Copenaghen: davvero una questione di vita o di morte?

Di Alberto Clò Giovedì 10 Dicembre 2009 18:22 Stampa

La prossima conferenza di Copenaghen, che coinvolgerà circa 200 paesi, ha come obiettivo la stipula di un accordo globale per la lotta contro i cambiamenti climatici. Tra gli strumenti a disposizione, in primo piano si collocano sen­za dubbio il coinvolgimento consapevole dei paesi emer­genti, l’individuazione delle quote di riduzione delle emis­sioni e la definizione di validi meccanismi di controllo e go­vernance, indispensabili per ricercare soluzioni condivise e strategiche per lo sviluppo futuro del pianeta.

È fuor di dubbio che la questione dei cambiamenti climatici, pur se ancora fortemente dibattuta a livello scientifico, sia questione di grande rilevanza per il futuro dell’umanità, per i destini delle economie, per le decisioni che i governi del mondo sono chiamati a intraprendere. Oggi per domani. Cruciale, a tale fine, è la Conference of the Parties delle Nazioni Unite che si terrà a Copenaghen dal 7 al 18 dicembre 2009, cui parteciperanno diplomazie di circa duecento paesi, che dovrebbe pervenire – questa è la speranza – ad un accordo globale che segni un punto di svolta nella lotta contro i cambiamenti climatici. Specie riguardo ad alcune dirimenti questioni rimaste irrisolte nelle Conferenze di Bali (2007) e Poznan (2008): coinvolgimento dei paesi emergenti; target quantitativi di riduzione delle emissioni; criteri di ripartizione equi, certi, trasparenti;1 meccanismi di governance dell’accordo e sanzionatori delle inadempienze. La posta in palio è elevata. Si ritiene, tuttavia, che la radicalizzazione, l’esasperazione, la tensione che si vanno addensando intorno a questo appuntamento, quasi fosse un “punto di non ritorno” per l’umanità intera, non valga a facilitare il corso delle cose e la ricerca di quei sani compromessi che solo possono consentire di fare qualche “passo in avanti”. Parlare di rischio per le generazioni future «di una catastrofe irreversibile» (B. Obama); «del più lungo e globale suicidio della storia »2 (J. M. Barroso); delle «conseguenze ancor più disastrose della crisi attuale»3 (Commissario europeo L. Kovács), è dire cose fuori misura e irritanti, per le decine di milioni di disoccupati che la crisi sta mietendo, e per i sentimenti di paura che in questo modo si diffondono nelle opinioni pubbliche. Quasi fossero queste ultime a impedire un accordo o da loro dipendessero le decisioni sul che fare. Queste esasperazioni, come ogni faziosità a senso unico, finiscono per produrre effetti esattamente opposti a quelli desiderati, perché portano acqua al mulino di chi nega la stessa esistenza del surriscaldamento della terra. L’estremismo e l’allarmismo non pagano.4 La lotta ai cambiamenti climatici, come insegna la deludente esperienza del Protocollo di Kyoto – nonostante la retorica e la pletora di iniziative, direttive, interventi −5 è, infatti, questione di enorme complessità, non banalizzabile nella stantia contrapposizione tra amici e nemici dell’ambiente, quanto piuttosto in quella tra consapevoli e inconsapevoli dei trade-offs di ogni scelta, dei rispettivi costi/benefici, dei profondi cambiamenti necessari a combatterla. Una questione destinata ad incidere nel cuore dei sistemi economici; nella loro struttura produttiva; nei modelli di produzione/consumo; nell’organizzazione sociale, specie nell’aspetto forse più critico del vivere moderno: la mobilità. Invocare un minor ricorso all’uso delle automobili – responsabili grosso modo di un quarto delle emissioni – per poi affrettarsi che si vanno affacciando sulla scena mondiale. Una questione, non ultimo, resa molto più difficile da affrontare, checché se ne dica, dall’attuale crisi economica che va drasticamente riducendo gli investimenti verso una low carbon economy. La speranza da molti alimentata