Partiti e sistema politico spagnolo: dalla transizione al voto del 9 marzo

Di Alfonso Botti Giovedì 28 Febbraio 2008 23:24 Stampa

Dalla morte di Franco alle ultime elezioni politiche, la Spagna è riuscita a stupire per la capacità con cui ha attuato la transizione alla democrazia, ed è stata in grado di sviluppare uno stabile sistema politico e un altrettanto stabile sistema partitico. È quindi soprattutto sul terreno delle relazioni con i nazionalismi periferici che la Spagna ha incontrato, e incontra tuttora, ragioni di instabilità ed è su questo tema che avverrà lo scontro elettorale fra il Partido Socialista di Zapatero e il Partido Popular di Rajoy.

Alla morte di Franco, il 20 novembre 1975, la Spagna riemerse da quasi quattro decenni di dittatura con circa 35 milioni di abitanti, un numero nettamente inferiore di spagnoli, un re e nessun cittadino. Cittadini, gli abitanti del paese iberico lo divennero con il ritorno della democrazia, quando con i doveri riacquistarono anche i diritti. Il re, poi, ebbe bisogno di respingere un tentativo di colpo di Stato, il 23 febbraio 1981, per trovare quella legittimazione democratica che neppure pilotando felicemente la transizione era riuscito ad ottenere. Più complesso e tortuoso è stato, per molti, il cammino di identificazione con la nazione spagnola, della quale si erano appropriati i franchisti escludendo tutti gli altri. Al punto che, nel frattempo, chi aveva potuto si era scelto un’altra patria, basca, catalana o galiziana che fosse.1

Sugli orientamenti politici di questi abitanti, divenuti elettori ma non ancora cittadini, nessuna delle previsioni avanzate all’epoca ottenne il conforto dei risultati. Del resto, occorre riconoscere, non era facile. Considerato il ruolo preponderante svolto nell’opposizione antifranchista, alcuni diagnosticarono una forte affermazione elettorale dei comunisti. Pensando che la libertà di cui aveva goduto la Chiesa non sarebbe stata priva di conseguenze e osservando il dinamismo dei gruppi cattolici negli ultimi anni della dittatura, altri pensarono che il dopo Franco sarebbe stato democratico-cristiano. La destra centralista e nazionalista per vocazione e missione, paventando il protagonismo crescente dei nazionalismi basco e catalano, preconizzò la rottura della Spagna. L’antifranchismo di sinistra, sopravvalutando le proprie forze, pensò di essere in grado di orientare il complesso trapasso e per questo motivo diede indicazione di voto per l’astensione al referendum sulla legge di riforma politica del 15 dicembre 1976, che mise in moto il processo politico che condusse alla democrazia. Andando a rileggere la stampa internazionale di quegli anni (e lo si è fatto in un recente convegno ad Almería, dal 26 al 30 novembre scorso), si scopre con quanta frequenza lo spauracchio della guerra civile fosse tirato in ballo di fronte a ogni tensione o conflitto in corso nel paese iberico.

Le cose, invece, andarono assai diversamente e la Spagna, che fino a quel momento aveva sorpreso negativamente l’opinione pubblica europea per le sue presunte anomalie e lentezze, cominciò a sorprenderla per motivi opposti.

Alle prime elezioni del 15 giugno 1977 i comunisti non raggiunsero il 10% dei consensi e l’ipotesi democratico- cristiana si squagliò come neve al sole. Il paese non si spaccò e non si è spaccato nei tre decenni successivi, nonostante tale pericolo sia stato paventato a più riprese. La transizione si svolse seguendo il percorso disegnato dal sovrano e da alcuni uomini che, pur provenendo dal franchismo, avevano maturato posizioni saldamente democratiche.

