La penalizzazione della politica: una peculiarità italiana?

Di Carlo Guarnieri Martedì 09 Febbraio 2010 20:06 Stampa
La crescita del rilievo politico della giustizia penale è un fenomeno che non riguarda solo l’Italia. Anche altri paesi, come gli Stati Uniti e la Francia, hanno conosciuto negli ultimi decenni fenomeni simili. Il caso italiano si distingue però per via di un assetto che tende a moltiplicare le indagini e il loro impatto e, quindi, le tensioni fra giustizia e politica. Si tratta di una tendenza che, alla lunga, non può che logorare la tenuta di tutte le istituzioni dello Stato.

Da più di quindici anni le iniziative della magistratura penale hanno un fortissimo impatto sul nostro sistema politico: da Craxi a Berlusconi, passando per Andreotti, Forlani e Mastella, numerosi leader della Prima e della Seconda Repubblica sono stati ripetutamente indagati per gravi reati. Come spiegare questo fenomeno? Davvero la nostra classe politica presenta un tasso di delittuosità così elevato? Oppure i meccanismi che nel nostro assetto istituzionale governano le relazioni fra giustizia e politica sono, almeno in parte, responsabili per questo stato di cose? È molto difficile rispondere in modo netto a queste domande. Un buon punto di partenza è comunque osservare quanto avviene altrove, in paesi non troppo differenti dal nostro.

Semplificando un po’, si possono distinguere due situazioni abbastanza diverse. Ci sono paesi dove la giustizia – almeno quella penale – non sembra giocare un ruolo politico di rilievo. È il caso, ad esempio, della Gran Bretagna, dove il recente scandalo sui rimborsi gonfiati dei parlamentari ha provocato numerose dimissioni, ma non procedimenti penali. Anche in Germania, dove pure non sono mancati scandali legati ad episodi di corruzione o di finanziamento illecito dei partiti, la giustizia penale si muove di solito con prudenza, come è emerso nel caso dell’ex cancelliere Kohl, i cui illeciti sono stati rapidamente archiviati in seguito al pagamento di una piccola sanzione. In altri paesi le cose vanno invece diversamente e le somiglianze con l’Italia non mancano: le iniziative della magistratura sono numerose e politicamente incisive, anche per via dell’appoggio che esse godono nell’opinione pubblica e nei mezzi di comunicazione di massa. Un po’ in tutti i paesi, infatti, i media tendono ad appoggiare le indagini giudiziarie e ad amplificarne l’impatto. Del resto, l’alleanza fra magistratura e media si basa su una comunanza di interessi: i magistrati forniscono ai media un materiale prezioso – le reali o supposte malefatte dei politici – e i media contraccambiano sostenendo le iniziative della magistratura.

Gli Stati Uniti sono forse il paese in cui da più tempo la giustizia penale interviene nel sistema politico. In passato tali interventi erano più numerosi a livello locale, dove corruzione e collusioni con la criminalità organizzata tendevano a concentrarsi. A partire dallo scandalo Watergate del 1972, le indagini su politici federali si sono moltiplicate, fino a toccare ripetutamente gli stessi presidenti e i loro staff. Semmai, va notato che il sistema giudiziario statunitense – dove chi sostiene l’accusa presenta spesso un accentuato profilo politico e le indagini più rilevanti sfociano in procedure di impeachment davanti al Congresso – tende a far risaltare la natura latu sensu politica di questi casi. È un fatto che ha giocato a favore di Clinton: le accuse per il caso Lewinsky sono apparse, almeno a buona parte dell’opinione pubblica, esagerate e politicamente motivate. Del resto, qualche decennio prima comportamenti ben più trasgressivi di John F. Kennedy non avevano dato luogo ad alcuna iniziativa giudiziaria (né tantomeno giornalistica).

