Politiche di conciliazione in Europa: uno strumento importante ma insufficiente

Di Chiara Saraceno Giovedì 08 Ottobre 2009 19:25 Stampa

In Europa permangono forti differenze tra paesi nelle po­litiche di conciliazione. Ma anche le più generose tra que­ste misure non sono sufficienti a contrastare le disugua­glianze tra uomini e donne nelle diverse sfere di attività e potere. Per superare queste disuguaglianze occorrono si­stematiche iniziative di contrasto alla posizione monopolistica maschile.

La possibilità di conciliare partecipazione al mercato del lavoro (ma anche alla politica, alla partecipazione sociale, alla formazione continua) e impegni famigliari è una premessa indispensabile per ogni politica non solo di pari opportunità, ma di libertà. Tuttavia, ridurre, come spesso avviene, le politiche di pari opportunità a politiche di conciliazione è concettualmente e politicamente rischioso.1 In primo luogo, si nasconde la divisione del lavoro tra uomini e donne in famiglia, attribuendo alle donne l’esclusività delle responsabilità di lavoro famigliare (che allo stesso tempo viene svalorizzato). In secondo luogo, si mette a fuoco solo la questione della partecipazione al mercato del lavoro, e non quella della valorizzazione e del riconoscimento (retribuzioni, carriere ecc.). In terzo luogo, si evita di prendere in considerazione i meccanismi di esclusione e monopolio messi in atto dai “guardiani dei cancelli”, ovvero dagli uomini in posizione di potere. I dati sulla situazione delle donne e degli uomini nell’Unione europea che emergono dal più recente “ritratto statistico” dell’Eurostat2 segnalano come questi meccanismi siano all’opera in mol ti settori e non possano essere risolti solo o principalmente dalle pur necessarie politiche di conciliazione.

 

Politiche di conciliazione famiglia-lavoro remunerato in Europa

La Figura 1 mostra l’incidenza della presenza dei bisogni di cura di un bambino piccolo sull’occupazione maschile e su quella femminile nei vari paesi europei: è sempre positiva per i padri, quasi sempre negativa per le madri, sia pure con intensità diversa tra i vari paesi.

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Queste differenze non corrispondono tuttavia sempre a differenze nei tassi di occupazione femminile. In alcuni paesi pur ad alta partecipazione femminile, come la Repubblica Ceca, la maternità ha un impatto negativo forte, laddove in altri, pur a bassa partecipazione femminile, come l’Italia, lo ha comparativamente di meno. Ciò probabilmente è dovuto al fatto che le madri lavoratrici in Italia sono un gruppo socialmente più selezionato.4 Se si introducesse la distinzione tempo pieno/tempo parziale emergerebbero altri tipi di differenze. L’occupazione a tempo parziale è, in effetti, insieme ai congedi di cura e ai servizi per la cura, uno dei principali strumenti di conciliazione offerti alle/utilizzati dalle donne, specie nei periodi in cui è più intensa la domanda di cura famigliare e nei paesi, in primis l’Olanda ma anche la Germania e l’Inghilterra, in cui tali forme di occupazione sono più diffuse.5 Non è tuttavia l’unica soluzione organizzativa possibile. In molti paesi si sta già sperimentando con le banche del tempo e più in generale con forme di flessibilità verticale, nel corso della settimana, del mese, dell’anno. Va, inoltre, segnalato che quella del tempo parziale è una soluzione il cui costo economico è tutto a carico delle lavoratrici: in termini di mancato reddito, di frequente marginalizzazione rispetto alle prospettive di carriera, di minore ricchezza e anzianità pensionistica. Tali costi sono ancora più elevati se si pensa che la solidarietà di coppia non può essere data per scontata, stante l’instabilità coniugale. Anche per questo in alcuni paesi, più che una diversa età pensionistica tra uomini e donne (eliminata ovunque salvo che in Italia), vengono riconosciuti contributi pensionistici figurativi specifici – da uno a tre anni, a seconda del paese – per il lavoro di cura legato alla presenza di un figlio. È il caso di Germania, Svezia, Inghilterra, Francia.