che la crisi costituisse una straordinaria e anzi fortunata opportunità per la riconversione delle economie verso la green economy si va dimostrando del tutto illusoria. «Energy: green jobs, brown economy?»6, si chiedeva un interessante dibattito sui controversi effetti sull’occu-pazione delle misure di stimolo alla clean energy decise a febbraio dal presidente Barack Obama e della successiva proposta di New Energy Plan, teso – ossessione di tutti i presidenti americani – a garantire agli Stati Uniti un’impossibile “indipendenza energetica”, a ridurre le emissioni,7 a creare cinque milioni di nuovi posti di lavoro.8 Le cose non sono andate come la Casa Bianca auspicava: per l’opposizione del Senato all’American Clean and Energy Act, e prevedibilmente ad ogni proposta che impegni gli Stati Uniti a livello internazionale, e per gli effetti nefasti della crisi economica. Nei primi tre trimestri del 2009 i nuovi investimenti nella clean energy sono crollati a livello mondiale di circa un terzo sul corrispondente periodo 2008 – per il crollo della domanda, la rarefazione del credito, la caduta dei prezzi, il fallimento di molte imprese – mentre per l’intero anno si stima una spesa totale di 115 miliardi di dollari, contro i 155 del 2008 e i 500 miliardi annui che si reputano necessari per contenere l’aumento della temperatura entro i 2 °C.9 Proporre, come fa la Commissione europea, di introdurre nei paesi membri (al di là della giustezza teorica di questo strumento) una nuova carbon tax sui prodotti energetici, addizionale rispetto ai costi delle misure adottate e alle elevate imposte esistenti, così penalizzando ulteriormente l’industria e i bilanci familiari, dà conto di una rigidità di posizioni che rischia di non portare ad alcun risultato. La globalizzazione dei mercati – lo dovremmo aver compreso – non consente a singole economie, industrie, aziende di sopportare oneri che loro diretti competitori non intendano sostenere o da cui siano addirittura esentati. Di questo la Commissione, ma non molti paesi membri dell’Unione, sembra non voler tenere conto, nel duplice errato convincimento che l’ambiente sia da considerarsi una “variabile indipendente” dell’economia e che le misure pro ambiente abbiano costi contenuti, ripagandosi nel lungo termine, e comunque irrilevanti «se paragonati al prezzo dell’immobilismo ».10 Come non ne tiene conto nell’altra recente proposta al Parlamento e al Consiglio europeo11 di finanziare generici “piani di crescita lowcarbon” nei paesi in via di sviluppo per 100 miliardi di euro l’anno da qui al 2020, per un totale di 1000 miliardi. O, ancora, nel documento dello scorso 21 ottobre 2009 approvato dal Consiglio dei ministri dell’Ambiente, in cui l’Unione si dice pronta ad elevare dal 20 al 30% l’asticella delle riduzioni delle a sussidiarne l’acquisto o a salvare con soldi pubblici le case produttrici nel momento in cui le vendite calano, dà conto delle contraddizioni che attraversano le politiche climatiche e dei reali problemi con cui ci si deve confrontare. Una questione, ancora, che solleva interrogativi sulle soluzioni tecnologiche da preferire e verso cui concentrare le (scarse) risorse finanziarie disponibili; che richiede una prospettiva di molti decenni; che attraversa la distribuzione della ricchezza e le prospettive di crescita delle economieemissioni al 2020 e addirittura all’80-95% al 2050. Proposte avanzate unilateralmente e frettolosamente per presentarsi a Copenaghen con le “carte in regola”, ma che non possono che suscitare reazioni negative degli Stati membri, alle prese con gravi deficit di bilancio. Proposte che, al contempo, rischiano di non spostare d’un millimetro le ritrosie ad assumere simili impegni da parte degli altri paesi ricchi, a cominciare dall’Amministrazione americana che, nell’impossibilità a vedersi approvata dal Congresso