L’opposizione antifranchista, dando prova di grande intelligenza politica, accettò di seguire una strada diversa da quella che avrebbe voluto imboccare e svolse un ruolo decisivo nell’impedire approdi moderati al processo di democratizzazione. Vi furono aspre lacerazioni ed elevata conflittualità, ma in un quadro segnato dal prevalere della volontà generale di guardare avanti (se si esclude la funesta scelta dell’ETA di proseguire la lotta armata anche in democrazia). Non solo gli spagnoli non precipitarono in un nuovo conflitto fratricida, ma evitarono persino di riferirsi, in quel frangente, a quello che c’era stato quarant’anni prima. Si sarebbe poi parlato di “patto dell’oblio” e da oltre un decennio se ne indagano ragioni e conseguenze. Una scelta obbligata e utile allora, quanto lo è stata quella successiva di rompere quel silenzio e quell’oblio. Le sorprese non finirono lì. A stupire fu, dapprima, la portentosa trasformazione di uno Stato centralista e autoritario in uno democratico e fortemente decentrato, poi, l’effervescenza del suo clima culturale, che si manifestò con la sostituzione di golpe con movida come parola più usata in lingua spagnola. Con stupore vennero accolte via via le grandi apparizioni sulla scena internazionale (Expo di Siviglia e Olimpiadi di Barcellona del 1992), i successi sul piano artistico (Almodóvar) e sportivo (dal calcio al tennis, passando per il motociclismo e l’automobilismo), per tacere degli interventi urbanistici e delle grandi opere architettoniche. Almeno per gli osservatori italiani, il culmine si raggiunse quando il nostro presidente del Consiglio si sentì rispondere dal pari grado spagnolo, nel settembre del 1996, che il paese iberico non aveva bisogno dei tempi supplementari per rientrare nei parametri di Maastricht. Per non parlare della recente discussione sul sorpas- so in materia di PIL. È opportuno però andare con ordine.

Prime elezioni democratiche e sistema dei partiti

Le elezioni del 15 giugno 1977 decretarono il successo dell’Unión de Centro Democrático (UCD) – costruita da Adolfo Suárez mettendo assieme forze e gruppi eterogenei, che spaziavano dai liberali ai socialdemocratici, senza trascurare gruppi di orientamento cattolico democratico – che ottenne il 34,5% dei suffragi e 165 seggi. Con il 29,2% dei voti espressi e 118 seggi, alle sue spalle si collocò il Partido Socialista Obrero Español (PSOE) di Felipe González e Alfonso Guerra. Se si considera il risultato di un’altra formazione socialista, il Partido Socialista Popular (PSP) di Enrique Tierno Galván, che ottenne il 4,4% dei voti con sei seggi, la distanza tra i due principali partiti si riduce sensibilmente. Del Partito comunista si è detto. A destra, Alianza Popular (AP), fondata da chi era stato ministro di Franco e aveva svolto il lodevole compito di traghettare verso la democrazia settori franchisti, ottenne l’8% dei suffragi e sedici deputati.

Dalle elezioni uscì un sistema dei partiti che, ancora in nuce, si sarebbe esplicitato negli anni successivi e che è rimasto invariato, dopo la ristrutturazione del centrodestra degli anni Ottanta, fino ad oggi. Le sue principali caratteristiche sono discusse qui di seguito.

Il sistema è caratterizzato dall’esistenza di due partiti alternativi: di sinistra moderata il primo e oscillante dalla destra al centro il secondo. Il primo, il PSOE, con la salda leadership di Felipe González, governò ininterrottamente dal 1982 al 1996, attraversando diverse temperie internazionali e conoscendo differenti politiche economiche, per tornare poi al governo nel 2004 con José Luis Rodríguez Zapatero, dopo le lacerazioni di una profonda crisi e il rinnovamento della propria classe dirigente. Il secondo partito emerse – dopo lo sgretolamento dell’UCD avvenuto nei primi anni Ottanta e il suo crollo al 6,4% nelle elezioni del 1982 – dal processo di riorganizzazione di Alianza Popular, che trovò definitivo approdo nel gennaio del 1989 con la sua trasformazione in Partido Popular (PP). Il trentaseienne José María Aznar ne divenne il leader nel settembre di quello stesso anno e andò al governo per due successive legislature, dal 1996 al 2004.

A sinistra del PSOE si colloca il Partito comunista, che strinse una solida alleanza con i verdi dando vita alla coalizione di Izquierda Unida (IU). L’IU non andò però oltre il 9,45% e diciannove seggi nel 1996, anno della “dolce” débacle socialista e dell’“ amara” vittoria popolare, per riprendere gli aggettivi che la stampa usò all’indomani delle elezioni per sottolineare vittoria e sconfitta di misura, a dispetto delle previsioni e di qualche aspettativa. A destra del PP, dopo lo scioglimento di AP, settori nostalgici privi di diretta rappresentanza politica, sospinsero il Partido Popular a farsene carico, non senza qualche difficoltà e contraddizione. Com’è dato vedere, un sistema di partiti stabile, all’interno di un sistema politico che, disegnato dalla Costituzione del 1978 ed entrato a regime con la formazione delle ultime assemblee elettive delle Comunità autonome nel 1983, ha dimostrato di esserlo altrettanto.

