I cambiamenti climatici e l'energia dopo la Conferenza di Bali

Di Corrado Clini Giovedì 28 Febbraio 2008 23:12 Stampa

Il documento conclusivo della Conferenza di Bali, che secondo le attese avrebbe dovuto determinare gli obiettivi per la riduzione globale delle emissioni globali, ne riconosce la necessità, ma non indica alcun obiettivo concreto. In particolare, si sostiene che nel prossimo futuro i paesi sviluppati dovranno assumere ulteriori impegni rispetto al Protocollo di Kyoto, mentre le emissioni dei paesi in via di sviluppo potranno continuare a crescere per non penalizzare la crescita economica. In questo esercizio l’Europa ha avuto certamente il risultato peggiore. Innanzitutto dal punto di vista politico, perché le proposte negoziali dell’UE non hanno saputo offrire un quadro di riferimento globale e convincente per favorire la convergenza dei temi e degli interessi in campo su una piattaforma negoziale comune. Ma anche dal punto di vista economico, perché il gravoso impegno unilaterale già assunto per ridurre le emissioni del 20% entro il 2020 non ha avuto riscontro in analoghi impegni di altri paesi sviluppati.

Secondo molte attese, soprattutto in Europa, la Conferenza di Bali avrebbe dovuto individuare gli obiettivi e la road map per avviare la riduzione globale delle emissioni di anidride carbonica con il coinvolgimento di Stati Uniti, Cina, India e degli altri paesi che fino ad oggi non partecipano agli impegni fissati dal Protocollo di Kyoto. L’interesse europeo era motivato, oltre che dall’esigenza di confermare la leadership politica nella campagna mondiale sul climate change, anche dalla necessità di uscire dal contesto unilaterale degli impegni assunti dall’Unione europea per una ulteriore riduzione delle emissioni rispetto a Kyoto (20% contro 8%) entro il 2020, che impone all’Europa di sostenere politiche pubbliche e investimenti che non hanno riscontro in analoghi impegni delle economie sviluppate ed emergenti, con un elevato rischio di perdita di competitività.

Le conclusioni di Bali non hanno risposto alle attese

Il documento conclusivo della Conferenza di Bali riconosce la necessità di riduzioni significative delle emissioni globali, ma non indica alcun obiettivo concreto, né per i paesi sviluppati né per quelli in via di sviluppo con economie emergenti, come invece avrebbe voluto l’Unione europea. In generale, si riconosce che nel prossimo futuro i paesi sviluppati (si intende USA inclusi, anche se non viene specificato) dovranno assumere ulteriori impegni rispetto al Protocollo di Kyoto, mentre le emissioni dei paesi in via di sviluppo potranno continuare a crescere per non penalizzare la crescita economica, che dovrà tuttavia essere sostenuta dall’impiego di tecnologie avanzate e a basse emissioni rese disponibili anche attraverso la cooperazione tecnologica e commerciale. Infine, viene riconosciuto che l’impegno dei paesi in via di sviluppo per la conservazione delle foreste e la riforestazione, necessarie per l’assorbimento del carbonio atmosferico, debba essere sostenuto con adeguati incentivi economici. Queste sono le linee guida per il negoziato lanciato a conclusione della Conferenza di Bali, che dovrebbe portare ad un accordo globale per la riduzione delle emissioni di anidride carbonica entro la fine del 2009.

Se si confrontano i dati e gli scenari delle emissioni globali di anidride carbonica con gli obiettivi di riduzione indicati dal mondo scientifico, le conclusioni di Bali mettono in evidenza i limiti del metodo e degli obiettivi del negoziato internazionale sui cambiamenti climatici che è seguito all’adozione del Protocollo di Kyoto nel 1997.