Il paese che mostra le maggiori somiglianze con l’Italia è comunque la Francia. A partire dagli anni Ottanta, le indagini giudiziarie nei confronti della classe politica francese si sono moltiplicate. I dati al riguardo sono impressionanti: fra il 1992 e il 2002 sono stati indagati ben 53 ministri o ex ministri, un primo ministro, i presidenti del Consiglio costituzionale e dell’Assemblea nazionale e più di 100 deputati, oltre a parecchi sindaci di grandi città, leader di partito e centinaia di dirigenti d’aziende pubbliche e private. Si tratta di numeri non troppo diversi da quelli di “Mani pulite”. In realtà, la Francia mostra anche altri tratti in comune con il nostro paese. Innanzitutto, la struttura di fondo del corpo giudiziario è molto simile. Infatti, l’Italia ha importato nell’Ottocento il modello francese di magistratura: un corpo burocratico caratterizzato da una forte centralizzazione (e, a quel tempo, anche da una forte influenza del governo) e da uno stretto legame fra giudici e pubblici ministeri. Lo stesso sistema processuale non è poi molto diverso. Anche se la nostra riforma del 1989 ha in parte cambiato lo stato di cose, introducendo elementi accusatori nel tradizionale assetto semi-inquisitorio, in entrambi i paesi l’istruzione è nella sostanza condotta da un magistrato imparziale (giudice istruttore o pubblico ministero che sia). Si può aggiungere che le stesse relazioni fra politica ed economia sono sempre state caratterizzate da una discreta dose di opacità: una situazione dovuta a molti fattori e, fra questi, ad una certa reticenza a considerare lecito il finanziamento privato della politica.

Nonostante le numerose indagini giudiziarie, il sistema politico francese non ha però conosciuto crisi paragonabili a quelle italiane. Le istituzioni politiche francesi presentano una solidità ben maggiore di quelle italiane: una solidità che, nel campo della giustizia, è alimentata da una serie di elementi che vale la pena di sottolineare. Innanzitutto, gli uffici del pubblico ministero francese sono soggetti alle istruzioni del governo e in particolare del ministro della Giustizia. Inoltre, la carriera dei magistrati del pubblico ministero può essere – e nei fatti è – fortemente condizionata dal governo: al Consiglio superiore della magistratura (CSM) spetta solo un parere non vincolante. Naturalmente, la capacità di pressione del governo non va sopravvalutata, dato che le indagini più importanti sono di solito affidate a giudici istruttori – che godono di garanzie di indipendenza ben maggiori – e che le iniziative dei magistrati godono anche qui del sostegno dei media. Resta il fatto che la classe politica francese dispone di risorse maggiori per cercare di “ridurre i danni” di eventuali indagini giudiziarie non gradite. Va aggiunto, infatti, che il Parlamento ha la facoltà di sospendere un procedimento che coinvolga uno dei suoi membri. Anche se questa immunità non si estende ai ministri, nel caso del presidente della Repubblica – che in Francia è posto al vertice del potere esecutivo – le tutele sono anche maggiori: per tutta la durata del mandato, il presidente non può essere implicato – neanche come testimone – in un procedimento giudiziario. È interessante notare come i termini dell’immunità presidenziale siano stati inizialmente stabiliti da una decisione, nel 1999, del Consiglio costituzionale cui sono seguiti, nel 2001, una decisione analoga della Corte di cassazione e, nel 2007, un emendamento costituzionale che ha definitivamente chiuso la questione. In questo caso gli organi giudiziari si sono mossi, nei fatti, a difesa delle istituzioni politiche le quali, a loro volta, sono state in grado di ratificare le decisioni giudiziarie cambiando abbastanza rapidamente la Carta costituzionale. A questa rapidità non è estraneo il fatto che, dal 2002 in poi, maggioranza parlamentare e maggioranza presidenziale coincidono: una situazione che il recente adeguamento a cinque anni del mandato del Parlamento e del presidente potrebbe trasformare in regola. In altre parole, la “coabitazione” degli anni passati, che tendeva a dividere l’esecutivo, indebolendolo, non sembra destinata a ripresentarsi. Altri indizi di questa nuova situazione sono la riforma costituzionale del 2008 che ha mutato la composizione del CSM – mettendo in minoranza i magistrati eletti – e l’intenzione proclamata di recente dal presidente Sarkozy di riformare la procedura penale abolendo il giudice istruttore.