Sistema politico

Senza entrare in una disamina approfondita, per la quale si rinvia alla letteratura esistente,2 sono almeno due gli aspetti del sistema politico spagnolo da sottolineare. Il primo riguarda la governabilità che esso ha garantito. La Costituzione spagnola prevede all’articolo 113 la mozione di censura sull’operato del governo. Essa deve essere proposta da almeno un decimo dei deputati, contenere il nome del candidato alla presidenza del governo e ottenere la maggioranza assoluta. Nel caso non sia accolta, essa non può essere ripresentata nel corso della stessa sessione parlamentare. Dal 1979 (anno di entrata in vigore della Costituzione) si è fatto ricorso a tale possibilità solo due volte, entrambe senza esito parlamentare, ma dal diversissimo risultato politico. La prima mozione di censura, presentata da González contro il presidente Adolfo Suárez González nel maggio del 1980, servì, di fatto, a far conoscere lo spessore del candidato alternativo e dare credibilità alla proposta socialista. La seconda, nel 1987, fu invece avanzata dall’allora leader di AP, Antonio Hernández Mancha, contro il presidente González: un gesto velleitario, che ebbe un effetto boomerang, concorrendo all’uscita di scena di Hernández Mancha. A partire dalle prime elezioni della monarchia costituzionale nel 1979, si sono avute sette elezioni politiche generali (1982, 1986, 1989, 1993, 1996, 2000, 2004), delle quali solo due in lieve anticipo sulla scadenza naturale, mentre nessun governo è andato in minoranza o è stato costretto alle dimissioni anzitempo.

Il secondo aspetto del sistema politico spagnolo da mettere in rilievo concerne il ruolo che, non previsto (anche se frutto di un sistema elettorale voluto per premiare le forze politiche fortemente radicate in un territorio, ma assenti in altri, come i partiti nazionalisti), di fatto vi svolgono il Partido Nacionalista Vasco (PNV) e le altre forze nazionaliste basche, catalane, galiziane, delle Canarie ecc. Si tratta di un fattore condizionante che, contrariamente ad alcune previsioni dei primi tempi del dopo Franco, non ha avuto alcun effetto destabilizzante sui governi, quanto piuttosto sugli equilibri tra centro e periferia.

Del tutto stabile sul piano del sistema dei partiti e dei governi, la Spagna democratica ha conosciuto movimenti e tensioni su un altro terreno. Pur senza indicarne nomi e confini, la Costituzione fissava due tipi di Comunità autonome, alle quali corrispondevano due modalità di accesso all’autogoverno e due gradi di autonomia sulla base delle competenze che si potevano trasferire. Per ciascuno dei due livelli stabiliva, infatti, le competenze che dovevano restare dello Stato, quelle che potevano essere condivise, quelle che dovevano esserlo e, infine, quelle che potevano o dovevano essere trasferite alle Comunità. Di qui lo scatenarsi di processi di emulazione delle Comunità dotate di peculiari caratteristiche, tradizioni o prerogative (bilinguismo, modalità del prelievo fiscale, possibilità di istituire un proprio corpo di polizia ecc.) da parte delle altre, che ha visto nel corso degli anni Catalogna e Galizia aspirare al livello di autonomia dei Paesi Baschi e le altre Comunità rincorrere il grado di competenze originariamente assegnato alle Comunità storiche (Catalogna, Galizia e Paesi Baschi), mentre il nazionalismo basco incalzava per forzare i confini della Costituzione con la rivendicazione della piena sovranità. Più sensibili i socialisti, per storia e tradizione, al decentramento e alle richieste delle Comunità e, per le stesse ragioni, meno disponibili i popolari (che pure sono venuti uniformandosi ai principi costituzionali in materia di organizzazione territoriale dello Stato, a suo tempo avversata), non è stato in base ai principi che socialisti e popolari si sono comportati, quando sono stati al governo di fronte alle richieste provenienti dalle Comunità, ma in base alla necessità o meno che hanno avuto del voto dei partiti nazionalisti per mantenere la maggioranza parlamentare. Così, per esempio, Aznar, non avendo i voti necessari per governare, non ha esitato negli anni del suo primo governo ad assecondare le richieste provenienti dalle Comunità autonome e dal nazionalismo catalano e basco, salvo poi chiudere la porta ad ogni ulteriore richiesta una volta conquistata la maggioranza assoluta nelle elezioni del 2000. E lo stesso si è detto per le concessioni fatte da Zapatero ai nazionalismi periferici nel corso della legislatura appena conclusasi. Per questo motivo, un sistema politico stabile, fondato su un bipartitismo solido e su un’istituzione come la monarchia che lo è altrettanto, come sondaggi e manifestazioni per i settant’anni del sovrano hanno dimostrato,3 presenta proprio sul crinale della questione nazionale un quadro mosso. Mosso non solo perché in progress, ma anche perché tutt’altro che definiti appaiono gli argini all’interno dei quali deve scorrere il flusso del dibattito nazionale. La storia della democrazia spagnola è stata quindi anche storia di negoziati estenuanti e di continuo spostamento di assetti ed equilibri tra Stato e Comunità autonome.