I dati di riferimento su energia e clima prima di Bali

Poche settimane prima della Conferenza di Bali due documenti di altrettante organizzazioni intergovernative avevano fotografato il “conflitto di interessi” tra protezione del clima e sicurezza energetica, e avevano anticipato l’esito prevedibile della Conferenza. Innanzitutto, il IV Rapporto sul clima del Panel intergovernativo sui cambiamenti climatici (IPCC), redatto nel 2007, afferma che la concentrazione in atmosfera di CO2 dovrebbe essere stabilizzata tra 450 e 550 parti per milione entro la fine del secolo, per evitare l’intensificazione difficilmente controllabile di catastrofici effetti quali uragani, inondazioni, siccità prolungate. Per ottenere questo risultato, le emissioni di CO2 dovrebbero raggiungere il picco entro il 2015-20 al più tardi, per poi scendere di un livello compreso tra il 50% e l’85% al di sotto delle emissioni del 2000 entro il 2050. Il secondo documento, lo “Scenario di riferimento” del World Energy Outlook dell’Agenzia internazionale dell’energia, prevede che la domanda di energia primaria mondiale aumenterà del 55% tra il 2005 e il 2030. Il 74% di questo aumento sarà concentrato nelle economie emergenti, e Cina e India da sole contribuiranno per il 45% alla crescita dei consumi primari di energia. Sulla base delle attuali politiche e del trend degli investimenti, l’aumento sarà sostenuto per oltre l’80% dai combustibili fossili: nei prossimi vent’anni saranno investiti oltre 22.000 miliardi di dollari per l’esplorazione di giacimenti di petrolio e gas, nonché per la costruzione delle centrali elettriche e delle infrastrutture necessarie a rispondere alla domanda di energia, in gran parte nelle economie emergenti. Una quota marginale sarà destinata allo sviluppo delle fonti rinnovabili. Considerando la vita media di centrali e infrastrutture energetiche (da 30 a oltre 50 anni), questi investimenti condizioneranno il futuro della

 

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struttura energetica per molti decenni. Nel 2030 il mix energetico sarà costituito per il 32% dal petrolio, per il 28% dal carbone, per il 22% dal gas naturale, per l’11% dalle fonti rinnovabili e per il 7% dal nucleare (Grafico 1). Inoltre, nel 2030, all’aumento dei consumi energetici corrisponderà una crescita delle emissioni di CO2 di oltre il 60% rispetto ai livelli del 2000 (Grafico 2).

 

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Stati Uniti, Cina, Russia e India, contribuiscono per i due terzi di questo aumento. La Cina è di gran lunga la maggior responsabile delle emissioni aggiuntive, superando gli Stati Uniti quale maggior responsabile delle emissioni già alla fine del 2007. L’India diventerà il terzo maggior responsabile intorno al 2015.

È evidente la “simmetrica divergenza” tra il trend delle emissioni e gli obiettivi indicati dal IV Rapporto sul Clima. Secondo il Rapporto dell’Agenzia internazionale dell’energia del novembre 2007, per superare il “conflitto di interessi” tra sicurezza energetica e protezione del clima, bisognerebbe attuare immediatamente misure politiche e trasformazioni tecnologiche senza precedenti nel sistema energetico mondiale.

Se venissero attuate tutte le politiche attualmente in esame da parte della comunità internazionale e dei governi per l’aumento dell’efficienza energetica e la crescita delle fonti rinnovabili, sarebbe possibile raggiungere entro il 2030 una si- gnificativa riduzione del trend delle emissioni rispetto allo Scenario di riferimento. Questa è l’ipotesi alla base dello “Scenario alternativo” del WEO 2007, che prevede – rispetto allo Scenario di riferimento – un aumento dell’efficienza energetica del 65%, delle fonti rinnovabili del 12%, del nucleare del 10%.

Secondo questo scenario, nel 2030, la domanda mondiale di petrolio sarebbe più bassa di 14 milioni di barili al giorno, cifra equivalente all’attuale produzione complessiva di Stati Uniti, Canada e Messico. Il carbone subirebbe la flessione più marcata, sia in assoluto che in percentuale. Le emissioni di CO2 legate al consumo energetico nel 2030 sarebbero inferiori del 19% rispetto allo Scenario di riferimento.

Le politiche assunte dallo Scenario alternativo, per quanto già praticabili con le tecnologie disponibili, comportano scelte che non sembrano all’ordine del giorno delle principali economie mondiali e dunque non sono per nulla scontate. E tuttavia, anche se venissero adottate tutte le misure previste dallo Scenario alternativo, le emissioni di CO2 nel 2030 sarebbero più elevate di un quarto rispetto ai livelli attuali.

