Sistemi elettorali e crisi della rappresentanza politica

Di Gaetano Azzariti Giovedì 28 Febbraio 2008 22:51 Stampa

I sistemi elettorali vigenti, ma anche le proposte di riforma attualmente discusse, rischiano di accentuare la distanza tra ceto politico e opinione pubblica. Appare invece necessario introdurre modifiche al sistema elettorale che riaffermino il ruolo decisivo di una rappresentanza politica effettiva. A tal fine diventa urgente uscire alla retorica della governabilità “ad ogni costo”, che domina la riflessione sui sistemi elettorali in Italia, per interrogarsi con maggiore impegno sul ruolo del rappresentato e sul collegamento con il rappresentante. È bene, inoltre, abbandonare sistemi elettorali troppo artificiali e complessi, le cui alterazioni degli esiti del suffragio non avvicinano l’eletto, ma neppure il governo, al corpo elettorale.

Il dibattito attuale sui sistemi elettorali appare sbilanciato. Concentrato com’è sul riferimento ai modelli (spagnolo, tedesco, francese, danese ecc.) e sui calcoli delle convenienze delle singole parti in causa, rischia di non cogliere l’orizzonte di senso e di valore entro cui le pur legittime istanze vanno iscritte. Riflettere sui sistemi elettorali, infatti, vuol dire pensare – anzitutto – la qualità della rappresentanza politica e le forme effettive della democrazia. Non solo dunque un metodo per stabilire chi deve ricoprire cariche pubbliche di vertice, ovvero una tecnica di traduzione dei voti in seggi, ma anche – soprattutto – un mezzo per legittimare il ceto politico definendo la relazione concreta tra elettori ed eletti. In una democrazia di tipo rappresentativo le modalità di selezione dei rappresentanti del corpo elettorale riguardano il fondamento stesso su cui si regge la convivenza sociale, oltre a costituire la legittimazione specifica e sostanziale su cui si fonda la comunità politica.

Questo orizzonte, importante e profondo, appare appannarsi sino a confondersi, compresso in un variopinto panorama di proposte di così alta tecnologia, delicata alchimia e complessa composizione, che finiscono per far smarrire il senso del proprio valore. Traendo in inganno. In ogni caso, infatti, le leggi elettorali portano con sé – necessariamente – una certa visione della democrazia e delle sue forme, una specifica visione dei legami tra elettori ed eletti, comunque costitutive di un particolare rapporto tra governanti e governati, e diventa perciò doveroso farlo emergere con chiarezza. Anche perché la torsione tecnocratica e di convenienza che ha assunto il dibattito sui sistemi elettorali finisce ormai per alimentare la disaffezione di molti dalla politica. Mostrare l’essenza che collega i sistemi elettorali alla democrazia, i principi ideali che sorreggono l’agire politico (anche, ma non solo, in materia elettorale), appare tanto più necessario in un tempo di accresciuta distanza tra il palazzo e la piazza, di reali rischi di una chiusura della politica nelle logiche deboli dell’autorappresentazione (il “teatrino della politica” tante volte evocato e stigmatizzato), ma anche di una parallela e simmetrica chiusura della società civile entro una logica di egoismo solipsistico (che troppo spesso ormai assume il volto collettivo dell’antipolitica nelle diverse forme dell’indifferenza o dello sberleffo, comunque inquietanti o impotenti).

D’altronde, se i processi sociali che hanno eroso i rapporti tra eletti ed elettori, tra politica e società, sono tanti e complessi, non può negarsi che una spinta in direzione di questa malaugurata china sia stata data proprio dalle leggi elettorali che si sono succedute e di cui ancora si parla. Si intende qui brevemente illustrare perché alcune previsioni delle leggi elettorali vigenti, ma anche di quelle ipotizzate per il futuro, hanno favorito – e rischiano di accentuare ulteriormente – il distacco tra la politica e il corpo elettorale, con la non taciuta intenzione di invitare a tenere in maggiore considerazione le questioni di principio, ritenendo prioritario definire un sistema elettorale che – al di là dei modelli e delle tecniche – si ponga in controtendenza rispetto al grande freddo che sembra oggi calato tra elettori ed eletti. In sintesi, ponendosi alla ricerca del senso e del valore della rappresentanza politica.

