La "Caritas in veritate"

Di Emma Fattorini Giovedì 08 Ottobre 2009 19:50 Stampa

Nella sua terza enciclica, “Caritas in veritate”, Bene­detto XVI lancia un messaggio di forte continuità con la tradizione della dottrina sociale della Chiesa, inaugurata dalla “Rerum novarum” di Leone XIII nel 1891. Sviluppando il tema della necessaria integra­zione tra ricerca di giustizia e sviluppo integrale del-l’uomo e della donna − pur in un mutato contesto sociale globale − l’enciclica di papa Ratzinger si ri­chiama in particolare alla “Populorum progressio” di Paolo VI, interprete del messaggio del Concilio va­ticano II e fiducioso assertore della possibilità di un nuovo patto tra Chiesa e umanesimo solidale per il raggiungimento della piena giustizia sociale.

La preoccupazione principale della Chiesa italiana nei confronti della sfera pubblica dovrebbe riguardare gli effetti corrosivi prodotti dalla crescente scissione tra coscienza, convinzioni e scelte morali. Quello che nel senso comune e nella tradizione veniva chiamata coerenza e che, tradotta in termini “teologici”, potremmo definire l’unitarietà della persona, il suo sviluppo integrale.

Si possono fare tante analisi e compiere bilanci anche severi sul rapporto tra Stato e Chiesa in Italia, ma ciò che pare indubbio è il bisogno che la Chiesa ritorni, oggi, ad una presenza meno dimostrativa e più interiore, il che non significa rifluire nella fede privatistica ma fondare esclusivamente sulla “roccia” della fede la propria presenza nel mondo.

Una preoccupazione sempre presente nelle riflessioni di papa Ratzinger, dalle quali si estrapola, invece, isolandola, la condanna del relativismo, senza cogliere lo spirito unitario del suo messaggio. Un’unitarietà presente nelle sue prime due encicliche, la “Deus caritas est” del 25 dicembre 2005 e la “Spe salvi” del 30 novembre 2007 e, in modo ancora più evidente, nella sua ultima enciclica sulla questione sociale, la “Caritas in veritate”, che dichiara la giustizia sociale insufficiente senza la libertà personale e la coerenza morale, e viceversa: le scelte in sede di morale sessuale vanno sostenute e in un contesto di promozione sociale ed economica.

Per tale senso di unitarietà la “Caritas in veritate” è intimamente vicina e assai consonante con la “Populorum progressio” di Paolo VI. E questo per almeno due ragioni di fondo: in primo luogo, per la percezione mondiale, oggi diremmo globale, del tema della giustizia sociale e, in secondo luogo, per il senso integrale, unitario con il quale si deve intendere lo sviluppo di ciascun uomo e ciascuna donna.

Ancora più della crisi del 1929, quella attuale è la recessione più globale che si sia mai vista; globale in un senso che non riguarda solo l’economia ma anche le risorse ambientali e per fino quelle morali, in un pianeta dove gli scompensi e le differenze di vita sono diventate abissali: è ancora più attuale dunque l’istanza di Paolo VI che aveva ben colto l’interconnessione (e le responsabilità) dei paesi ricchi verso quelli poveri. Si esprime qui un senso profondo della stessa idea di universalità, il carisma fondativo della Chiesa cattolica che trova lì, nella sua vocazione mondiale, la ragione e le radici ultime della sua identità. Ben prima e oltre l’orizzonte europeo e occidentale.

La seconda radice comune è il nesso stretto tra “etica della vita” ed “etica dell’economia”. Questo è un discorso molto più difficile da capire per la cultura laica di sinistra che, se accoglie con compiacimento l’istanza dei pontefici quando affermano che non basta richiamarsi all’amore e chiedere coerenza nella vita personale a proposito delle scelte procreative se non si garantiscono le condizioni di vita dignitose per tutti, difficilmente accetta, invece, anche il reciproco. E cioè che se non c’è amore senza giustizia è altrettanto vero che non ci può essere un progresso sociale senza “verità”. Le condizioni materiali contano molto e la Chiesa si espone in prima persona perché migliorino il più possibile, ma senza ridursi a pura istanza di solidarietà sociale: “non si vive di solo pane”. In che senso allora verità? Verità vuol dire che se non c’è amore e senso del servizio il mercato ha basi molto fragili e precarie, vuol dire che la libertà intima e personale di ciascuno vale quanto il suo benessere materiale, vuole dire che la sua coerenza morale nelle scelte affettive verso la famiglia e i figli non sono staccate, non possono prescindere dalle pur giuste condizioni economiche nelle quali deve poter vivere.

Questo approccio unitario di Ratzinger era lo stesso di Paolo VI quando proclamava il diritto di tutti i popoli a un giusto sostentamento, ma chiedendo che si aumentassero i posti alla tavola di tutti e non che si eliminassero alcuni dei commensali. Montini quindi legava strettamente il tema della giustizia sociale alla condanna delle politiche di denatalità. Infatti, l’anno dopo l’uscita della “Populorum progressio”, nel 1968 Paolo VI promulgava l’“Humanae vitae”, nello sconcerto generale.

