La lettura nella società postmoderna

Di Emanuele Trevi Giovedì 29 Aprile 2010 14:50 Stampa
Le analisi che si limitano a contare il numero dei lettori e soprattutto dei non lettori hanno trascurato la riflessione sulla lettura in sé. Il nuovo millennio sembra essersi lascia­to alle spalle gli altissimi risultati e la grande varietà rag­giunti dalla letteratura nel corso dell’Ottocento e del No­vecento, una forma d’arte a sua volta capace di creare un tipo di lettura di notevole livello. Il nostro tempo si conno­ta invece per un appiattimento e un’omologazione della proposta letteraria e, insieme causa e conseguenza, per l’emergere di una figura di lettore divenuto strumento nel­le mani della “macchina narrativa” e affetto da un "bovarismo" spinto all'eccesso.

 

 La lettura è sparita dall’orizzonte. È la “grande assente” in tutte le riflessioni di oggi sulla letteratura. Si parla molto, semmai, del numero dei lettori. Ma in questo caso, è l’altra metà della torta statistica, quella dei non lettori, a catturare l’attenzione. Mentre la lettura in sé, la lettura di chi legge, è stata lasciata a se stessa. Da questo punto di vista, si può proprio affermare che noi non siamo più moderni. Perché è costante, in tutta la modernità, un’attenzione alla lettura che a volte arriva a produrre alcuni dei più grandi capolavori dell’umanità, dal “Don Chisciotte” a “Madame Bovary”, passando per quel prezioso monile narrativo che è “L’Abbazia di Northanger” di Jane Austen. Ma è lecito aggiungere che nel Novecento il corto circuito lettura-scrittura raggiunge le sue conseguenze estreme. Se c’è una cosa che tutte le avanguardie fanno, senza eccezione, è inventare i propri lettori. Allargare il campo del leggibile. È in modo molto simile (e le influenze reciproche sono innumerevoli) che gli esperimenti musicali, così radicali nei primi trent’anni del secolo scorso, rimettono al centro dell’attenzione l’ascolto, ne sondano le possibilità, ne ricostruiscono l’edificio da capo a fondo. Quello che ci siamo lasciati alle spalle, è un panorama di straordinaria ricchezza. La letteratura di cent’anni fa ci sembra dotata di una incredibile varietà, percepibile prima ancora delle sue qualità intrinseche. Tutto si praticava ad altissimi livelli, nel campo dei generi di scrittura: il romanzo e la poesia lirica, il diario e la lettera e il racconto di viaggio, il saggio, il poema in prosa, la parodia, la commedia brillante, il memoriale. Ma i prodotti estetici non nascono da soli, indipendentemente dalle loro possibilità di essere amati, compresi, discussi.

Senza indulgere in una futile nostalgia del passato,
bisognerà ammettere che il confronto con il presente
rende manifesta una “decadenza della lettura” che
ha conseguenze enormi e imponderabili su ciò che
viene scritto