Aspettando il 9 marzo

Non è sul terreno economico né su quello della laicità che, a ben vedere, i due principali partiti si differenziano nettamente.

I conti pubblici restano virtuosi, l’economia tirava ai tempi di Aznar e ha continuato a tirare in quelli di Zapatero, anche se la crescita ha iniziato a decelerare. Nell’economia del paese iberico occupava e occupa un posto centrale il settore edilizio, oggi in crisi per via degli alti tassi dei mutui. Presentava poi e presenta uno dei più alti deficit al mondo per quanto concerne i conti con l’estero. Il paese investe più di quanto risparmia e si finanzia a credito facendo leva sulla fiducia che ispira il buon andamento dell’economia. Esporta poco e continua ad avere indici di competitività assai bassi.

Ma i due principali partiti non hanno ricette diverse, né si ispirano a incompatibili scuole di pensiero sociale ed economico. I socialisti spagnoli non sono stati, né lo sono diventati negli ultimi tempi, fautori di un peso preponderante dello Stato nella vita economica. I popolari, specie con Aznar, hanno sostenuto con forza le liberalizzazioni, lasciandosi alle spalle il tradizionale statalismo della destra spagnola. D’altro canto (anche come retaggio della dottrina sociale cattolica, alla quale una parte della sua classe politica s’ispira) non si sono mai sognati di mettere in discussione lo Stato sociale e le poche volte che ci hanno provato (come nel 2002, quando Aznar cercò per decreto di riformare il mercato del lavoro andando a toccare le indennità di disoccupazione) sono stati costretti a fare marcia indietro dopo uno sciopero generale. La campagna elettorale ha quindi esasperato differenze che sul piano economico restano di non grande significato. Almeno in parte, lo stesso si può dire per il tema della laicità e dei rapporti con la Chiesa, un fronte sul quale si sono avuti attriti, levate di scudi, mobilitazioni popolari con adunate antigovernative. Ma in un paese secolarizzato come nessun altro dell’Europa cattolica, il PP ha la preoccupazione di non venire danneggiato da una contiguità eccessiva con un episcopato che dai tempi della transizione e del cardinale Tarancón ha compiuto molti passi a ritroso. Per questo Mariano Rajoy Brey non ha assunto precisi impegni circa l’abrogazione delle leggi in materia di diritti civili introdotte da Zapatero. Come, d’altra parte, negli otto anni in cui era stato al governo, il PP non era intervenuto né sulla legge sul divorzio, né su quella che regola l’interruzione della gravidanza.

È quindi sul terreno dei rapporti con i nazionalismi periferici e con le Comunità autonome che si gioca la possibilità di Zapatero di essere confermato e di Rajoy di far tornare i popolari alla guida del paese. Agli occhi dei popolari Zapatero si è macchiato di gravi colpe. Anzitutto, per aver proposto e poi intrapreso il dialogo con l’ETA, una volta che l’organizzazione terrorista basca aveva annunciato che avrebbe rinunciato alla lotta armata. Un tema sul quale il Partido Popular ha imbastito nell’ultima legislatura una campagna assillante, al punto di lasciar pensare di non avere altri argomenti. Al leader socialista viene poi rimproverato di aver concesso troppo ai nazionalismi periferici sul piano simbolico (il nuovo statuto catalano definisce la Catalogna come “nazione”) e sul piano delle competenze trasferite. In questo ambito Zapatero si sarebbe spinto troppo avanti anche per alcuni della vecchia guardia socialista, che non hanno mancato di manifestarlo in modo indiretto in alcuni casi ed esplicitamente in altri (dal potente José Bono ad Alfonso Guerra, passando per Rosa Díez che ha fondato con altri un nuovo partito, del quale si dirà più avanti).

