G8 e Africa: cosa ci insegna la crisi?

Di Federica Marzo Giovedì 02 Luglio 2009 17:47 Stampa

Grazie all’aumento dell’interdipendenza economica determinata dalla globalizzazione, l’Africa si sta sempre più integrando nel contesto economico globale, con benefici rilevanti per quanto riguarda i livelli di crescita economica registrati negli ultimi anni. Una maggiore interdipendenza comporta però la necessità di coinvolgere nel processo di dialogo multilaterale anche paesi, come quelli africani, un tempo ritenuti marginali.

In un contesto in cui la globalizzazione approfondisce i legami di interdipendenza tra paesi e continenti, anche l’Africa appare sempre più integrata nel sistemamondo, non solo a livello commerciale, ma anche per quanto riguarda investimenti e flussi di capitale in generale. I vantaggi sono stati sicuramente importanti, soprattutto grazie all’emergere di nuovi giganti economici come Cina, India e Brasile, che hanno alimentato la domanda globale per le materie prime africane migliorando considerevolmente i termini di scambio. Tuttavia, la globalizzazione porta con sé anche nuove sfide e la necessità di discutere per trovare risposte condivise, processo nel quale l’Africa deve ancora ottenere e definire il suo spazio. Questo è ancora più rilevante oggi, quando uno shock totalmente esterno, quale l’attuale crisi economica internazionale, promette di avere conseguenze importanti anche sul continente africano. La comunità internazionale non può esimersi dal fornire sostegno ai governi africani per una crisi di cui questi ultimi non sono responsabili. Il G20 dell’aprile scorso è andato in questa direzione, e il G8 italiano di luglio promette di fare lo stesso, anche se alle dichiarazioni occorre che seguano i fatti, se non si vogliono compromettere i successi ottenuti negli ultimi anni in termini di progresso sociale ed economico.

Benché tuttora modesta, l’integrazione dell’Africa nell’economia mondiale sta procedendo, come testimonia l’importanza crescente che nuovi attori stanno assumendo nel continente. Se precedentemente la stragrande maggioranza dei prodotti africani era diretta verso i ricchi mercati dell’OCSE, oggi più del 40%del commercio avviene con i paesi BRIC (Brasile, Russia, India, Cina) o all’interno del continente. Dall’inizio del decennio, il commercio tra Africa e Cina è decuplicato. Nel solo 2008, l’aumento degli scambi tra l’Africa e questo paese asiatico è stato pari al 45%.

Questo fenomeno di redistribuzione del peso geopolitico ed economico ha innescato un circolo virtuoso che ha permesso al continente di crescere, dal 2002 in poi, ad un ritmo superiore al 5%. Nel 2008, secondo le stime riportate dall’“African Economic Outlook 2009”,1 è stato registrato un tasso di crescita del 5,7%, alimentato da un aumento del 5% del volume delle esportazioni e da una crescita del 17% degli investimenti diretti esteri, mentre settori non tradizionali hanno progressivamente acquisito un dinamismo inedito, creando nuova occupazione e contribuendo a creare ricchezza. Molti governi, in misura diversa, hanno approfittato dell’aumento di questi flussi finanziari per risanare i conti pubblici e, allo stesso tempo, per aumentare il loro impegno per lo sviluppo. Alcuni paesi, come l’Uganda, sono stati in grado di dimezzare il loro tasso di povertà nel corso degli ultimi dieci anni.2

Tuttavia, tali vantaggi potrebbero essere maggiori, in particolare se la ricchezza fosse distribuita più equamente e se ci fosse un più libero accesso ai mercati del Nord del mondo. Va inoltre sottolineato che la globalizzazione non porta con sé solo benefici, ma anche la necessità di condividere responsabilità e azioni per affrontare le sfide comuni, come il cambiamento climatico, il controllo dei flussi migratori, la lotta alle pandemie, al terrorismo internazionale e al narcotraffico, lo smantellamento dei paradisi fiscali (dove troppe risorse africane trovano rifugio) e la regolamentazione dei mercati finanziari, la prevenzione e la gestione delle crisi.