Il confronto con la Francia, proprio perché fatto con un sistema che presenta parecchi punti comuni con l’Italia, aiuta a comprendere le ragioni dell’estremo rilievo assunto dalla nostra giustizia penale. In primo luogo, i nostri magistrati del pubblico ministero non solo formano un corpo unico con i giudici ma godono anche delle stesse, elevate garanzie di indipendenza: il governo non dispone di strumenti istituzionali per influenzare le politiche penali perseguite dai vari uffici. In realtà, il principio costituzionale di obbligatorietà dell’azione penale, almeno per come è stato di fatto interpretato, tende ad escludere qualunque forma di responsabilità. Non si tratta solo della responsabilità politica (che era forse quella che i costituenti avevano in mente). Almeno fino ad oggi, anche i controlli interni sono stati poco incisivi, dato che le decisioni finali spettano al CSM e dipendono quindi dalle sue logiche decisionali, spesso influenzate dai rapporti fra le varie correnti giudiziarie. Inoltre, l’obbligatorietà dell’azione penale viene sovente interpretata come un invito ad agire comunque, magari anche solo per verificare l’assenza di responsabilità penali. L’apertura di un’indagine, con il conseguente avviso di garanzia, comporta però delle conseguenze, specie per chi – come il politico – deve necessariamente preoccuparsi della propria reputazione. Non va poi dimenticato che, grazie anche alla lunga stagione di lotta contro il terrorismo e la criminalità organizzata, parecchi dei nostri pubblici ministeri hanno maturato notevole esperienza nella conduzione delle indagini e hanno sviluppato con il tempo buoni rapporti con la polizia giudiziaria di cui peraltro “dispongono”, secondo la norma costituzionale.

A tutti questi elementi va aggiunto che, a partire dagli anni Settanta, grazie alle più robuste garanzie di indipendenza, è venuta progressivamente meno nella magistratura la tradizionale deferenza nei confronti delle altre istituzioni politiche. È un fenomeno che ha toccato l’apice ai tempi di “Mani pulite” – quando da parecchi magistrati furono espressi giudizi durissimi sulla classe politica – ma che in una certa misura permane tuttora, agevolando lo sviluppo di indagini sul malcostume di politici e amministratori. A fronte di questa maggiore propensione della magistratura ad agire, la classe politica, dopo il 1993, non dispone più di particolari difese. La riforma dell’articolo 68 della Costituzione ha drasticamente ridimensionato il raggio d’azione dell’immunità parlamentare: solo l’arresto è sottoposto infatti ad autorizzazione.

La crescita del rilievo politico della giustizia penale è certamente collegata a mutamenti generali dei sistemi politici democratici, come l’erosione della legittimità della classe politica, a sua volta legata al declino dei partiti di massa e all’affermarsi di una politica moralistica che nel “controllo di virtù” ha uno dei suoi principali meccanismi. Nel caso italiano questa crescita è stata favorita dall’importante ruolo che la magistratura ha svolto nella repressione del terrorismo e della criminalità organizzata, ma dipende in buona misura anche da un assetto istituzionale dei rapporti fra giustizia e politica che tende a moltiplicare le occasioni di intervento giudiziario e ad ampliarne l’impatto. Naturalmente, si può sostenere che la maggiore frequenza di indagini derivi da una maggiore “propensione a delinquere” della nostra classe politica. Può essere, ma bisogna tener conto che almeno per certi reati – come quelli di corruzione – il numero di procedimenti giudiziari segnala non solo la presenza del fenomeno ma anche la capacità di intervento degli organi giudiziari e di polizia. Quindi, nel nostro paese la frequenza delle indagini è sicuramente collegata alla presenza di numerosi casi di malaffare, ma è anche favorita da un determinato assetto del sistema giudiziario, un assetto molto rigido, senza “valvole di sicurezza”, che rende più probabile il continuo emergere di conflitti.

Questa tendenza comporta un progressivo logoramento delle nostre istituzioni, con il rischio di uno scontro finale in cui l’alternativa – fatale – potrebbe essere quella fra rendere un corpo non elettivo arbitro ultimo dell’esercizio del potere politico o ridurne drasticamente le garanzie di indipendenza e le capacità operative. Per evitare tutto ciò, le relazioni fra giustizia e politica andrebbero rese più flessibili. Anche soltanto la reintroduzione di qualche forma di immunità parlamentare sarebbe probabilmente sufficiente a ridurre la tensione e a riportare il conflitto in sede parlamentare, cioè politica. In ogni caso, sarebbe importante che gli assetti delle nostre istituzioni non fossero semplicemente dedotti da interpretazioni più o meno corrette di specifiche norme costituzionali, ma che la loro adeguatezza venisse valutata nel complesso. Bisognerebbe allora tener conto che, se è vero che un regime costituzionale si basa sul principio della separazione dei poteri, è anche vero che questi poteri vanno inseriti in una rete di pesi e contrappesi. Le riforme degli ultimi decenni hanno “sbilanciato” l’assetto costituzionale, provocando una sovraesposizione della magistratura che, alla lunga, non potrà che provocare danni, con conseguenze che tutti saremo chiamati a pagare.