Alla ricchezza delle forme letterarie corrisponde necessariamente un tipo di lettura poliedrico, capace di determinate forme di attenzione e di piacere, incline all’avventura. Senza indulgere in una futile nostalgia del passato, bisognerà ammettere che il confronto con il presente rende manifesta una “decadenza della lettura” che ha conseguenze enormi e imponderabili su ciò che viene scritto. Per venire rapidamente al sodo, possiamo dire che questa decadenza consiste in una restrizione, in una specie di atrofia indotta da circostanze esterne. Tutt’altro che morta (si vendono milioni e milioni di libri ogni anno), la lettura ha ridotto le sue prerogative, si è stabilizzata su uno standard universale: sempre di più, con l’andare del tempo, leggere un’opera letteraria è sinonimo di consumare una prestazione narrativa. Il lettore di romanzi non è certo uno sciocco. Esercita un lavoro, da cui ricava un godimento. Perché le cose funzionino, c’è bisogno di un metodo, fondato sulla linearità e la consequenzialità. L’opera narrativa è il rovescio esatto, l’alveolo in cui si deposita docilmente la lettura. Quando la storia ci ha catturati nel suo intrigo, noi aderiamo perfettamente all’idea di lettura che essa implica. Questa “collaborazione narrativa” è il motore segreto della fabbrica dei best seller. Mettete le mani su questo meccanismo, e il mondo sarà vostro. All’atto pratico, non è tanto semplice. Legioni di apprendisti stregoni si spaccano le corna senza arrivare a nulla. Ma se le cause sono imponderabili, gli effetti sono davanti a tutti. L’opera narrativa di successo è quella che “assoggetta” la lettura. All’iniziativa personale, concede il minimo spazio. La moltitudine dei lettori tanto più sarà grande, quanto più leggerà l’opera in modo simile. È una forza centripeta che, nei casi più efficaci, rimane intatta anche nelle traduzioni, negli adattamenti. Il sempre geniale Pascal diceva che bisogna leggere né troppo in fretta, né troppo lentamente. È una raccomandazione valida sia per un lettore che per un musicista. In entrambi i casi, si tratta di trovare il tempo giusto per un’esecuzione. Pascal, figlio di un’epoca intrisa di musica fino al midollo, immagina il testo come spartito. Il best seller contemporaneo rende inutili queste preoccupazioni. È lui che esegue il suo stesso spartito, è lui che detta l’unico tempo possibile. Da esecutore, il lettore retrocede al rango di strumento. Più questo strumento è docile, privo di connotazioni locali troppo marcate, di idiosincrasie personali, più la grande “macchina narrativa” potrà produrre i suoi profitti. Ovviamente, ci sono ancora eccezioni vitali. In ogni angolo del mondo, c’è ancora chi legge le poesie di Rilke e di Benn, i diari di Kafka, i cantos di Pound, gli ultimi monologhi di Beckett ecc. Legge un tipo di scritture, insomma, che rende necessario l’atto di riafferrare le briglie della lettura. Di un testo arduo, avventuroso, inventivo il minimo che possiamo dire è che siamo noi a crearlo ogni volta che lo leggiamo. La grande poesia moderna, considerata a partire da Baudelaire, non potrebbe esistere senza di noi – senza la moltitudine di atti di lettura unici e irripetibili che ne hanno fatto una potente, efficacissima, affascinante allucinazione collettiva. All’altro capo delle possibilità, il prodotto narrativo di largo smercio non ha nessun bisogno di questa partecipazione. Come il dio della “Genesi”, è quello che è. La forza di coazione psicologica del best seller affonda le sue radici, in ultima analisi, proprio in questo farci intendere che esso è fatto così, indipendentemente da chi lo legge. Quello che ci viene concesso, è poco più di nulla: immaginiamo delle scene, diamo un volto ai personaggi. Ma questa è la schiuma della lettura, la sua fisiologia più rudimentale.

A un impoverimento della lettura
corrisponde un impoverimento della letteratura


A un impoverimento della lettura, si può farne una specie di regola, corrisponde un impoverimento della letteratura. I due fenomeni stanno nel classico rapporto dell’uovo e della gallina: non si può dire quale sia la causa dell’altro. Appare utile qui aprire una breve parentesi per citare alcuni riferimenti ad altri scritti in materia. La bibliografia è vastissima, ma saranno presi in considerazione solo tre esempi, appartenenti a vari periodi del Novecento, come testimonianza di una ricchezza riflessa dell’atto di lettura, alla quale corrisponde un’altissima temperatura letteraria, un clima fertile di novità ed esperimenti. Il primo esempio è del 1925, anno in cui Virginia Woolf, oltre a “Mrs Dalloway”, pubblica la prima serie dei saggi che formano “Il lettore comune”. Non solo la conferenza su “Come dobbiamo leggere un libro?”, ma tutti i saggi delle due serie de “Il lettore comune” sono una testimonianza straordinaria di un’arte di leggere profonda e originalissima, che per certi versi appartiene alla sola Virginia, per altri è uno stile di gruppo riservato a una ristretta cerchia di iniziati. Dal 1925 saltiamo al molto più fosco 1942. In quell’anno il più eminente critico italiano della cosiddetta stagione ermetica, Carlo Bo, pubblica su “Letteratura” un lungo saggio intitolato “Della lettura”. La parte più interessante di questo saggio è una vera invenzione, degna di essere ricordata. Bo finge di mettersi alle spalle di alcuni dei suoi più illustri maestri e contemporanei, spiandoli nel segreto del loro metodo di lettura. Come se fosse un testo, l’atto di lettura è sottoposto a una vera e propria analisi stilistica. E lo stile di lettura definisce un intero destino spirituale. Bo parte da un esempio che ha quasi il valore di archetipo, di un’idea platonica: Mallarmé che legge Poe. Sorprendentemente, lo studio rivela anche dei cattivi lettori. Se è valida l’idea del lettore piombato al centro della propria solitudine, il Proust lettore di Ruskin eccede nelle iniziative personali. Bo termina il suo saggio con alcune parole che vale la pena riportare: è la profezia di un lettore «ideale», capace di spingersi ancora oltre le esperienze conosciute, in fecondo contatto con una letteratura che si rinnova grazie alla sua collaborazione, fino a ridefinire l’atto di lettura in sé. «A poco a poco – conclude Bo con un ottimismo che oggi suona difficile da sottoscrivere - questo lettore ideale si dimenticherà totalmente dell’economia che regola i nostri rapporti coi libri e in questa ultima metamorfosi sapremo veramente cosa è la lettura». Un altro passo avanti nel Novecento, ci porta al 1979. È questa la data del più celebre e importante saggio di Paul de Man, “Allegorie della lettura”. Per il grande teorico belga (ma trapiantato in America) il primo passo fu un saggio su Rousseau, che si trasformò in un saggio sull’impossibilità di leggere Rousseau stesso, e infine sull’impossibilità della lettura tout court. Il saggio di de Man si colloca nel crepuscolo di un lungo periodo storico in cui la nozione di avanguardia è al centro della ricerca estetica per migliaia di artisti, in ogni continente. “Allegorie della lettura” è un libro che non si può immaginare al di fuori dell’epoca che produce alcune delle più possenti e terminali visioni di una modernità ormai in rotta di collisione, da “Petrolio” di Pasolini all’“Arcobaleno della gravità” di Pynchon. Il nostro destino è quello di guardare a quella stagione (che invece si immaginò eterna) come a un paesaggio storico in sé concluso, da considerare in una lontananza irrecuperabile. Uno dei segni dei tempi è proprio l’interrompersi di una tradizione di pensiero sulla lettura di cui sono stati ricordati tre esempi memorabili, tra centinaia d’altri possibili.