Fu in seguito all’interessato ritardo con cui informarono che le indagini si andavano appuntando sul terrorismo islamista anziché sull’ETA, che i popolari persero clamorosamente le elezioni del 14 marzo 2004, svoltesi a poche ore di distanza dal tremendo attentato della stazione di Atocha. Con tutto ciò, i falchi del partito di Rajoy hanno continuato a insistere in modo assillante sulle collusioni dell’ETA e sull’esistenza di un complotto ai danni del PP fino a quando la sentenza dell’Audiencia Nacional del 31 ottobre scorso ha definitivamente scartato queste ipotesi. Forse non è un caso che, abbandonato questo tema di polemica contrapposizione al PSOE, il PP abbia cominciato ad apparire più credibile. Così come, per altro verso, è stato con l’attentato all’aeroporto di Madrid del 30 dicembre 2006 che i socialisti, che tanto avevano investito sulla possibilità di una fine negoziata del terrorismo basco, hanno cominciato ad andare in salita verso la scadenza elettorale del 9 marzo. I sondaggi danno i due principali partiti pressoché affiancati nelle intenzioni di voto e, in alcuni casi si spingono fino a pronosticare un “pareggio tecnico”, anche se il grado di preferenza per Zapatero continua ad essere più elevato rispetto a quello per Rajoy. I socialisti hanno davanti a sé il compito di intercettare tutto il voto radicale senza perdere i consensi dei settori democratici più moderati e anche cattolici. Contano di convincere entrambi presentandosi ai primi con le innovazioni introdotte nel quadriennio, ai secondi con le rassicurazioni degli ultimi mesi (l’invio di una delegazione di alto profilo alla cerimonia delle beatificazioni in San Pietro, la cosiddetta “svolta spagnolista” di Zapatero, la rinuncia a mettere mano alla legge sull’aborto, la dichiarazione di considerare conclusa la fase di riforma degli statuti di autonomia e di trasferimento di competenze ecc.). Ma potrebbero anche pagare l’ambiguità e il cambio di rotta. I popolari, da parte loro, devono riuscire a non perdere il voto della destra nostalgica e più clericale senza arretrare troppo rispetto al cammino compiuto che li ha visti trasformarsi in un partito moderato moderno. Da questo punto di vista, l’esclusione dal novero dei candidati del dinamico sindaco di Madrid, Alberto Ruiz-Gallardón, scopre il PP sul fianco sinistro e prelude a una feroce resa dei conti all’interno del partito, nel caso di sconfitta. Per tutti costituisce un’incognita l’esito che potrà avere la nuova formazione Unión Progreso y Democracia (UPD), capitanata dall’ex deputata socialista europea Rosa Díez e dal filosofo Fernando Savater; formazione che sulla carta potrebbe intercettare il voto dei popolari insoddisfatti per la scarsa laicità del partito e dei socialisti critici della politica del governo giudicata troppo accondiscendente nei riguardi del nazionalismo basco e catalano.

Un buon colpo ha fatto Rajoy convincendo l’impresario ed ex presidente di Endesa (la più importante società di energia elettrica spagnola), Manuel Pizarro, a candidarsi come secondo per la circoscrizione di Madrid nelle liste popolari. Ma uno altrettanto buono l’aveva già messo a segno Zapatero convincendo Pedro Solbes, attuale vicepresidente e ministro dell’Economia, ad accettare la non scontata nuova candidatura. Analisti e osservatori concordano nell’assegnare importanza decisiva agli indecisi e nel pronosticare che un’alta affluenza alle urne favorirà i socialisti (come avvenne nelle elezioni del 14 marzo del 2004), mentre un’affluenza attorno o inferiore al 70% finirà per favorire i popolari. Osservatori e analisti convergono anche nel giudicare decisivo il voto di Madrid (dove alle ultime amministrative il PP ha stravinto), della Catalogna (dove i popolari sono ai minimi termini e i socialisti sono al governo della Comunità, ma anche dove il governo di Madrid ha commesso errori che hanno provocato gravi difficoltà nella costruzione della linea per i treni ad alta velocità) e in Andalusia (tradizionale roccaforte socialista, ma con alcune oasi popolari, come Cadice) dove il 9 marzo si voterà pure per rinnovare il parlamento di Siviglia. Comunque, nessun terremoto si annuncia, qualunque sia l’esito del voto.