Già il numero eccessivamente elevato di metodi prescelti per l’elezione dei diversi organi della rappresentanza genera confusione e appare esprimere un volatile ancoraggio nella scelta dei principi da parte del politico. Sette diverse modalità di voto (in realtà un numero superiore, se si considerano le normative specifiche delle Regioni a statu- to speciale) per eleggere i componenti la complessa rete di organi elettivi (Parlamento europeo, Camera, Senato, Regioni, Province, Comuni con più di 15.000 abitanti e Comuni sino a 15.000 abitanti) non si spiegano. Mentre può essere giustificato – in alcuni casi, necessario – differenziare il metodo dell’elezione per gli organi politico-rappresentativi secondo le funzioni che essi esercitano, meno comprensibile risulta la diversità dei sistemi elettorali per quegli organi che sono sostanzialmente assimilabili. Così, finché permane il pur criticato bicameralismo perfetto, l’eterogeneità dei sistemi elettorali della Camera e del Senato non appare ancorata a solidi argomenti e la diversità di risultati (clamorosa nell’attuale legislatura, ove a una solida maggioranza politica in un ramo del Parlamento si affianca un paralizzante equilibrio tra i due schieramenti nell’altro ramo) non appare sorretta da alcuna giustificazione logica, politica o istituzionale, ma è il puro prodotto di tecniche distorsive dei risultati elettorali. La stessa – debole, per la verità – indicazione costituzionale che impone una composizione a base regionale del Senato, non riesce a trovare alcun adeguato sostegno. In effetti, è apparso a tutti chiaro che l’attuale sproporzione negli equilibri politici tra i due rami del Parlamento nulla ha a che fare con l’auspicato collegamento territoriale del Senato, ma è esclusivamente il prodotto di un’irragionevole e casuale distribuzione dei seggi operata da una legge elettorale schizofrenica (i diversi premi regionali, in contrasto tra loro, che la legge Calderoli impone, sono apertamente una contraddizione in termini, come ormai – a cose fatte – tutti riconoscono). Si può pertanto ragionevolmente sostenere che la non-maggioranza al Senato, a fronte della solida maggioranza alla Camera, è il frutto di un “capriccio” normativo (la roulette dei premi regionali) e che solo per puro caso fortuito (gli inaspettati risultati dei collegi esteri) non si è prodotto un risultato ancor più drammatico, con due diverse maggioranze nei due rami del Parlamento; ma ciò anziché consolare deve altamente preoccupare. Se si esce infatti da una logica strettamente e astrattamente politicistica (che può far ritenere si sia comunque conseguita una – purchessia – maggioranza politica, condizione necessaria e sufficiente per governare), ci si avvede che le incomprensioni dell’opinione pubblica e il distacco che essa mostra nei confronti della politica trovano un loro fondamento, intrecciandosi con la ragione di fondo della debolezza del sistema politico odierno: la torsione tecnocratica dei principi della rappresentanza e l’oscuramento delle sue ragioni ideali e di sistema.

Ma la perdita delle limpide ragioni della rappresentanza politica e la sostituzione con una perversione tecnocratica cui è difficile assegnare un valore sostanziale appare prescindere da ogni esigenza di legittimazione sociale e sembra rinvenire la sua giustificazione esclusivamente in esigenze particolari dei soggetti politici. Un offuscamento della rappresentanza che riguarda anche altri principi caratterizzanti la “filosofia” dell’ultima legge elettorale, approvata dal Parlamento per dettare le regole della propria ricostituzione.