Quella che stiamo vivendo in questi mesi ci mostra in modo tangibile che mai come oggi il mondo è stato interdipendente. Cominciata nei mercati finanziari di America ed Europa, essa si sta ora drammaticamente diffondendo nelle economie reali dei paesi più vulnerabili. Certamente un’altra conseguenza della globalizzazione.

 

Quale sarà l’impatto sull’Africa?

Sempre secondo i dati dell’“African Economic Outlook 2009”, il continente africano crescerà di appena il 2,8% nel 2009, riducendo la sua crescita di quasi tre punti percentuali. Il commercio globale, per la prima volta in sessant’anni, diminuirà del 13,1%, mentre il saldo commerciale africano passerà da un surplus medio del 3,3% a un deficit del 4,4 nel 2009. La contrazione globale di liquidità, unita al calo del consumo e della produzione industriale nei paesi del Nord, si tradurrà in un arresto degli investimenti, sia di quelli diretti esteri sia di quelli di portafoglio. L’aumento della disoccupazione in Africa, come nei paesi OCSE, porterà ad una diminuzione delle rimesse internazionali e interne dei migranti.

Di fronte, nella migliore delle ipotesi, a una quasi stagnazione delle entrate fiscali, pochi saranno i governi in grado di sostenere politiche anticicliche di sostegno alla domanda (Sudafrica, Namibia e Mauritius sono alcune tra le eccezioni). Al contrario, si prevede un blocco delle spese correnti e una diminuzione del 7% degli investimenti pubblici, a scapito di politiche di riduzione della povertà, della prestazione di servizi di base e di opere di ricostruzione nei paesi post conflitto. Un paese come l’Angola, che sta vivendo un faticoso processo di stabilizzazione economica e sociale, nonché di ricostruzione a seguito di trent’anni di guerra civile, vedrà ridurre i suoi investimenti pubblici del 40% per preservare l’equilibrio di bilancio. Si prevede infatti una diminuzione del 50% degli introiti a causa del calo dei prezzi del petrolio e del taglio della produzione imposto dall’OPEC. La mancanza di sistemi di protezione sociale fa temere per i gruppi sociali più vulnerabili, destinati a subire gli effetti peggiori della crisi: in Zambia, uno dei paesi più poveri del continente, i fondi attribuiti alla protezione sociale stanno rapidamente diminuendo, a seguito della riduzione delle entrate dovute al calo del prezzo del rame.

Occorre rilevare tuttavia che l’Africa è un continente eterogeneo sotto ogni punto di vista. Le conseguenze della crisi dipenderanno dalla durata della crisi stessa, dalla struttura economica di ogni paese e dal livello di integrazione nell’economia mondiale. Se i paesi più colpiti saranno quelli più integrati (come il Sudafrica) e quelli esportatori di petrolio e minerali (come Angola, Algeria, Zambia e Botswana), i paesi prevalentemente agricoli lo saranno di meno. Tra loro, quelli che hanno saputo portare avanti politiche economiche prudenti ed efficaci sforzi di diversificazione conosceranno tassi di crescita addirittura superiori al 6%, come la Tanzania, l’Uganda o il Ruanda.

Se è importante sottolineare che il continente nel suo insieme appare oggi meglio preparato per fronteggiare la crisi e che la stessa situazione, se si fosse verificata venti anni fa, avrebbe certo avuto conseguenze più drammatiche, resta il fatto che questa crisi arriva in un momento in cui molti paesi africani stavano facendo progressi importanti, e stavano cominciando a raccogliere i frutti del rigore economico e delle riforme strutturali faticosamente realizzate negli ultimi anni.

 

Le conseguenze della diffusione della crisi sull’architettura del dialogo multilaterale

Il fatto che l’Africa si ritrovi oggi a subire una situazione di cui non è responsabile mette nuovamente l’accento su una questione che è sul tappeto già da alcuni anni, e che riguarda la riforma dell’architettura del dialogo multilaterale, sia formale (FMI, Banca mondiale, ONU) sia informale (G8). Il processo di globalizzazione sta progressivamente togliendo ai grandi del mondo la legittimità per discutere e decidere delle sorti di tutti, perché le sorti dei grandi dipendono sempre di più da quelle di altri paesi, una volta ritenuti marginali.