una qualsiasi misura anche solo lontanamente equiparabile ad un prelievo fiscale, richiede pregiudizialmente un impegno diretto e vincolante dei paesi emergenti più avanzati (Cina, India, Brasile in testa), incontrandone un netto rifiuto.12 Nel suo recente discorso alle Nazioni Unite, Barack Obama ha affermato che «anche i paesi a crescita rapida (…) devono fare la loro parte, impegnandosi a restrizioni severe e rispettandole, esattamente come fanno i paesi sviluppati. Possiamo affrontare la sfida climatica solo se i paesi che più inquinano agiscono insieme. Non ci sono altre strade»,13 in un viaggio che si prospetta comunque, ha sostenuto, «lungo e difficile ». La principale tensione che attraverserà Copenaghen resta, in buona sostanza, l’irrisolto problema dell’assetto delle responsabilità e dei relativi oneri che Nord e Sud del mondo sono disposti ad accollarsi nella lotta ai cambiamenti climatici. Alla teorica disponibilità dei paesi ricchi ad aiutare quelli in via di sviluppo, questi contrappongono il rifiuto ad assumersi impegni – se non altro per ragioni di equità e giustizia storica – fino a quando i primi non abbiano effettivamente ridotto le loro emissioni o non si siano impegnati a farlo nella misura del 40% al 2020 (percentuale calcolata su base 1990).14 All’interno di un ampio accordo di cooperazione globale, un impegno massiccio di investimenti, trasferimento di tecnologie, assistenza ai paesi in via di sviluppo, assumerebbe, peraltro, una grande valenza: per la possibilità, per tale via, di imprimere uno stimolo alla ripresa economica mondiale, supplendo al vuoto di consumi nei paesi ricchi; per il drammatico bisogno in quelli poveri di infrastrutture e servizi essenziali alla sopravvivenza delle loro popolazioni; per gli effetti dirompenti che la crisi va producendo in quei paesi più che altrove, cui si aggiungono quelli, non meno devastanti, dei cambiamenti climatici, specie nell’area asiatica.15 «La cooperazione – ha scritto Jeffrey Sachs – può trasformare il bru-  si chiedeva un interessante dibattito sui controversi effetti sull’occusco e inquietante declino della spesa per consumi a livello mondiale in un’opportunità globale per investire nel benessere futuro del pianeta, deviando le risorse dai consumi dei paesi ricchi alle esigenze di investimento dei paesi in via di sviluppo e promuovendo la sostenibilità ambientale».16 Un disegno, questo, che richiederebbe un’ampia condivisione internazionale e che non può ritenersi sostenibile su base unilaterale dall’Unione europea. Al di fuori di un accordo globale, le politiche regionali hanno un valore meramente simbolico, peraltro pagato a carissimo prezzo. Cosa che non ne attenua certo la loro utilità interna, ma non quella globale sul pianeta. Copenaghen riuscirà dove le precedenti Conferenze hanno fallito? Da allora niente di sostanziale è avvenuto. La svolta di Barack Obama, rispetto al negazionismo e alla noncuranza della comunità internazionale di George W. Bush, è innegabile e importante, anche se agli annunci non ha fatto sinora seguito l’assunzione di specifiche responsabilità e impegni. La nuova Amministrazione non è andata oltre un atteggiamento di “attenzione e ascolto”.17 Che la situazione possa modificarsi in poche settimane è abbastanza improbabile, così come non vi sono segnali – nelle ultime strette negoziali – di una disponibilità delle diverse parti a rivedere le proprie posizioni al fine di addivenire ad un significativo compromesso finale. Morale: le possibilità di successo di Copenaghen appaiono di fatto scarse, anche se il tempo a disposizione (2012) lascia spazio all’avvio di un negoziato su alcuni qualificanti punti per il ridisegno del Protocollo di Kyoto – correggendone le disfunzioni, affinandone i meccanismi, migliorando l’efficienza del mercato dei carbon credits, accrescendone magari la flessibilità