Dopo l’emanazione della direttiva europea sui congedi di maternità e genitoriali, le differenze tra paesi sono relativamente contenute sia per quanto riguarda la durata che il livello di compensazione del congedo di maternità. Esse rimangono invece molto ampie per quanto concerne la durata e il livello di compensazione del congedo genitoriale. Va peraltro segnalato che se congedi troppo brevi, anche quando accompagnati da una buona offerta di servizi, possono interferire con la valutazione dei bisogni dei bambini e l’appropriatezza delle modalità di cura, congedi molto lunghi, superiori all’anno, anche se ben compensati, possono avere un effetto di marginalizzazione dal mercato del lavoro,6 specie se vengono utilizzati da un solo genitore. Anche se in tutti i paesi europei i congedi genitoriali sono teoricamente aperti anche ai padri, solo in alcuni, tra cui l’Italia, vi è una quota implicitamente o esplicitamente riservata ai padri. Ma tale quota costituisce un effettivo incentivo ad una maggiore condivisione del congedo e delle responsabilità di cura solo nei paesi (come la Svezia, la Norvegia e dal 2007 la Germania) in cui il congedo è retribuito adeguatamente. Non è il caso dell’Italia. Infine, molti contratti di lavoro – a tempo determinato o parasubordinato – non danno accesso ai congedi genitoriali e talvolta neppure di maternità, vuoi perché questi non sono previsti, vuoi perché le persone non hanno maturato l’anzianità lavorativa necessaria per accedervi. Anche quando sono previsti, fruirne può essere rischioso. In paesi come l’Italia, in cui vi è una forte concentrazione dei contratti di lavoro atipico proprio tra i giovani in età feconda, e dove questi contratti hanno un legame debole con gli istituti classici della previdenza sociale, inclusi i congedi di maternità e genitoriali, questo rischio può essere particolarmente diffuso.

L’altra grande differenza tra paesi riguarda l’offerta pubblica (o sostenuta con fondi pubblici) di servizi per la primissima infanzia. Vi sono anche differenze, ma di portata minore, nei servizi per i bambini tra i tre e i sei anni. Vi sono, infine, differenze, anche nell’orario giornaliero della scuola elementare, che pure costituisce un elemento cruciale sia nell’organizzazione famigliare che nelle risorse educative e di custodia offerte ai bambini.

L’insieme di queste differenze disegna un pacchetto di sostegni alla conciliazione in presenza di bambini in età prescolare molto differenziato, come mostra la Figura 2, che sintetizza il livello di copertura dei bisogni di cura dei bambini piccoli tramite i congedi (pesati per durata e livello di compensazione) e tramite i servizi prima dei sei anni, e il tempo residuo lasciato alle famiglie (di fatto, alle madri). I paesi con i livelli di copertura complessivamente più elevati sono anche quelli con tassi di occupazione femminile più alti, pur non essendo del tutto vero il contrario. In molti paesi con livelli di copertura più ridotti, l’occupazione femminile è sostenuta in larga misura dalla disponibilità delle nonne. È il caso non solo dell’Italia e della Spagna, ma del Portogallo, che, unico tra i paesi mediterranei, ha un tasso di occupazione femminile relativamente elevato.

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In ogni caso, la riflessione e le politiche di conciliazione sembrano fermarsi alle soglie della scuola elementare e riguardare una sola fase della vita. Solo i lavoratori, e più specificamente le lavoratrici, con figli in età prescolare sono percepite come aventi problemi di conciliazione. Nei paesi, inclusa l’Italia, in cui il modello di tempo-scuola è quello del tempo corto o al massimo allungato (fino alle prime ore pomeridiane), ciò implica vuoi la presunzione che un genitore (la madre) lavori part-time, vuoi che i bambini dai sei anni in su siano lasciati alle proprie risorse, vuoi che si debba ricorrere al mercato.