Le dimensioni della sfida della riduzione delle emissioni globali appaiono ancora più evidenti se si considerano i dati di riferimento dei consumi energetici di Cina e India tra il 2005 e il 2030. In questi venticinque anni, la domanda di energia primaria in Cina passerà da 1.742 milioni di tonnellate equivalenti di petrolio (TEP) nel 2005 a 3.819 milioni di TEP nel 2030 (quindi più del doppio); il carbone continuerà ad avere un ruolo prevalente (65-70%) per la produzione di elettricità e calore; la domanda di petrolio del settore del trasporto pressoché quadruplicherà per rispondere a un aumento del parco veicoli che aumenterà di sette volte, raggiungendo quasi i 270 milioni. Inoltre, la domanda di energia primaria dell’India sarà più che raddoppiata entro il 2030, con un aumento medio annuo del 3,6%. Sempre nel periodo 2005-30, il carbone rimarrà il combustibile principale in India, con un consumo quasi triplicato per rispondere all’aumento della domanda di elettricità, dovuto all’aumento della percentuale della popolazione con accesso all’energia elettrica, che salirà dal 62% al 96%. Negli usi finali il settore dei trasporti registrerà la crescita più veloce della do- manda di energia, in seguito a una rapida espansione del parco veicoli. Infine, l’aumento dei consumi di carbone sarà la causa principale della rapida crescita delle emissioni. Cina e India, che già utilizzano il 45% del carbone mondiale, contribuiranno per più di quattro quinti all’aumento dei consumi di carbone nel 2030.

Questi dati spiegano il primato della Cina e dell’India nelle emissioni globali. Tuttavia, le emissioni pro capite della Cina nel 2030 sono solo il 40% di quelle degli Stati Uniti e circa i due terzi di quelle dei paesi OCSE. In India, le emissioni pro capite rimangono di gran lunga inferiori rispetto a quelle dei paesi OCSE, anche se aumentano più velocemente di quelle di quasi tutte le altre regioni.

Ovvero, le emissioni pro capite di Cina e India spiegano che la distanza dello standard di vita dei cittadini di questi grandi paesi dallo standard dei cittadini americani e dei paesi sviluppati dell’area OCSE è ancora enorme.

Ed è evidente che la riduzione delle emissioni globali non potrà essere raggiunta a discapito della crescita economica e della sicurezza energetica di Cina ed India, e delle altre economie emergenti. Ovvero, nessuno può immaginare che Cina, India, Messico, Brasile, Sud Africa, Indonesia, debbano “precipitare” nel sottosviluppo per salvare il pianeta.

D’altra parte, non è neppure pensabile che la protezione del pianeta possa essere ottenuta attraverso la “recessione programmata” delle economie dei paesi sviluppati, dalla UE agli USA, dal Giappone al Canada.

Dalle parole alle parole: molti rischi per l’Europa

La Conferenza di Bali ha “galleggiato” sui nodi del conflitto tra protezione del clima e sicurezza energetica, in un estenuante lavorio di ricerca delle parole migliori per mettere d’accordo tutti senza scontentare nessuno. In questo esercizio l’Europa ha avuto certamente il risultato peggiore. Innanzitutto dal punto di vista politico, perché le proposte negoziali dell’UE non hanno saputo offrire un quadro di riferimento globale e convincente per favorire la convergenza dei temi e degli interessi in campo su una piattaforma negoziale comune. Questo è prima di tutto il risultato di un limite interno alla politica europea.

La sfida dei cambiamenti climatici richiede una forte integrazione delle politiche europee per la promozione e lo sviluppo delle tecnologie innovative a basso contenuto di carbonio in collaborazione con paesi terzi e in una dimensione globale, in materia di fiscalità energetica e incentivi a favore dei combustibili e delle tecnologie a basso contenuto di carbonio, di sostegno all’innovazione tecnologica, di promozione degli investimenti nei paesi dell’area tropicale per la produzione sostenibile di biocombustibili e superamento dei sussidi e delle barriere all’importazione nella UE, di gestione della fonte nucleare e dei relativi costi, di regolamentazione dei prezzi finali dell’elettricità prodotta con le tecnologie per il sequestro di carbonio. Come ha rilevato nel luglio scorso il Parlamento europeo, la mancanza di questo approccio integrato rende poco credibili gli impegni europei per la protezione del clima, e ovviamente non facilita l’elaborazione di proposte negoziali globali che dovrebbero muoversi in questa direzione. In aggiunta, i limiti della capacità negoziale europea sono stati appesantiti dal protrarsi – in molti Stati membri – sia di riserve e posizioni negative sulla piena utilizzazione di tutte le tecnologie disponibili per ridurre le emissioni di carbonio (idroelettrico, bioenergie, “carbon sequestration”, nucleare), sia di un approccio protezionistico che limita le prospettive della cooperazione tecnologica con i paesi terzi (sussidi, biocombustibili, foreste).