partecipativa – mentre progressi potrebbero conseguirsi in altri piani negoziali come per l’Agreement on Reducing Emissions from Deforestation and Degradation. Le buone intenzioni espresse dai tredici paesi più ricchi al G8 del luglio 2009, tenutosi a L’Aquila, basate sulla necessità di «contenere l’aumento della temperatura entro i 2 °C», non sono andate oltre mere dichiarazioni di principio: «Non si decide, ma si dice che si deciderà ».18 Unica generica condivisione è stata l’“aspirazione obiettivo” di dimezzare le emissioni di CO2 entro la metà del secolo: un orizzonte incomprimibile per la dimensione del taglio, ma troppo lontano per evitare tattiche dilatorie o comportamenti opportunistici. Disponibilità che, però, ha incontrato il netto rifiuto di Cina e India di sottoscrivere un qualsiasi impegno di riduzione, vanificando alla radice ogni possibile sforzo degli altri paesi. Anche se quelli ricchi azzerassero le loro emissioni e le altre nazioni le stabilizzassero, il mondo non riuscirebbe, infatti, a raggiungere l’auspicato obiettivo.19 Le “aspirazioni” dei paesi ricchi, già di per sé molto difficili da conseguire, sono rese poi ancor più ardue dalla crisi economica. Senza crescita, con una rarefazione del credito, una scarsa capacità di spesa degli Stati, ben difficilmente si potranno realizzare ingenti investimenti, da avviarsi subito, né sarà possibile per le imprese sopportare oneri addizionali nell’acquisto di crediti di emissioni. Quello che, allo stato delle cose, dobbiamo più temere non è tanto l’aumento a breve delle emissioni, ma piuttosto che esse siano falcidiate dall’implacabile scure della recessione. Non confrontabile, per natura, durata, intensità, con quelle passate e tale da modificare profondamente gli scenari prospettici su cui si continua a ragionare e angosciarsi. Emblematico il caso dell’Italia. L’obiettivo di Kyoto al 2012 che sembrava irraggiungibile, – 6,5% delle emissioni sul 1990, è ormai a portata di mano: “grazie” al crollo dei consumi energetici, paragonabile nell’elettricità solo a quelli che si ebbero durante i periodi bellici del secolo scorso. Taluni fondamentalisti potranno anche gioirne. Non chi, come chi scrive, ha a cuore le sorti dell’ambiente e, allo stesso tempo e nondimeno, quelle delle economie, delle imprese, degli occupati. Se il G8 de L’Aquila avrà significato davvero un “passo in avanti” lo si vedrà a Copenaghen. Intanto, è necessario uscire vivi dalla crisi, adoperandosi per individuare in seguito strumenti e soluzioni che sappiano essere ambientalmente virtuosi senza essere per tutti economicamente rovinosi. Un’intesa parziale che riuscisse a individuare, ad esempio, i criteri di misurazione, reporting, verifica delle emissioni nei singoli paesi, necessari in qualsiasi schema di futuro accordo globale, sarebbe già un innegabile successo. Copenaghen non fallirà solo se prevarranno aspettative realistiche e una giusta strategia negoziale. Visionarietà e ambizione sono ingredienti necessari per poter lasciare alle future generazioni una migliore qualità della vita. Ma come insegna la storia di altre istituzioni, come quella della Lega delle Nazioni, visioni e ambizioni utopistiche disancorate dalla realtà politica, economica, sociale rischiano di essere controproducenti. La via dell’accordo unico e globale (top-down), non è, d’altronde, né l’unica né forse la migliore per la lotta ai cambiamenti climatici. Una strategia (bottom-up) di riduzione delle emissioni che facesse perno su ambiziose politiche nazionali, su accordi di cooperazione internazionale riguardo a specifici e misurabili obiettivi, su correlati trasferimenti di tecnologie ai paesi emergenti, sarebbe più realistica e quindi da preferirsi. Nell’attesa che si avverino quei breakthrough tecnologici che, come innumerevoli volte nella storia, toglieranno l’umanità dai guai.