Allo stesso modo papa Ratzinger ripropone una visione unitaria, integrata e integrale dell’umano: le giuste condizioni materiali supportano la pace, l’amore tra i popoli e quello tra l’uomo e la donna.

Le differenze con l’epoca di Paolo VI restano comunque enormi. Non solo per le profonde trasformazioni strutturali ed economiche – globalizzazione in primis – ma anche per il contesto culturale e politico nel quale agiva papa Montini. Un papa che incarnava nella sua stessa dolente problematicità una maggiore fiducia nella possibilità che un umanesimo laico, solidale fosse amico e alleato della Chiesa per un comune progetto di giustizia sociale.

Questa è forse la più grande differenza tra quegli anni ricchi di speranza, che cercavano di tradurre la benevolenza del Concilio vaticano II in un comune progetto che coinvolgesse “tutti gli uomini di buona volontà”, oltre le differenti appartenenze religiose e culturali.

Ora il clima è di reciproca diffidenza quando non di aperta ostilità, tra laici e cattolici, come tra esponenti delle diverse religioni: meno fiducia negli interventi umanitari degli organismi internazionali come l’ONU e minore ottimismo circa la possibilità che una nuova politica mondiale possa riscattare il destino materiale e morale delle concrete esistenze umane.

Il mercato al servizio dell’uomo

Dalla seconda metà dell’Ottocento la questione sociale comincia a coinvolgere sempre più profondamente la Chiesa che, dopo la fine delle vecchie alleanze con la nobiltà, aveva stretto ancora di più i suoi rapporti con i ceti popolari, in primo luogo contadini. E così la nascita e la crescente minacciosa diffusione del movimento operaio e contadino fu avvertita dalla Chiesa come un pericolo che andava ben oltre la pura concorrenza occasionale con il movimento socialista. In risposta a questa nuova, preoccupante situazione, nel 1891 Leone XIII promulgò la “Rerum novarum”, all’origine di tutte le successive encicliche sulla questione sociale che, infatti, le succederanno quasi sempre in occasione dei suoi anniversari. La stesura dell’enciclica, faticosa e molto rielaborata, muoveva da due preoccupazioni: da una parte la situazione “dell’infinita moltitudine dei proletari” ridotti in condizioni disumane, quasi servili, indifesi di fronte alla “cupidigia dei padroni”, un gruppo ristretto che accumula una enorme ricchezza e, dall’altra, il diffondersi della mobilitazione socialista che voleva l’abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione mediante la lotta di classe.

La “Rerum novarum” si presentò subito come un fatto importantissimo; all’esterno per il suo significato simbolico e, all’interno del mondo cattolico, per il suo contenuto dottrinale e pastorale. Non che i contenuti fossero più avanzati e articolati di quelli in uso all’epoca da molti cattolici già impegnati nel mondo del lavoro, ma con la “Rerum novarum” si stabiliva con chiarezza che la Chiesa, nel ribadire la difesa intransigente della proprietà privata, diventava nel contempo portavoce del bisogno di giustizia sociale che le nuove condizioni del lavoro rendevano pressante. Si chiedeva alle élite economiche, con l’autorevolezza di chi era stato loro stretto alleato fino a quel momento, di essere “giuste” con la forza lavoro e di “dare la giusta mercede all’operaio”, come dicono le Scritture. La Chiesa, insomma, si faceva interprete, per la prima volta sulla scena pubblica e politica, della condizione di sfruttamento delle classi lavoratrici. E, allo stesso tempo, chiedeva loro moderazione, rifiuto della lotta di classe, perché venisse mantenuto l’ordine sociale e il principio di autorità.

Così il significato della “Rerum novarum”, davvero epocale, fu la legittimazione, per i cattolici occidentali, a partecipare a pieno titolo a quella modernità, tanto osteggiata, e di farlo non più solo come passivi e spaventati spettatori. Papa Leone XIII si candidava a interpretarne da protagonista le nuove spinte e le sue laceranti contraddizioni: in nome del bene comune occorre “una vita economica cristianizzata” contro la “cupidigia dei capitalisti” e “l’odio di classe” che questa concentrazione della ricchezza in poche mani provoca tra i lavoratori. «Ecco il programma del Papa: un programma socialista», aveva commentato incautamente Jean Jaurès, per quell’attenzione alle sofferenze dei nuovi poveri, quel proletariato che confermava il mito “del Gesù, primo socialista”.

Eppure non si trattava di un semplice adeguamento, competitivo o concorrenziale con l’emergere del movimento operaio, come aveva creduto Benedetto Croce quando, nel commentare la enciclica “Quadragesimo anno” di Pio XI disse, nel dicembre del 1931: «famigerata enciclica… la quale adulatoriamente fu chiamata la ‘carta cristiana’ dei lavoratori»; Leone XIII avrebbe infatti operato con i socialisti la stessa tattica clericale adottata con i liberali «appropriandosi di molta parte delle domande e anche dei mezzi di questo per volgerne gli effetti a maggior potenza o almeno conservazione della potenza della Chiesa».