L’Europa ha avuto inoltre un risultato negativo dal punto di vista economico, perché il gravoso impegno unilaterale già assunto per ridurre le emissioni del 20% entro il 2020 non ha avuto riscontro in analoghi impegni di altri paesi sviluppati. Come è noto, gli impegni del Consiglio europeo della primavera del 2007 prevedono la riduzione delle emissioni del 20% rispetto ai livelli del 1990, l’incremento dell’efficienza energetica del 20%, l’aumento della quota di energia rinnovabile nella domanda primaria dal 7% al 20%, l’uso di biocarburanti almeno nella misura del 10% dei consumi totali di carburante, la realizzazione di almeno 15 impianti pilota per “la cattura e il sequestro del carbonio” emesso dalle centrali termoelettriche alimentate a carbone. A fronte di questi impegni, lo “Scenario di riferimento” del WEO 2007, che comprende anche le norme introdotte recentemente per incentivare le fonti rinnovabili e i biocombustibili, prevede che nel 2020 la quota di fonti rinnovabili nell’energia primaria sia di poco superiore all’8%, i biocombustibili coprano poco più del 2% dei consumi e le emissioni di CO2 aumentino di oltre il 9%. Questo trend è determinato da quattro fattori principali. Innanzitutto, la sicurezza energetica dell’Europa, per far fronte all’aumento della domanda primaria (+14,5% rispetto al 2000), richiederà sia l’aumento delle importazioni di combustibili fossili, sia la costruzione di nuove centrali termoelettriche per una potenza complessiva di circa 750 GW. In secondo luogo, le tecnologie attuali e le misure a disposizione rappresentano una “barriera” allo sviluppo delle fonti rinnovabili nella misura prevista. Inoltre, per raggiungere l’obiettivo del 10% di biocarburante, con le colture agricole e le tecniche a disposizione in Europa, sarebbe necessaria una superficie agricola compresa tra 80 e 100 milioni di ettari, non disponibile. L’obiettivo sarebbe più accessibile attraverso l’importazione di biocombustibile dai paesi dell’area tropicale, dove la produzione è facilitata da diversi tipi di colture che consentono, tra l’altro, maggiori produzioni con minori quantità. Ancora, le incertezze sul futuro dell’energia nucleare, che non è regolata e sostenuta da una politica europea, non consentono alcuna previsione su un possibile contributo aggiuntivo dell’energia nucleare alla riduzione delle emissioni. Resta comunque chiaro che senza il contributo dell’energia nucleare le emissioni attuali dell’Unione europea sarebbero di gran lunga più alte, come hanno di recente ricordato sia Nicholas Sarkozy che Gordon Brown. Infine, la tecnologia per la cattura e il sequestro del carbonio (Capture Carbon & Sequestration – CCS) è ancora in una fase preliminare di progettazione, e non sarà disponibile entro il 2020.

Pertanto, non potrà essere utilizzata per il retrofit delle centrali a carbone esistenti e nuove. E in ogni caso non sono definite le modalità per la copertura dei costi addizionali per la generazione di elettricità con l’applicazione di CCS. Tra gli Stati membri il contributo dell’Italia alla preparazione di Bali e durante la Conferenza è stato purtroppo marginale e soprattutto non all’altezza delle potenzialità. Durante la Conferenza l’Italia è stata citata ufficialmente solo in due occasioni: il capo della delegazione della Cina ha riconosciuto pubblicamente la lunga e positiva collaborazione della Cina con il ministero dell’Ambiente italiano per lo sviluppo congiunto di tecnologie innovative per la riduzione delle emissioni; e il capo della delegazione USA ha fatto riferimento alla collaborazione scientifica e tecnologica con il ministero dell’Ambiente italiano nella ricerca sui cambiamenti climatici e nello sviluppo di tecnologie a basso contenuto di carbonio.

La collaborazione ormai decennale con la Cina e la cooperazione scientifica e tecnologica con le istituzioni USA, in corso dal 2001, rappresentano due asset riconosciuti e invidiati a livello internazionale che l’Italia non ha voluto utilizzare nella preparazione della Conferenza di Bali per favorire il dialogo e la costruzione di una piattaforma comune. Ancora meno comprensibile è stata la rinuncia dell’Italia a valorizzare il lavoro pioneristico avviato nel 2002 sulla “finanza di carbonio” con l’istituzione dell’Italian Carbon Fund presso la Banca Mondiale, e con il supporto alla preparazione della strategia e delle istituzioni cinesi per la gestione del “Clean Development Mechanism” del Protocollo di Kyoto.