Nel corso degli anni Novanta è divenuta sempre più pressante la necessità di riflettere sull’allargamento del raggio d’azione del summit del G8, sia dal punto di vista dei temi trattati, per includerne di nuovi, di interesse globale e che andassero al di là delle sole questioni economiche e finanziarie; sia dal punto di vista della rappresentanza geografica, per accogliere nella discussione i nuovi paesi emergenti. Questa spinta all’allargamento e al dialogo portò alla creazione del G20, nel dicembre 1999.3 Nonostante il G20 rappresentasse l’80% della popolazione, il 90% del PIL e l’80% del commercio mondiali, un problema di rappresentatività regionale era percepito già all’epoca, per via di un’Europa troppo presente e di un’Africa virtualmente assente (se non per il Sudafrica, che però non ha mai avuto un mandato per rappresentare il continente).

A seguito dell’attuale crisi, l’organizzazione dell’ultimo G20 ha acquisito una visibilità e un’importanza politica ed economica mai avuta prima. Il suo svolgimento ha avuto conseguenze tutto sommato positive per l’Africa: da un lato, per la prima volta, il continente è stato rappresentato sia dalla presidenza di turno dell’Unione africana sia dal NEPAD, rappresentato dall’Etiopia; dall’altro, le esigenze del continente hanno avuto un’eco inedita, e diverse misure sono state adottate per aiutare l’Africa a superare la crisi, evitando le conseguenze più dannose, come i rischi di default sul debito pubblico.

La Banca africana di sviluppo ha stimato in 50 miliardi di dollari il deficit di risorse finanziarie che l’Africa dovrà colmare nel 2009 per poter mantenere i tassi di crescita realizzati negli ultimi anni. Tale deficit raggiungerà i 56 miliardi di dollari nel 2010. La comunità internazionale si è quindi accordata sulla necessità di aumentare i fondi per l’Africa, nonché sulla necessità che questi fondi siano flessibili, rapidamente spendibili e di un ammontare adeguato.

Il G20 ha stabilito, tra le altre cose, un considerevole aumento dei fondi destinati al FMI (nella forma di sostegno alle riserve di valuta o di prestiti in termini concessionali) e alle banche multilaterali di sviluppo, in particolare per quanto riguarda la Banca africana di sviluppo. In totale, dei 50 miliardi di dollari stanziati dal G20 per aiutare i paesi a basso reddito a superare la crisi, l’Africa ne riceverà fra 21,5 e 23,5 miliardi. A questi si dovranno aggiungere i 15 miliardi di dollari da utilizzare nei prossimi due o tre anni e stanziati nel Joint Action Plan dalla Banca mondiale e dalla Banca africana di sviluppo durante la riunione annuale di quest’ultima, nel mese di maggio 2009.

 

Cosa ci si dovrà aspettare dal prossimo G8?

Al di là delle misure prese durante il G20, diverse altre questioni devono ancora essere affrontate: da un lato, il G20 rimane troppo circoscritto a questioni economiche e finanziarie, dall’altro occorre definire e stabilizzare la posizione dell’Africa, sia all’interno del G20 sia all’interno del processo di riforma delle istituzioni finanziarie internazionali (FMI e Banca mondiale). Oltre a dover giocare un ruolo attivo in tale processo di riforma, il continente deve poter essere rappresentato in modo adeguato anche in queste istituzioni.

In tutto ciò, il destino riservato al tradizionale G8 non è chiaro. Rispetto al G20, quest’ultimo ha il vantaggio di affrontare questioni d’interesse globale, che vanno al di là dei temi economici e finanziari. Allo stesso tempo però, limitare il discorso agli otto grandi della terra appare oggi decisamente anacronistico. In questo senso, riprende vigore il processo di Heiligendamm che prevede il rafforzamento del dialogo tra G8 e G5 (Cina, Brasile, Sudafrica, India e Russia). Quello che è certo è che il summit di quest’anno, ospitato dall’Italia, promette di essere particolarmente attento alle questioni dello sviluppo. Organizzando per la prima volta al Quirinale la giornata di commemorazione della creazione dell’Unione africana,4 l’Italia ha già lanciato un messaggio politico importante sul rilievo che le problematiche africane assumeranno nel prossimo summit.

