il caso di esagerare e nemmeno di generalizzare senza competenza. Ma pare fuori di dubbio che in settori come le scienze mediche, le matematiche, la fisica teorica e applicata, la chimica, vi siano in Italia studiosi che, se fossero nati negli Stati Uniti, avrebbero già ricevuto il Nobel. Che alcuni centri di eccellenza possono tranquillamente rivaleggiare con le maggiori università di tutto il mondo. Se poi si passa alle scienze umane, benché sia vero che in questo ambito prosperino molte sterpaglie, sia lecito a chi ha fatto di mestiere lo storico, pensare che in questo ambito di studio (e in genere nelle scienze umane, sociali, politiche, giuridiche ed economiche) si supera, o eguaglia, con le dovute eccezioni in negativo o in positivo, ciò che viene fatto fuori d’Italia. Basta, per averne un’idea, scorrere i manuali affidati agli studenti non di periferiche accademie ma delle grandi università della costa orientale degli Stati Uniti, per rendersi conto che la qualità degli studi di base è, a dir poco, modesta.

Ciò non significa che la ricerca non abbia bisogno di risorse. L’anno accademico 2006-2007 è stato dominato dall’incapacità del ministro di far procedere il bando per i Progetti di ricerca di interesse nazionale. Quale che ne sia la ragione, l’effetto di questo ritardo equivale a un’interruzione del lavoro di molti per un anno. Le critiche rivolte a chi ha ridotto la percentuale di PIL destinata alle università sono giustificate solo se si inverte la rotta. Dopo due anni di pausa, ora si preannuncia una svolta a partire dal 2008: tre anni di intervallo sono un’eternità per chi è costretto a interrompere lavori che sono una ragione di vita e una conquista intellettuale.