[1] Cfr. E. Di Giulio, Copenhagen: dopo la semina il raccolto?, in “Energia”, 3/2009, pp. 54-63.

[2] Cfr. J. M. Barroso, Pivotal week for climate change action as world leaders gather, lettera scritta alla vigilia dei vertici di New York delle Nazioni Unite e del G20 di Pittsburgh, in “The Age”, 21 settembre 2009.

[3] Questa affermazione è riportata nell’articolo Sul clima dalla Ue appello agli Usa, in “Il Sole 24 Ore”, 3 ottobre 2009.

[4] Cfr. B. Lomborg, Ambiente, l’allarmismo non paga, in “Il Sole 24 Ore”, 26 ottobre 2008 e Lomborg, Eco-crunch, basta allarmismi, in “Il Sole 24 Ore”, 19 aprile 2009.

[5] Cfr. D. Helm, EU climatechange policy. A critique, Smith School Working Papers Series, 20 settembre 2009.

[6] Cfr. B. J. Fikes, Energy: Green jobs, brown economy? Alternative energy not a growth engine, some experts say, in “North County Times”, 26 luglio 2009.

[7] L’obiettivo è di ridurre le emissioni di CO2 del 14% rispetto al 2005, per arrivare a una riduzione dell’83% nel 2050.

[8] Cfr. H. Franssen, The Obama Energy Plan: Will It Succeed?, in “Petroleum Intelligence Weekly”, 16 marzo 2009. Nel pacchetto di stimoli del febbraio 2009 lo stanziamento a favore di investimenti nelle energie rinnovabili e nel risparmio energetico ammontava a 62,5 miliardi di dollari cui se ne aggiungevano altri 20 di incentivi fiscali. Nell’Energy Plan sono previste spese addizionali per 150 miliardi di dollari in 10 anni.

[9] Cfr. Global clean energy investment dips but avoids Q1 lows, in “New Energy Finance”, press release, 2 ottobre 2009.

[10] Secondo la Commissione, i costi del Pacchetto clima (20-20-20) si attesterebbero intorno allo 0,5% del PIL, ossia 60 miliardi di euro all’anno, mentre il prezzo dell’immobilismo si avvicinerebbe addirittura al 20% del PIL. Per una critica a tali valutazioni si veda Lomborg, Clima, tante azioni per nulla, in “Il Sole 24 Ore”, 21 settembre 2008 e C. Clini, A. Clò, Effetto boomerang sul clima, in “Il Sole 24 Ore”, 18 ottobre 2008.

[11] Proposta contenuta nella Comunicazione COM (2009) 475/3. I trasferimenti ai paesi in via di sviluppo dovrebbero essere prelevati per il 20-40% dai singoli Stati, fino al 40% dal mercato dei crediti di carbonio, per la restante parte dalla finanza pubblica internazionale.

[12] Come avvenuto nel summit sull’ambiente tenutosi a New York, alla vigilia della 64° sessione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite.

[13] Il discorso è stato riportato nell’articolo Il tempo sta finendo, in “La Stampa”, 23 settembre 2009.

[14] Cfr. M. Grubb, Copenhagen: The Darkest Hour, in “The World Today”, 10/2009.

[15] Cfr. l’interessante articolo scritto da J. Stiglitz, Il peso dell’ambiente sulle spalle dei poveri, in “la Repubblica”, 12 dicembre 2007, in occasione della Conferenza di Bali.

[16] Cfr. J. D. Sachs, Ora investiamo su clima e Pvs, in “Il Sole 24 Ore”, 22 febbraio 2009.

[17] Cfr. Sachs, Piano per il clima cercasi, in “Le Scienze”, 491/2009.

[18] Cfr. Di Giulio, op.cit., p. 55.

[19] Cfr. M. A. Levi, Copenhagen’s Inconvenient Truth. How to Salvage the Climate Conference, in “Foreign Affairs”, 5/2009, pp. 92-104.