Eclatante è il caso delle soglie previste per accedere alla ripartizione dei seggi. La soglia di sbarramento – com’è noto – rappresenta una classica misura il cui scopo è quello di ridurre la frammentazione, una previsione che opera nei sistemi proporzionali selezionando in “entrata” le forze politiche, imponendo a queste un grado rilevante di rappresentatività, ma permettendo almeno di non alterare l’esito del voto e la distribuzione dei seggi in “uscita”. Dopo aver superato l’ostacolo, infatti, ciascun soggetto politico ottiene seggi in proporzione ai suffragi conseguiti (sebbene ulteriori distorsioni siano prodotte dai sistemi di conteggio dei voti e in particolare dal modo in cui si procede alla divisione dei resti). In via di principio, dunque, un sistema idoneo a razionalizzare le forme di governo parlamentare alternativo a quello dei premi alle liste ovvero alle coalizioni. I “premi”, infatti, alterano l’esito in “uscita” al fine di rafforzare artificialmente i competitori che pur non ottenendo una maggioranza assoluta di suffragi vengono premiati consegnando loro alcuni seggi necessari per ottenere ugualmente la maggioranza numerica all’interno dell’organo politico-rappresentativo; una misura per assicurare in ogni caso la governabilità e l’esistenza di una sicura maggioranza. Se si vuole evitare il rischio di una competizione elettorale completamente falsata da meccanismi distorsivi è bene scegliere tra alterazione in “entrata” o in “uscita” (vi sarebbe poi una terza ipotesi: quella di evitare ogni alterazione, ma non è il caso qui di parlarne). Purtroppo, l’ansia della governabilità, che la situazione di debolezza politica ha prodotto negli ultimi anni e che è alla base della stagione del bipolarismo coatto che ancora stiamo vivendo, ha fatto abbandonare ogni cautela, e oggi la regola dei diversi sistemi elettorali è la sommatoria di premi e sbarramenti. Con l’ultima legge elettorale si è però raggiunta una palese insensatezza. Non è infatti stata stabilita una soglia minima per accedere al riparto dei seggi, ma un numero incalcolabile di soglie, per una serie inesprimibile di casi. Non si ha qui neppure lo spazio per illustrare l’intricatissimo caleidoscopio che è stato progettato e che assume le sue diverse configurazioni secondo i voti riportati: dalle singole liste, dalle coalizioni, dall’esito che queste ultime conseguono a livello nazionale, in considerazione anche dei risultati raggiunti dalle liste che fanno parte della coalizione medesima, variando altresì la soglia per le liste nel caso queste si presentino sole o in coalizione, diversi ancora i criteri per tutelare le minoranze linguistiche. Non soddisfatti del caos, si è ritenuto persino di dover istituire un premio per il “miglior perdente”, ossia quella lista che pur non avendo raggiunto nessuna soglia (inferiore al 2% alla Camera), partecipa comunque al riparto dei seggi. Al Senato tutto viene poi riproposto in ciascuna Regione. Qual è la logica di tutto ciò? Se si ragiona in base ai principi della rappresentanza politica, si direbbe nessuna. Se invece si ragiona tenendo in religiosa considerazione l’attuale composizione del panorama politico e le più inconfessate convenienze, tutto può essere compreso: ad ogni soglia di sbarramento può affiancarsi il nome del gruppo politico a favore del quale è stata progettata. Se le soglie devono servire per escludere gli interessi (nonché le forze politiche che li rappresentano) ritenuti marginali, l’attuale disciplina appare configurarsi come una legislazione in frode ai principi.

