Grandezza e miseria delle biblioteche

Di Luciano Canfora Venerdì 08 Maggio 2009 18:12 Stampa

La drammatica situazione in cui versano le biblioteche italiane è principalmente il frutto degli interessi corporativi e della scarsa lungimiranza dei diversi soggetti coinvolti nella loro gestione: bibliotecari in senso stretto, con le loro organizzazioni di categoria, politici, strutture universitarie. L’attuale situazione non lascia sperare in un miglioramento in tempi brevi.

Il tema dell’attuale situazione delle biblioteche è talmente doloroso che sta diventando di cattivo gusto parlarne in toni addolorati. Studiosi competenti, e civilmente vigili, come Tullio Gregory, ne hanno scritto spesso. Sembra ormai che si tratti di uno dei numerosi problemi insolubili del nostro paese, al pari della scuola o del miglioramento degli studi universitari. È infatti passato il tempo, che potremmo definire “monistico”, in cui i detentori di proposte propugnate con molta forza (i «Weltreformer», avrebbe detto Pasquali) immaginavano di poter dar vita ad un vero miglioramento – di questo o quel problema – se soltanto le loro proposte si fossero affermate. Costoro non trovano più ascolto, anche perché il carattere dominante è il “settorialismo”. Ci sono infatti, nel nostro tempo, gruppi, cerchie, ambienti, settori, “gilde” ecc., ciascuno con una forte dose di interessi e problemi settoriali, la cui idea generale da affermare è, per lo più, ritagliata per l’appunto sulla forma mentis e sulle pulsioni del gruppo promotore. Questo fenomeno è diffuso: non vale solo nel campo bibliotecario (di cui qui discorriamo).

Se si considera la realtà bibliotecaria, che già di per sé non è affatto unitaria (biblioteche nazionali, civiche, scolastiche, universitarie, ecclesiastiche ecc.), conviene prendere atto che ci sono, e hanno vigore, molti e diversi “punti di osservazione”. E molti sono i soggetti chiamati in causa: i bibliotecari, con tutte le loro suddivisioni interne e le loro organizzazioni di categoria e il loro spirito di corpo; gli utenti; le autorità politiche (nazionali e locali) da cui quelle realtà dipendono; le strutture universitarie che le contengono (o perché le comprendono o perché le ospitano). Già questa considerazione mostra quale pluralità di idee intorno al “bene comune” della realtà bibliotecaria ci sia da aspettarsi.

Da tempo ormai, per molti bibliotecari sembra che il fine principale della biblioteca sia quello di organizzare mostre (non importa di cosa, spesso incentrate su ricorrenze trascurabili o su celebrazioni di personalità di seconda o terza fila), magari inutili e a stento visitate, ma corredate di cataloghi, alla cui confezione il bibliotecario dedica il meglio di sé. Il servizio al pubblico, l’aggiornamento del patrimonio, la rapidità del servizio, l’ampliamento dell’orario grazie ad opportuni turni ecc., passano in secondo piano, anzi non lo interessano affatto. Il pubblico è “sopportato” e per lo più trattato come un minorenne: un sintomo di ciò è il diffuso malvezzo dei bibliotecari di parlare a voce alta nelle sale di lettura, nelle quali peraltro si concede spesso ai lettori di conversare a loro volta tra loro e si chiude un occhio sui telefoni cellulari. Si potrebbe dire altro su questo influente e risentito gruppo di operatori. Osserviamo solo che tra le loro istanze modernizzatrici (tra cui campeggia l’informatizzazione concepita come un feticcio, uno status symbol) non figura mai la proposta di ampliare gli orari di apertura, magari per conformarsi a modelli più nobili e ben noti (francese e tedesco). Non trascuriamo poi il peso negativo delle gerarchie sindacali.

Venendo ai poteri politici: di solito – ma a torto – si guarda unicamente al ministero dei Beni culturali, cui si attribuisce (è molto comodo!) ogni disfunzione, dimenticando che esso è solo un ingranaggio in una macchina molto più grande. E soprattutto si dimentica che molte biblioteche dipendono da altri poteri; e che, comunque, altri poteri si trovano ad avere un notevole peso anche per quel che attiene alle biblioteche statali.

Si vuole qui fare qualche esempio, tratto dall’esperienza diretta di chi scrive. Come forse non è generalmente noto, il capoluogo della Puglia vide, grazie forse anche all’influenza politica di Moro, la propria biblioteca consorziale “Sagarriga-Visconti-Volpi” trasformarsi in biblioteca nazionale. Si trattava di un dono alla città, ma anche di una grande responsabilità. Era, anche, una forzatura, poiché la norma instauratasi in Italia comportava che le biblioteche nazionali nascessero nelle ex capitali degli Stati pre unitari (Venezia, Milano, Torino, Firenze, Roma, Napoli), ma Bari non era mai stata investita di tale ruolo in nessuna fase della sua storia (persino il breve Regno del Sud, sotto tutela alleata, ebbe sede a Brindisi). Tale biblioteca è stata a lungo ubicata all’interno del Palazzo dell’Università: difficile la convivenza, con il crescere – quasi fisiologico – di entrambe le istituzioni. Per mancanza di spazio la biblioteca aveva persino interrotto l’aggiornamento delle collezioni di stampa quotidiana. Finalmente, dopo mezzo secolo e grazie alla bravura del direttore della Biblioteca nazionale di Napoli “prestato” ad interim, nel 2004 ebbe luogo il trasferimento della biblioteca nei nuovi e ben più ampi e appropriati locali. L’unico problema era che tali locali si trovavano in posizione decentrata. Il rischio era quindi di avere una biblioteca nuova ma quasi vuota. Invano da quattro anni si attende un migliore collegamento della biblioteca con il centro della città: l’amministrazione cittadina – nonostante la profusa retorica democratica – ha finora ignorato il problema. Questo è un caso tipico del fenomeno evocato poc’anzi: un potere politico esterno riesce a nuocere all’istituzione bibliotecaria quantunque essa non ne dipenda direttamente.

Entra poi in scena un altro soggetto: il Palazzo dell’Università è di proprietà dell’amministrazione provinciale. Trasferitasi altrove la biblioteca, i locali ormai vuoti dovevano tornare all’Università per usi bibliotecari (le biblioteche umanistiche sono stracolme). Vi era ogni buona disposizione da parte della Provincia e ogni interesse da parte dell’Università a trarre profitto da questa situazione. Perché tutto si è fermato? Per la resistenza passiva della dirigenza bibliotecaria che paventa ogni cambiamento: corporativismo a sfondo sindacale. Ecco un altro potere forte. Di fatto invincibile. Si potrebbe seguitare. Ma ne vale la pena? Ciascuno dei soggetti sin qui evocati, se interpellato, farà valere le sue ragioni. Il democratico sindaco dirà che ci sono «altre priorità» (e a giugno le elezioni). I sindacati insorgeranno a difesa dei bibliotecari immobilisti osservando che già fanno il loro lavoro ordinario (ma senza la collaborazione di studenti part-time le biblioteche universitarie chiuderebbero).

Non ha dunque senso sperare in un miglioramento in tempi ragionevoli. A Parigi, fatta la “Très Grande Bibliothèque” a Tolbiac, era già pronta una linea ad hoc della metropolitana (la linea 14); e ora ne è stata approntata anche una seconda (RER linea C). I francesi sono forse un popolo superiore? No. Semplicemente non hanno le nostre inarrestabili metastasi sindacal-politiche.