Giustizia penale e società italiana: appunti per un programma

Di Luigi Manconi Martedì 09 Febbraio 2010 20:16 Stampa
Un’agenda per la riforma della giustizia penale italiana non può che partire dalla necessità di restituirle efficienza, senza limitare le sue finalità di tutela dei diritti delle vittime, degli accusati, dei condannati. La grave inerzia del sistema giudiziario italiano, che inevitabilmente finisce per riprodurre diseguaglianze sociali, può essere affrontata imboccando l’unica direttrice dotata di razionalità e lungimiranza: quella della depenalizzazione e della decarcerizzazione.

Non v’è dubbio che la giustizia penale costituisca uno dei terminali più sensibili del rapporto tra istituzioni e società. Lo è di per sé, in qualsiasi tempo e in qualsiasi luogo, sarei tentato di dire. Lo è, in particolare, in Italia, in questi anni, e per un complesso di motivi che non possono ridursi a quei pochi procedimenti penali di qualche rilevanza che coinvolgono il presidente del Consiglio dei ministri.

La giustizia penale – come proverò a illustrare in queste note, scritte con l’aiuto di Stefano Anastasia – è il luogo di incontro tra tutela pubblica dei beni giuridici costituzionalmente rilevanti e diritti di libertà dei cittadini, sia di coloro che possono essere offesi dalla commissione di un reato, sia di coloro che possono essere offesi da un’accusa ingiusta, sia, infine, di coloro che possono essere offesi da modalità di punizione illegittima e irrispettosa della dignità umana. Da una parte, i diritti dei cittadini, in forma singola o associata, costituiscono il presupposto della tutela penale offerta dallo Stato contro la loro lesione; dall’altra, i diritti fondamentali di libertà costituiscono il contrappeso dell’azione dei pubblici poteri nell’esercizio di quella tutela pure costituzionalmente motivata. Inevitabile, quindi, che in essa si incrocino domande radicali rivolte al sistema istituzionale: domande di tutela dai reati (e dagli effetti immediati e permanenti di essi sulle vittime e sui loro congiunti) e domande di tutela della propria libertà nel processo e dei propri diritti dopo la sua conclusione.

Insomma, nella giustizia penale si concentrano rilevanti motivi di legittimazione dei poteri pubblici; tanto più rilevanti quanto più “pesante” è diventata l’amministrazione della giustizia (e di quella penale in primo luogo) nel complesso delle funzioni statali di governo: da una parte l’ideologia dello Stato minimo post novecentesco e l’affermarsi del principio di sussidiarietà come regolatore della necessità dell’intervento dei pubblici poteri, dall’altra l’erosione globale-sovranazionale e locale-territoriale delle attribuzioni dei vecchi Stati nazionali tendono a lasciare alle strutture di governo tradizionale solo i poteri residuali della difesa, della sicurezza e della giustizia, come peraltro esplicitamente teorizzato da una ricca letteratura neoliberista e neoconservatrice all’indomani dell’11 settembre.

A queste ragioni, che attribuiscono alla giustizia penale una particolare sensibilità nel rapporto tra cittadini e istituzioni, alcune coessenziali alla sua stessa esistenza, altre affermatesi nelle trasformazioni contemporanee delle funzioni di governo, in Italia se ne aggiungono altre, peculiari del sistema nazionale di amministrazione della giustizia e della vicenda politico-istituzionale del nostro paese. Nel dibattito pubblico, assai più che nella opinione diffusa, pesano ancora molto le particolarissime circostanze della trasformazione del sistema politico dei primi anni Novanta: la giustizia penale vi ebbe gran peso e molti dei protagonisti di allora, con le proprie medaglie e con le proprie cicatrici, sono ancora in campo e tendono a riproporre le rispettive ragioni di allora. Inevitabile che il tema riscaldi gli animi, tanto più che qualche vicenda giudiziaria si trascina da allora e addirittura investe il presidente del Consiglio dei ministri.