Il dato più allarmante è però ancora un altro. Per quanto infatti possa alterarsi l’esito della competizione elettorale tramite gli strumenti distorsivi d’entrata e d’uscita (abitualmente utilizzati, in Italia però disinvoltamente abusati), l’essenza e il valore di un sistema elettorale in un paese democratico è rappresentata dal diritto degli elettori di scegliere essi direttamente gli eletti. Se questo viene meno, ciò che si pone in discussione non sono le forme e i limiti dell’esercizio della sovranità popolare, ma la soggettività giuridica e politica del cor- po elettorale come tale. La stessa legittimazione diretta dei rappresentanti da parte del “popolo sovrano” rischia di non trovare più il suo aggancio reale, riducendo la rappresentanza politica ad una «crassa finzione» (per riprendere un’espressione di Hans Kelsen). Pur non volendo drammatizzare, volendo però comprendere dove si nascondono le radici della delegittimazione politica e la distanza progressiva che separa gli elettori dagli eletti, i cittadini dai partiti, si deve constatare che la retorica del popolo sovrano, che ha caratterizzato gli anni alle nostre spalle, alla fine ha consumato lo strappo più profondo del diritto di scelta degli eletti. Partiti dall’esigenza di avvicinare l’eletto all’elettore (sia con l’esclusione del voto di lista con preferenza plurima sostituito dalla preferenza unica, sia con i collegi uninominali) si è giunti alle liste bloccate, che sembrano una sorta di inversione nel rapporto tra elettori ed eletti: ora è l’eletto (il partito di appartenenza per esso) a scegliere l’elettore. Assegnando un potere in sostanza assoluto ai partiti sui candidati, che possono essere inseriti nella lista in un ordine prestabilito e presentati in collegi definiti, con la certezza dell’elezione ovvero sicurezza della sconfitta (se troppo in basso nella lista). Una stagione che – dopo Tangentopoli e la crisi dei partiti – si annunciava propensa a ridurre il peso degli apparati, si è invece conclusa con le liste bloccate, formate dalle segreterie dei partiti, senza alcuna possibilità di incidere sulla composizione parlamentare da parte degli elettori, né prima (nella formazione delle liste), né durante (con la preferenza al candidato entro una pluralità di scelte di lista o di collegio), né dopo (con l’esito, scontato per quanto riguarda i candidati, rimanendo il voto utile solo per i partiti o le coalizioni). I membri parlamentari eletti con la vigente legge elettorale, più che rappresentanti della nazione, risultano espressione diretta dei partiti: rappresentanti di questi e da questi scelti, non invece dal corpo elettorale la cui volontà si è espressa esclusivamente con il voto alla lista o alla coalizione. La trasformazione dei rappresentanti del popolo in rappresentanti dei partiti riassume il percorso compiuto e la crisi profonda in cui versa la rappresentanza, tutta ormai rinchiusa entro la sfera circoscritta della politica. Se si è consapevoli dei rischi che si corrono al permanere in una situazione di progressivo distacco della società politica dalla società civile, diventa necessario e urgente interrogarsi su cosa fare per uscirne. Nello specifico, si tratta di valutare le proposte di modifica dei sistemi elettorali in base al seguente criterio: quanto le diverse misure favoriscono la riespansione di un’effettiva rappresentanza politica o quanto, invece, contribuiscono alla permanenza entro una logica di autorappresentazione del ceto politico. Prendendo in considerazione le ipotesi di modifica del sistema elettorale di Camera e Senato avanzate in questo periodo, si ha l’impressione che alcune di queste potrebbero finire – forse – per conseguire lo scopo agognato della governabilità ad ogni costo, ma a scapito di un ulteriore aggravamento dei rapporti tra elettori ed eletti. Un costo che appare eccessivo per un sistema autenticamente democratico, un’operazione ad alto rischio. Senza poter qui prendere in esame singolarmente le tante – troppe – ipotesi in continua riformulazione da parte dei diversi soggetti politici e istituzionali, può indicarsi almeno il principio guida che dovrebbe indirizzare il legislatore consapevole della gravità della crisi della rappresentanza politica: alla retorica della governabilità dovrebbe sostituirsi la considerazione dei poteri del rappresentato. Si smetta di andare alla ricerca di modelli elettorali sempre più distorsivi, i quali rendono la volontà popolare strumento per la definizione di maggioranze politiche, ma non sociali (per di più maggioranze politicamente del tutto innaturali). Dovrebbe ormai essere chiaro che in tal modo non solo si allontana sempre più l’elettore dal suo rappresentante, ma non si riesce neppure ad avvicinare il corpo elettorale al governo, divenuto quest’ultimo sempre più espressione di alchimie tra partiti disomogenei e privi di un organico e comune indirizzo politico. Si vada, invece, alla ricerca del sistema che riesca a dare il maggior peso specifico alla volontà dell’elettore, garantendo una legittimazione particolare e diretta tanto al partito quanto al rappresentante.

Reso più stretto il vincolo con l’elettore, anche la scelta del governo troverà una sua composizione lineare e di maggiore omogeneità d’indirizzo politico. In fondo è la forma di governo parlamentare fissata nella Costituzione a stabilire una successione logica e concettuale: legittimazione diretta del Parlamento e dei suoi membri, organo indirettamente rappresentativo il governo. La scelta dei rap- presentanti, dunque, viene prima di quella del governo. Una regola aurea delle democrazie pluraliste e rappresentative (di quelle parlamentari, s’intende), che la debolezza della politica ha fatto spesso dimenticare, ma non ultima tra le cause che hanno proiettato la politica nel suo instabile e temibile isolamento dalla società. Riscoprire la rappresentanza politica diventa ormai urgente per la sopravvivenza della politica, ma anche per quella della società e del rappresentato.