Una civiltà narrativa e per la precisione romanzesca
come la nostra non può non guardare all’Ottocento
come a un serbatoio di profezie, di eredità


Chiusa questa brevissima rassegna, accenniamo almeno a un terreno di riflessioni molto proficuo, a parere di chi scrive, per chi volesse riannodare i fili – così recisi - di una teoria della lettura contemporanea. L’implosione della modernità, tra le altre sue conseguenze, non ci ha portato solo in avanti. Ha reso anche più evidenti alcuni comportamenti mentali più arcaici, insediati in noi fin da epoche più remote. Una civiltà narrativa e per la precisione romanzesca come la nostra non può non guardare all’Ottocento come a un serbatoio di profezie, di eredità. Ed è proprio una figura assoluta di lettrice a guardarci, dall’apice del suo secolo, come una santa protettrice, e insieme come il ritratto più veritiero di noi stessi: Emma Bovary. Se questo è vero, il bovarismo contemporaneo andrebbe analizzato con la stessa intelligenza e lo stesso spirito sistematico che animano il libro del filosofo francese Jules de Gaultier, un saggio acutissimo di psicologia sociale uscito per la prima volta nel 1892 e più volte ristampato, intitolato appunto “Il bovarismo”. Con la chiarezza di definizioni propria del grande anatomista, de Gaultier isola quel virus tenace e perverso che si diffonde nelle sue vittime attraverso la lettura. Il bovarismo è «il potere concesso all’uomo di credersi diverso da quello che è». Potere che ha dei limiti oltre i quali si trasforma in una tara, dalla quale è afflitta, in misura più o meno grave, tutta l’umanità di Flaubert. Ogni individuo, osserva de Gaultier, possiede un proprio «indice bovaristico», vale a dire un’inclinazione più o meno spiccata a prendere il salto, a immaginare un’esistenza e una condizione diverse da quelle che gli sono toccate in sorte. Chi siamo? Chi crediamo di essere? La lettura dei romanzi complica all’infinito questa risposta, la colloca nel terreno dell’allucinazione e della menzogna. Il romanzo e l’immaginazione romanzesca (annidata ovunque, dai melodrammi alla pittura sentimentale) smantellano l’io, lo inducono a fare della propria stessa esistenza un romanzo. Non siamo molto lontani dal «romanzo familiare del nevrotico» di cui parlava Freud in un geniale saggio del 1909. Ovviamente, quello che in alcuni non è che un’innocua farsa interiore, per altri può rivelarsi una tragedia. Dipende da quello che de Gaultier definisce il «grado d’energia» che l’individuo investe nella falsa immagine di sé che elabora. Emma Bovary è l’indimenticabile personaggio tragico che è perché la sua energia è possente: «per servire l’irreale fantasma che ha sostituito a se stessa utilizza tutto l’ardore che la divora». Frédéric Moreau, l’eroe de “L’educazione sentimentale”, nutrito di cattiva letteratura non meno di Emma, se la cava, perché a differenza di lei è una creatura mediocre, incapace di intensità. Non è molto difficile intuire come da questi abbagli, da queste patologie, da questi sortilegi della volontà potrebbero prendere le mosse un’antropologia e una psicologia della lettura contemporanea. Più pazzi ancora dei nostri lontani avi romantici, coltiviamo forme di bovarismo perniciose ed evolute. Non abbiamo nemmeno più bisogno, come Emma Bovary, di questo o quel personaggio con cui identificarci. Ci siamo spinti oltre. Immersi in un pulviscolo di storie, desideriamo tutto, e non abbiamo più un’immagine chiara di nulla. In confronto a ognuno di noi, Don Chisciotte è un uomo tranquillo. Ma qui, come tante volte accade, più che di storia della lettura, si inizia a parlare di storia della follia, personale e collettiva. E il discorso qui portato avanti, può trovare una provvisoria chiusa.