Le cose non stavano così: come spiega bene Pio XI in quella enciclica, non si trattava di difendere gli interessi della Chiesa o dei cattolici ma di quel bene comune che, in totale continuità con la terza via leonina, resterà anche la via maestra di un liberalismo temperato, al quale torneranno le nazioni europee dopo la fine dei totalitarismi. Concentrata sul tema del corporativismo, la “Quadragesimo anno” – che vide la luce due anni dopo il crollo di Wall Street – approfondiva i contenuti e gli strumenti di quelle innovazioni che quarant’anni prima erano state enunciate più sotto forma di principi e che invece, nel 1931, papa Ratti faceva agire nel cuore stesso della grande crisi.

La “Quadragesimo anno” di Pio XI, che uscì quarant’anni dopo la “Rerum novarum”, infatti, non ne riprendeva astrattamente i principi ma li traduceva nelle nuove condizioni storiche, individuando nei “corpi intermedi” il modo più efficace per ottenere una giustizia sociale che non poteva essere lasciata solo né al mercato né allo Stato. Preziosa allora diveniva la “sussidiarietà”, quell’intervento dei corpi intermedi da valorizzare rispetto alle scelte economiche centralizzate. Secondo quella che era già, in Italia, l’intuizione di Luigi Sturzo. Il mercato, senza il contrappeso dei corpi intermedi, non è più in grado di autoregolamentarsi. Questi si presentano dunque – in una dimensione sempre più globale e planetaria – come indispensabili centri di annodamento sociale, capaci di esprimere, da una parte, le esigenze concrete delle persone e delle famiglie e, dall’altra, in grado di temperare l’eccessiva invadenza del potere statale. Un’intuizione di cui è ben percepibile tutta l’attualità, in un’economia di mercato scomposta e globale insieme e in tessuti sociali e familiari parcellizzati e frammentati.

Un’attualità che ha radici molto antiche nel tempo. Per capire davvero il nocciolo della dottrina sociale della Chiesa, impropriamente associato ad una sorta di solidarismo vagamente socialista, occorre infatti andare molto più lontano nel tempo facendo riferimento a quella teologia barocca tardoscolastica dei gesuiti spagnoli di fine Cinquecento, dai nomi famosi e controversi che vanno da Luis de Molina e Francisco Suarez a Juan de Lugo. Anticipatori del moderno pensiero contrattualista di ispirazione tomista che, in contrasto con l’assolutismo pessimista agostiniano, influenzeranno, tramite il non certo clericale Ugo Grozio, il pensiero economico anglo sassone, specialmente la “Scuola scozzese” di Adam Ferguson e Adam Smith.

Fondatori, come sostiene Paolo Prodi, di «un diritto naturale-divino come base autonoma per un sistema di norme per lo stesso diritto positivo statale», dalla possibile ricaduta tutta laica nell’applicazione della libertà all’economia. Fondata sui principi tomisti, la proprietà privata veniva giustificata sia in ragione della legge eterna che della legge naturale. Il presupposto tomista della naturale bontà della natura umana, vulnerata dal peccato originale ma non assoggettata ad esso, riflette anche lo spirito controriformista, in polemica con il pessimismo agostiniano che ispirava la Riforma. È una idea pacificata con l’umano, nella quale il lavoro non è segno della originaria caduta, maledizione legata all’inestinguibile peccato originale, ma può essere occasione di creatività e di libertà individuale molto forti, generose e gratificanti che però restano molto lontane da quella “liberazione” del lavoro proposta da Karl Marx; perché nel caso della tardoscolastica il lavoro e il suo possibile riscatto non si ascrive nel rapporto tra valore e lavoro proprio delle tesi marxiste.

Nel caso della dottrina sociale della Chiesa, il valore del lavoro nasce e si misura nella sua utilità all’altro, trova la sua ragion d’essere e il suo fine nel servizio al prossimo; che cosa serve, quale prodotto, quale lavoro, quale merce occorra all’uomo e non sia solo ragione di profitto: questa è, o almeno dovrebbe essere, l’origine della bontà del mercato, secondo la Chiesa. Quando il pensiero cattolico parla del mercato in senso positivo come “libertà applicata all’economia” intende questo, che cioè il suo fine originario e ultimo devono restare l’uomo e i suoi bisogni. Questa aspirazione all’utilità e dunque di servizio non deve però presentarsi come un mero correttivo subordinato e secondario; deve piuttosto iscriversi nel suo DNA, esserne il senso. Tutta la storia della dottrina sociale della Chiesa, una storia come abbiamo visto assai lunga, che non nasce solo con la modernità dell’Otto- Novecento, tiene ferma questa bussola: libertà, mercato, servizio. Un mercato temperato dall’idea di servizio e di solidarietà è il messaggio di forte continuità contenuto nell’enciclica “Caritas in veritate”, una continuità nella quale inserisce le grandi novità della globalizzazione e della difesa dell’ambiente, senza scindere mai il bisogno di giustizia sociale dallo sviluppo integrale dell’uomo e della donna.