Ma ciò che rende peculiare la vicenda italiana, nel rapporto tra società civile e istituzioni, è – assai più dei fantasmi del passato – la grave inefficienza del nostro sistema giudiziario, esemplarmente rappresentata dalla cosiddetta legge Pinto e dalle sue vicissitudini. Essendo stata l’Italia condannata ripetutamente dalla Corte europea dei diritti umani per la irragionevole durata dei processi, nel 2001 il Parlamento approva la legge Pinto, nient’altro che un filtro frapposto al ricorso presso la Corte europea: come dire, i panni sporchi si lavano in famiglia. Nel tempo però il filtro si intasa e, in un crescendo surreale, cominciano a fioccare i ricorsi sulla irragionevole durata dei procedimenti che dovrebbero ope-rare una cernita tra i ricorsi sulla irragionevole durata dei procedimenti originari. Così si arriva all’ultimo dei rimedi possibili: decidere per legge dello Stato ciò che è ragionevole e ciò che non lo è secondo la Corte europea dei diritti umani. È quanto vorrebbe fare, tra l’altro, il noto disegno di legge sul “processo breve” nel suo articolo 1. Ovviamente a Strasburgo ignoreranno questo ultimo ritrovato della nostra callida cultura dei rimedi, continueranno a condannarci per la irragionevole durata dei procedimenti e saremo punto e a capo.

Se all’origine di questa sintomatica vicenda vi è la grave crisi della giustizia civile, in cui l’Italia, quanto a durata media dei procedimenti, si colloca al 156° posto su 178 Stati censiti dalla Banca mondiale, la situazione non è migliore se si guarda alla giustizia penale. 3.262.000 erano i procedimenti penali pendenti in Italia alla fine del 2008, e a sentire il ministro della Giustizia, Angelino Alfano, «il vero dramma è che il sistema non solo non riesce a smaltire questo spaventoso arretrato, ma arranca faticosamente senza riuscire neppure ad eliminare un numero almeno pari ai sopravvenuti, così alimentando ulteriormente il deficit di efficienza del sistema».

Almeno la metà dei circa 3 milioni di delitti denunciati ogni anno resta impunito e circa 160.000 processi l’anno si chiudono per lo scadere dei termini processuali, senza bisogno che il governo intervenga con la sua mannaia nella forma del cosiddetto “processo breve”.

È inutile dire che l’inefficienza premia l’ineguaglianza: sia quando è vittima sia quando è accusato di essere autore di reato, chi ha i mezzi economici, sociali, culturali per stare in giudizio al pari della parte avversa può contare sulla possibilità di avere giustizia nel merito, ovvero anche – quando sia sul banco degli accusati – di sottrarsi alla condanna puntando alla prescrizione. È inutile dire, poi, che chi abbia quel capitale umano, economico e relazionale, laddove sia stato riconosciuto colpevole di un reato, avrà (legittimamente) tutte le condizioni per accedere non appena possibile alle misure alternative alla detenzione.

Viceversa, le disfunzioni della giustizia penale colpiscono inesorabilmente chi quei mezzi non li abbia e venga processato per direttissima, quasi “sommariamente”, appena difeso secondo le forme minime e obbligatorie previste dalla legge (e talvolta senza nemmeno il ricorso a quelle). Inesorabilmente, per questi cittadini di rango inferiore, anche solo per reati e pene di scarsissima entità, si aprono quindi le porte del carcere, che spesso sono porte girevoli, da cui si entra e si esce senza soluzione di continuità, salvo che per gli stranieri, che trovano nei Centri di identificazione ed espulsione (CIE) una sorta di originale diversivo, si fa per dire, alla tetra monotonia del carcere (i paradossi vanno manovrati con cautela: c’è il rischio che qualcuno li prenda sul serio).

Così, e siamo arrivati al fondo del burrone, le carceri raccolgono i resti e i detriti (si dovrebbe dire gli scarti) di una macchina inefficiente, oltre che mostruosa, che si limita a rappresentare simbolicamente il sistema della sicurezza nelle forme della rimozione/ repressione della devianza dalla norma.

Se questo può essere un consuntivo realistico dei principali problemi della giustizia penale in Italia, un’agenda per le riforme non può che partire dalla necessità di restituirle efficienza, senza limitare le sue finalità di tutela dei diritti delle vittime, degli accusati e dei condannati.

Efficienza significa innanzitutto risorse (umane, finanziarie e materiali) perché i processi possano essere svolti in tempi rapidi e con tutte le garanzie previste. Potrebbe tornare utile a questo fine, ad esempio, la sempre rinviata revisione delle circoscrizioni giudiziarie, che rappresentano ancora un’Italia ottocentesca distribuendo irrazionalmente uomini e mezzi (entrambi scarsi) del sistema giudiziario.