Nel 2006, mentre l’esempio italiano veniva preso come riferimento dagli altri paesi europei, l’Italia ha deciso di congelare queste iniziative. E di conseguenza a Bali l’Italia non ha potuto contribuire alla definizione delle linee di sviluppo del futuro della “carbon finance”, che avrà un ruolo sempre più rilevante nelle strategie globali sui cambiamenti climatici e la sicurezza energetica. Senza considerare che la chiusura dell’iniziativa italiana presso la Banca Mondiale costerà al nostro paese non meno di 6 miliardi di euro entro il 2012, perché l’Italia non potrà contare sui crediti di carbonio maturati attraverso i progetti promossi nell’ambito del Clean Development Mechanism del Protocollo di Kyoto in collaborazione con la Banca Mondiale.

Oltre le parole di Bali

Se si ritengono fondati gli scenari indicati dal IV Rapporto sui cambiamenti climatici, è urgente l’individuazione di regole globali e di lunga durata che consentano di affrontare in modo efficace la sfida della riduzione delle emissioni, senza compromettere la sicurezza energetica e la crescita economica. Ma per essere condivise a livello globale, e per essere efficaci dal punto di vista tecnologico, le regole dovrebbero innanzitutto considerare una ripartizione equa e globale degli impegni di riduzione delle emissioni, assumendo come riferimento la definizione di un obiettivo medio di emissioni pro capite e la contestuale realizzazione di un mercato globale dei “crediti di carbonio” come previsto dal Protocollo di Kyoto.

Sulla base di questo criterio: le economie sviluppate dovrebbero ridurre le proprie emissioni, mentre quelle emergenti e in via di sviluppo avrebbero un limite alla crescita delle emissioni; e un mercato globale dei crediti di carbonio, oltre a consentire alle economie sviluppate di acquistare “crediti” dalle economie emergenti e in via di sviluppo, potrebbe rappresentare un formidabile driver per la globalizzazione degli investimenti e della diffusione delle tecnologie a basso contenuto di carbonio, con grandi vantaggi per le imprese come suggeriscono i primi dati relativi allo sviluppo della cosiddetta “finanza di carbonio”.

Le regole dovrebbero inoltre considerare misure finalizzate a sostenere gli investimenti in tecnologie a basso contenuto di carbonio nel mercato globale dell’energia.

Le misure dovrebbero definire: a) standard di “intensità di carbonio” per le tecnologie energetiche da applicare e aggiornare nell’ambito delle regole dell’Organizzazione mondiale del commercio; b) un prezzo del carbonio (“carbon tax globale”) da applicare ai combustibili in relazione al loro contenuto di carbonio; c) il superamento delle barriere tariffarie al commercio internazionale delle tecnologie a basse emissioni e dei biocombustibili; d) incentivi e programmi di finanziamento a lungo termine per lo sviluppo delle “energie pulite” nelle economie emergenti, senza pregiudizi per bioenergie e nucleare, avendo presente che gli investimenti dovranno essere effettuati prioritariamente in Cina, India, nei paesi del Sud-Est asiatico, in Brasile, Messico e Sud Africa.

La combinazione di standard tecnologici globali con l’individuazione di un obiettivo medio di emissioni pro capite connesso alla organizzazione di un mercato globale dei crediti di carbonio potrebbe consentire il superamento della situazione di empasse del negoziato internazionale sui cambiamenti climatici ormai bloccato dal 2000 e avviare la svolta tecnologica necessaria per vincere la sfida della riduzione delle emissioni.

Queste linee strategiche negoziali sono già state ripetutamente discusse in diversi contesti, a cominciare dal “G8 allargato”, ma non hanno mai assunto il ruolo di proposta formale. E a Bali sono state solo oggetto di dibattito “a latere”, in occasione di molti eventi collaterali. Tuttavia, nonostante il carattere informale, esse sono al centro della riflessione strategica delle istituzioni finanziarie internazionali, di banche private, di grandi imprese. Sarebbe ora che l’Unione europea le facesse diventare proposta negoziale, sostenuta da coerenti misure interne nel mercato unico. E l’Italia ha la grande occasione di giocare un ruolo di primo attore, rilanciando queste linee come prossimo presidente del G8.