Per la prima volta, il G8 inviterà rappresentanti di paesi africani (tra cui l’Angola) a partecipare alle discussioni, e ci si attende che le questioni riguardanti le infrastrutture di base e la sicurezza alimentare siano tra i principali temi dibattuti.

È un primo passo, importante, ma solo un primo passo. Adesso, oltre alle dichiarazioni, occorre anche mantenere gli impegni presi, che vanno ben oltre la crisi attuale. Quelli assunti al G8 di Gleneagles nel 2005 non sono stati mantenuti, e l’ODA (Official Development Assistance) dei paesi DAC (Development Assistance Committee) dovrebbe aumentare del 17% nei prossimi due anni per raggiungere l’obiettivo di raddoppiare il livello degli aiuti entro il 2010. Alla luce della crisi attuale, sembra oggi ancora più improbabile che gli impegni presi vengano mantenuti, mentre il deficit da colmare per sviluppare la rete di infrastrutture di base ammonta a 40 miliardi di dollari l’anno, secondo le stime della Banca mondiale. Il prossimo G8 potrebbe, per esempio, proporre nuove fonti di finanziamento allo sviluppo, più innovative, che sappiano unire flussi pubblici e privati.

Nel breve e medio periodo servono certamente più aiuti, ma anche aiuti più efficaci, se si vuole che la crisi attuale non comprometta le prospettive future di crescita per l’Africa. Nel più lungo periodo, invece, occorrerà diminuire la dipendenza del continente dai flussi di finanziamento esteri, compresi gli aiuti. Per fare ciò, l’Africa deve mettere in pratica misure per movimentare le risorse interne, per esempio rivedendo le politiche fiscali o, con la collaborazione della comunità internazionale, risolvendo seriamente la questione dei paradisi fiscali, che oggi rappresentano una vera e propria ferita aperta in molti paesi, specialmente in quelli ricchi di risorse naturali. Nell’attesa di una presa di posizione chiara da parte del G8 anche su questo punto, l’OCSE potrà intanto contribuire in modo significativo fornendo esperienza e assistenza tecnica: l’Organizzazione ha recentemente creato una partnership con la Banca africana di sviluppo e con il governo del Sudafrica per la creazione dell’ATAF (African Tax Administration Forum), che mira a fornire linee guida ai governi africani oltre che a sviluppare delle best practices per promuovere una mobilitazione più efficace delle risorse domestiche. Il progetto dell’“African Economic Outlook”, dal canto suo, permette di monitorare regolarmente i progressi fatti nella realizzazione di politiche pubbliche in tutto il continente, facilitando processi di mutual review a livello dei governi e stimolando il dibattito sulla gestione economica all’interno della società civile.


[1] L’”African Economic Outlook” è un rapporto annuale prodotto dalla Banca africana di sviluppo, dal Centro di sviluppo dell’OCSE e dall’UNECA (United Nations Economic Commission for Africa).

[2] Il tasso di povertà nazionale in Uganda è passato dal 56% nel 1992 al 31% nel 2006.

[3] I membri del G20 sono i ministri delle Finanze e i governatori delle banche centrali di diciannove paesi (Argentina, Australia, Brasile, Canada, Cina, Francia, Germania, India, Indonesia, Italia, Giappone, Messico, Russia, Arabia Saudita, Sudafrica, Corea del Sud, Turchia, Gran Bretagna, Stati Uniti). L’Unione europea è membro del G20 ed è rappresentata dal presidente di turno
dell’Unione e dal governatore della BCE.

[4] L’Unione africana è stata fondata il 25 maggio 1963 ad Addis Abeba, in Etiopia