Ma, d’altro canto, non si può non agire sul versante della domanda di giustizia. Una più ricca offerta di risposte politiche alle ansie della maggioranza non deviante, così come ai bisogni (per quanto espressi in maniera alterata) di una devianza che ha origini sociali, potrebbe limitare il ricorso alla giustizia penale a quella sola ineliminabile misura della quale la convivenza civile non può fare a meno. Al di là della tecnica legislativa, è questo il cuore della proposta garantista di un diritto penale minimo.

Ridotto allo stretto indispensabile l’ambito di intervento della giustizia penale – ad esempio liberandolo da tutte quelle oppressive fattispecie che criminalizzano condizioni sociali marginali più che condotte offensive rispetto al prossimo e alla collettività – nel processo andrà assicurata l’effettiva parità delle parti. Nonostante l’enfasi con cui ogni volta viene richiamata, l’annosa questione della separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri sembra in verità già risolta dalla rigida distinzione delle funzioni, come realizzata dalle ultime riforme dell’ordinamento giudiziario: secondo i dati del Consiglio superiore della magistratura, i passaggi dalle funzioni giudicanti a quelle inquirenti (e viceversa) sono ormai ridotte al lumicino, configurando i due profili professionali come chiaramente distinti in competenza, usi e costumi. Piuttosto, il principio della parità delle parti dovrebbe comportare una nuova valutazione degli strumenti per la difesa dei non abbienti. Le riforme della difesa d’ufficio e del gratuito patrocinio di dieci anni fa non hanno dato i risultati sperati. Alla luce dei fatti sarebbe meglio ritornare sulla questione.

Infine, restano da affrontare i temi del carcere e dell’esecuzione penale. La Costituzione dice che: «la libertà personale è inviolabile» (articolo 13, comma 1); «l’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva» (articolo 27, comma 2); «le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato» (articolo 27, comma 3).

Tutto questo basterebbe a riportare il ricorso al carcere ad extrema ratio delle misure cautelari e punitive, come dovrebbe essere proprio del nostro sistema giuridico.

Al di là di ogni altra considerazione, l’idea di un “piano carceri” fondato solo sulla costruzione di nuovi istituti ha il fiato corto della improbabile scienza del “tacòn” (che platealmente si rivela “pezo del buso”), destinata a far fronte goffamente alla durata irragionevole dei procedimenti giudiziari. A questo ritmo di crescita della popolazione detenuta, non basteranno 20 o 30.000 posti letto in più nelle carceri italiane, non basteranno né uno né due miliardi di euro. Bisogna invertire la rotta, verso l’unica direttrice dotata di razionalità e lungimiranza: quella della depenalizzazione/de car ce rizzazione, ovvero la riduzione del numero delle condotte qualificate come reati e del numero dei reati che prevedono la detenzione in cella. Si proceda, dunque, in questa direzione, a partire dal ricorso alla custodia cautelare in carcere e dai suoi automatismi (legali o culturali) di applicazione (l’Italia è il paese d’Europa con il maggior numero di detenuti in attesa di giudizio); a partire dalla riduzione delle pene detentive e dei loro (automatici) aggravamenti, come nel caso dei recidivi; ad iniziare dal rilancio delle alternative alla detenzione.

La Costituzione parla di “pene” e non di “pena detentiva” o di “carcere”: perché condannarsi a condannare sempre e comunque al carcere, anche quando esso non è necessario e, anzi, può essere dannoso? Perché non incentivare il passaggio, nel modo più ampio possibile, dalla cella chiusa alle misure alternative, dal momento che è dimostrato che la recidiva dei detenuti è tre volte e mezzo superiore a quella di chi sconta la pena fuori dalla galera? Come hanno fatto notare i giudici federali al governatore della California, Arnold Schwarzenegger, che ha problemi di sovraffollamento delle carceri simili ai nostri, ne verrebbero ingenti risparmi di spesa da reinvestire non solo in programmi di sostegno ai condannati in misura alternativa, ma anche alle necessità finanziarie dell’intero sistema di giustizia.

Perché non fare la cosa giusta, invece di inseguire la solita e tetra utopia negativa (“più carcere, più detenuti uguale più sicurezza”)?