Ancora meno concettualizzati come problemi di conciliazione sono i bisogni di cura che provengono dagli anziani fragili. Tuttavia la percentuale di lavoratori/lavoratrici in età matura che ha una qualche responsabilità nei confronti di persone anziane non autosufficienti non è irrilevante ed è in aumento. Nei paesi in cui vi è una consolidata infrastruttura di servizi e i bisogni di cura degli anziani sono considerati come fonte di diritti individuali il problema della conciliazione è affrontato in forma indiretta, tramite appunto forme di responsabilità collettiva. La Figura 3 fornisce una prima, grossolana, stima dei differenti livelli di copertura offerti dai diversi paesi europei, quindi implicitamente anche del grado di bisogno lasciato totalmente a carico delle famiglie e, tramite esse, al mercato – incluso il mercato più o meno irregolare del lavoro di cura immigrato.

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In collaborazione o in assenza di servizi, anche nel caso degli anziani una parte piccola o grande del lavoro di cura rimane a carico dei loro famigliari: coniugi innanzitutto, ma anche figli e soprattutto figlie. Contrariamente a quanto accade per i bambini, tuttavia, chi, lavoratrice, si occupa di un anziano non autosufficiente raramente è oggetto di politiche di conciliazione. Solo in alcuni paesi sono previsti alcuni giorni al mese pagati, come nel caso dell’Italia, o un congedo lungo non pagato, come in Austria, Belgio, Germania (da giugno 2008) e Italia. Ancor meno il lavoro di cura verso un anziano è riconosciuto a fini di contributi pensionistici, salvo alcune eccezioni (Germania, Finlandia), che di norma tuttavia prevedono che la cura sia prestata in alternativa totale o parziale alla partecipazione al mercato del lavoro.

Conclusioni: conciliare non basta

Conciliare è più facile se ci sono sostegni pubblici adeguati, se tutti entro la famiglia fanno la loro parte e se l’organizzazione e gli orari di lavoro sono amichevoli. Tutte cose che in Europa si danno in misura molto diversa e in Italia molto poco. Tuttavia conciliare non basta a realizzare la parità di opportunità, nel mercato del lavoro come in altri campi.

In effetti, come segnala anche l’ultimo rapporto Eurostat8 sulla vita delle donne e degli uomini in Europa, il confronto interno all’Unione europea mostra un quadro molto differenziato se si considerano i livelli di partecipazione al mercato del lavoro femminile e anche, in minor misura, se si considera la presenza di donne nelle assemblee elettive. Queste due dimensioni in larga misura corrispondono anche a diversità nelle azioni intraprese a favore delle pari opportunità, a livello di politiche di conciliazione, di azioni positive nel mercato del lavoro e all’interno dei partiti politici. Ma se si considerano le disuguaglianze retributive tra uomini e donne, la segregazione occupazionale, la presenza di donne nei consigli di amministrazione, nelle posizioni di governo, nelle alte cariche dello Stato, nella dirigenza pubblica, nelle posizioni più alte della magistratura o delle istituzioni scientifiche, il quadro, pur differenziato, appare livellato su persistenti forti disuguaglianze, con rare eccezioni.

Solo in Austria, Norvegia, Spagna, Svezia e Finlandia nel 2006 metà o quasi dei ministri erano donne. A grande distanza seguiva l’Inghilterra con un terzo e la Germania con poco meno. E solo in Svezia, seguita a distanza da Slovenia, Bulgaria, Spagna, Lettonia e Romania, erano donne almeno il 30% degli alti dirigenti pubblici (nessuno in Italia). Marginali nella maggior parte delle alte corti nazionali, sono donne solo il 12% dei giudici della Corte europea. Le cose vanno ancora peggio nelle banche centrali e nelle grandi istituzioni finanziarie nazionali e internazionali. In compenso le donne sono più concentrate degli uomini nei contratti di lavoro atipici.