Non può omettersi – a conclusione di queste note – una valutazione di quella prospettiva che in questa fase condiziona l’intero dibattito politico: c’è l’immediata e concreta possibilità che il nuovo sistema elettorale sia introdotto non per scelta parlamentare, bensì per via referendaria. Nella prospettiva che si sta qui percorrendo, l’ipotesi che risulterebbe dall’esito del referendum proposto da Mario Segni e Giovanni Guzzetta appare peggiorare la già non felice situazione. Com’è noto, due delle tre richieste sottoposte ad appello popolare tendono ad assegnare il premio, non più come avviene attualmente alla coalizione di partiti che ottiene il maggior numero di voti, bensì all’unico soggetto politico che presentatosi alle elezioni in una lista consegue il migliore risultato relativo. Molte fondate critiche sono state avanzate sia sul piano della costituzionalità del sistema proposto, con riferimento all’assenza di una soglia minima per ottenere il premio; sia sul piano più propriamente politico, con riferimento all’imposizione di un bipartitismo coatto (se i partiti maggiormente rappresentativi si presentassero agli elettori da soli in lista) ovvero di un trasformismo coatto (se – com’è più probabile – la volontà di ottenere il premio producesse “listoni” all’interno dei quali ciascun soggetto politico trovasse un suo spazio). Dal punto di vista che si va qui sviluppando, tuttavia, è un altro pericolo quello che si vuole denunciare. Il timore è che l’adozione di un sistema elettorale quale quello che deriverebbe dal ritaglio operato dall’abrogazione referendaria finirebbe per accentuare il distacco tra società civile e ceto politico. Concedere infatti a una sola lista un premio di maggioranza abnorme all’esclusivo fine di assicurare in ogni caso la maggioranza dei seggi a un solo soggetto politico, rimanendo per di più indifferente se questo sia il frutto di una lista espressione di un unico partito ovvero di un listone espressio- ne di un insieme multiforme politico-partitico, appare una spericolata forzatura contro natura. Non è con l’alta ingegneria istituzionale che potrà prodursi l’auspicato riavvicinamento tra elettori ed eletti. Vero è l’inverso.

Il premio alla lista attribuito al più abile competitore elettorale, cui si consegna la maggioranza dei seggi in Parlamento, ma anche il governo del paese (tutta la posta in palio, dunque), incoraggerebbe comportamenti perversi. Non è difficile immaginare, infatti, che non essendo determinante la conquista di un suffragio esteso, potendo conquistare la maggioranza parlamentare anche solo per le divisioni altrui e non per forza propria, alla lista si apre ogni possibilità di tatticismo politico. Liste le quali non hanno in fondo più bisogno di un’effettiva legittimazione popolare, ma solo di vincere sul piano della tattica e della tecnica, della furbizia e dell’immagine. Cosa poi si celi dietro la maschera della lista, un limpido partito o solo un leader carismatico, un manager consumato o un poeta visionario, più partiti divisi o più lobby potenti, amici sodali o nemici opportunisti, non è dato sapere, sarà il “giuoco” della politica e delle alleanze a definirlo di volta in volta sulla base di calcoli pre-elettorali, rimessi al libero arbitrio dei soggetti politici, che non saranno sempre trasparenti. Per chi punta a una riduzione della distanza tra ceto politico e opinione pubblica non sembra un gran successo, bensì ancora un drammatico passo indietro. Chi scrive crede sia un’altra la via da seguire: quella che va alla ricerca del fondamento reale della rappresentanza. Può dirsi, invero, che è il terzo quesito proposto nel referendum, quello ritenuto marginale, l’unico ad avanzare in questa direzione. Impedire, infatti, a uno stesso leader di essere candidato in più collegi, per poi – dopo le elezioni – lasciarlo libero di stabilire quale collegio scegliere (anziché essere scelto) e a chi lasciare il posto, può essere considerato un passo, per quanto piccolo, verso una maggiore presa in considerazione del rapporto effettivo tra chi elegge e chi è eletto. Vero è però che tramite lo strumento referendario non si aggredisce nessuno dei nodi di fondo che hanno finito per disegnare una normativa elettorale che promuove l’autoreferenzialità del sistema politico. L’esito vittorioso dei referendum non cancellerebbe le liste bloccate, che rimarrebbero come una pietra miliare a segnare la via dell’abban- dono di ogni legittimazione diretta e personale dei singoli rappresentanti del popolo; non proporrebbe una normativa in grado di porre al suo centro l’idea di restituire la dignità perduta a quel sovrano sempre evocato, ma spesso manipolato, a quei cittadini che – come dispone la nostra Costituzione – hanno diritto di concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale. La nostra Costituzione indica anche lo strumento affinché tale diritto sia esigibile: i partiti politici. Ai partiti politici spetta realizzare un sistema di rappresentanza politica di carattere inclusivo. Si potrebbe iniziare approvando in Parlamento un sistema elettorale semplice e comprensibile agli occhi dell’opinione pubblica, meno distorsivo e più rappresentativo. Si finirebbe per scoprire che anche la governabilità ne trarrebbe giovamento.