Spagna

La Spagna è una monarchia parlamentare. Secondo la Costituzione del 1978, capo dello Stato è il re (dal 1975 Juan Carlos I di Spagna), cui spetta formalmente il potere esecutivo. Tale potere viene esercitato di fatto dal Consiglio dei ministri (presieduto da un primo ministro), responsabile di fronte al Parlamento. L’attuale primo ministro è José Luis Rodrìguez Zapatero. Il potere legislativo spetta a un Parlamento bicamerale, in carica per quattro anni, composto dal Congresso dei deputati (350 membri, eletti a suffragio universale) e dal Senato (259 membri, di cui 208 eletti a suffragio universale e 51 eletti dalle assemblee legislative regionali). Le quindici comunità e le due città autonome (Ceuta e Melilla sulle coste marocchine) in cui è diviso amministrativamente il paese hanno ciascuna un’Assemblea legislativa, eletta per quattro anni a suffragio universale, e un Consiglio di governo, responsabile di fronte a essa. La popolazione è di 40.448.000 abitanti (stima 2007), di cui il 14% di età inferiore ai 15 anni; l’incremento demografico dell’ultimo anno è stato dello 0,1%. Il PIL ha registrato una variazione annuale di +3,9% (a prezzi costanti, 2006) e il PIL pro capite ammonta a 27.767,192 dollari (a prezzi correnti, stima 2006). La disoccupazione è all’8,5% (2006).

Questi gli avvenimenti più salienti dell’ultimo anno: un referendum tenutosi il 18 febbraio 2007 ha riconosciuto all’Andalusia lo statuto di autonomia allargata, come era già avvenuto per la Catalogna nell’anno precedente. Per quanto riguarda i Paesi Baschi, la situazione è più complessa, soprattutto in seguito alla denuncia della tregua proclamata il 22 marzo 2006 tra il governo i separatisti dell’ETA, da parte di questi ultimi: ciò ha portato il governo ad un irrigidimento, anche per far fronte alle critiche mosse dall’opposizione sulla scarsa incisività dimostrata nella questione. Per quanto riguarda gli impegni internazionali, la Spagna ha inviato un contingente militare in Libano per contribuire alla missione delle Nazioni Unite (UNIFIL), che si aggiunge agli altri impegni già presi dal paese.

1 Sul periodo in esame il migliore lavoro di sintesi è C. T. Powell, España en democrazia, 1975-2000, Plaza & Janés, Barcellona 2001, mentre il lettore italiano può utilmente attingere a C. Adagio, A. Botti, Storia della Spagna democratica. Da Franco a Zapatero, Bruno Mondadori, Milano 2006. Sui sentimenti identitari e la nazionalizzazione degli spagnoli in democrazia, invece, si veda A. Botti, Le patrie degli spagnoli. Spagna democratica e questioni nazionali, Milano, Bruno Mondadori 2007.

2 Per il lettore italiano è giocoforza rinviare all’ottimo studio di A. Bosco, Da Franco a Zapatero. La Spagna dalla periferia al cuore dell’Europa, il Mulino, Bologna 2005.

3 Interpellati nel 1998 sull’importanza del ruolo del re come arbitro e moderatore del regime democratico spagnolo, il 28% e 46% degli intervistati risposero rispettivamente molto e abbastanza, mentre poco o nulla fu la risposta del 15% e del 6%. Estudio CIS 2309, dicembre 1998, consultabile in rete al seguente indirizzo: www.cis.es/cis/opencms/-Archivos/Boletines/20/BDO_20_Democracia.html#corona. Dall’inchiesta commissionata dal quotidiano “El Mundo” nel 2005, in occasione nel trentesimo anniversario dell’incoronazione di re Juan Carlos, a Sigma Dos, risulta che il 38% dei cittadini si dichiara monarchico contro un 23,5% che si dice repubblicano, mentre il 38% non risponde. Rispetto ad analoga inchiesta del 2000, i monarchici scendono di cinque punti e i repubblicani crescono di quasi otto. Il 73,5% ritiene tuttavia che la monarchia debba continuare con il principe Felipe. Concludendo, si possono indicare alcuni dati certi e altri tendenziali. Costituisce un dato certo il riconoscimento del ruolo positivo svolto dal sovrano nella transizione alla democrazia. Le percentuali sono altissime e testimoniano che le preferenze degli spagnoli si appuntano attualmente sulla monarchia. I dati tendenziali indicano che da qualche anno si è preso a discutere apertamente dell’istituto monarchico e che cresce sensibilmente la percentuale degli spagnoli che si dicono repubblicani.