Anche quando fanno carriera, le donne sono meno pagate degli uomini. Salvo che in Slovenia, Malta, Cipro e Romania, ad esempio, le donne manager guadagnano meno dell’85% dei loro pari grado (in Italia il 65%). E le differenze sono tanto più elevate quanto più si alza il livello di istruzione. A livello di media UE, gli uomini con un’istruzione universitaria guadagnano in media il 63% in più di quelli con la licenza di scuola media superiore. Per le donne la differenza è solo del 12%. Per l’Italia le percentuali sono rispettivamente del 58% e del 3% circa. In altri termini, per le donne l’istruzione è più importante che per gli uomini per rimanere nel mercato del lavoro. Ma fa molto meno differenza per quanto attiene sia agli sviluppi di carriera (più corta per le donne) sia ai differenziali retributivi.

Soprattutto, queste disuguaglianze non sembrano ridursi neppure nelle coorti più giovani, nonostante le donne siano ormai altrettanto e spesso più istruite degli uomini e tendano a partecipare sia al mercato del lavoro sia alla vita civile e politica nella stessa misura. Ciò non significa che “tutto il mondo è paese”. Proprio le differenze sia di partecipazione al mercato del lavoro sia di presenza nei diversi organismi decisionali segnalano come, al contrario, occorra un’azione intenzionale, coerente e continua a più livelli. In particolare, accanto a politiche di conciliazione è necessario mettere mano a politiche di contrasto al monopolio maschile nei settori e nelle posizioni che contano. Tanto più in un paese come l’Italia, che non solo è carente sulle politiche di conciliazione, ma a livello culturale e politico non considera il persistente monopolio maschile di tutte le posizioni di potere un problema di equità e di democrazia.


[1] Cfr. M. Stratigaki, The Cooptation of Gender Concepts in EU Policies: the Case of ‘Reconciliation of Work and Family’, in “Social politics”, 1/2004, pp. 30-56.

[2] Eurostat/European Commission, The Life of Women and Men in the EU. A Statistical Portrait, European Communities, 2008.

[3] European Commission, Report from the Commission to the European Parliament, the Council, the European Economic and Social Committee and the Committee of the Regions. Implementation of the Barcelona objectives concerning childcare facilities for pre-schoolage children, 2008, disponibile su ec.europa.eu/social/main.jsp?langId= en&catId=89&newsId=404&further News=yes.

[4] M. Lucchini, C. Saraceno, A. Schizzerotto, Dual-earner and Dualcareer Couples in Contemporary Italy, in “Zeitschrift für Familienforschung”, 3/2007, pp. 289-309; A. Rosina, C. Saraceno, Interferenze asimmetriche. Uno studio sulla discontinuità lavorativa femminile, in “Economia & Lavoro”, 2/2008, pp. 149-67.

[5] Non tutte le occupazioni a tempo parziale, peraltro, sono scelte. Come segnala anche il citato rapporto Eurostat 2008, in tutti i paesi una quota più o meno ampia di lavoratori e lavoratrici a tempo parziale non lo è per scelta, soprattutto nelle occupazioni a più bassa qualifica.

[6] UNICEF, The Child Care Transition, Innocenti Report Card 8, Firenze 2008.

[7] Elaborazione dei dati contenuti in: C. Saraceno, W. Keck, The Institutional Framework of Intergenerational Family Obligations in Europe. A Conceptual and Methodological Overview, Multilinks, First Report (WP 1), 2008, disponibile su www.multilinks-project.eu/uploads/papers/0000/0010/Report_Saraceno_Keck_Nov08.pdf; Multilinks, First European Policy Brief, 2009, disponibile su www.multilinks-project.eu.

[8] Eurostat, op. cit.