Anatomia politica dei ventitré giorni di Gaza

Di Renzo Guolo Lunedì 16 Febbraio 2009 13:53 Stampa

Il conflitto israelo-palestinese in corso, come acca­de sempre dopo ogni conflitto, non lascerà immu­tati gli equilibri politici e militari nell’area. Per ana­lizzare i mutamenti che esso produrrà può essere opportuno esaminare le posizioni dei diversi attori in campo e le motivazioni che li hanno indotti ad op­tare per determinate scelte strategiche piuttosto che per altre. 

Al di là dei suoi esiti, la guerra tra Israele e Hamas, come ogni guerra, muta sensibilmente il quadro mediorientale, e non solo. Un conflitto non lascia mai immutati gli equilibri politici e militari e le percezioni collettive che lo hanno preceduto. Per analizzare questi mutamenti non è esercizio retorico cercare di comprendere – sia pure con i limiti che possono derivare da un’analisi compiuta a caldo, visto che il momento in cui scriviamo è quello delle ore della proclamazione della tregua unilaterale – da un lato le motivazioni che hanno indotto i diversi attori in campo a optare per determinate scelte strategiche, dall’altro le conseguenze “irriflesse” – non meditate ma altrettanto importanti di quelle razionalmente prese in considerazione durante i processi decisionali – prodotte dalla guerra. Comprensione che, in un conflitto come quello israelo-palestinese, da tempo giocato anche sull’immagine globale dei contendenti, può essere letto come una sorta di gioco degli specchi. Un meccanismo iperirreale che rimanda a un’immagine “vera” quanto il suo inverso, che, proprio per questo, scatena in chi riesce a gettare uno sguardo al di qua o al di là dello specchio, una sorta di eisoptrofobia: la paura degli specchi, di quello che le immagini rivelano, che genera tentazione di fuga o violenza distruttiva.

 

L’azzardo di Hamas

Cosa si proponeva Hamas con la fine della tahdia, la calma o tregua breve, già incrinata dai razzi sul Negev di Ezzedin al Qassam, il braccio militare del movimento islamista palestinese? Con la campagna di lanci Hamas sembrava mirare, più che alla ripresa delle ostilità su larga scala, a sancire un nuovo equilibrio politicomilitare a condizioni più favorevoli: l’obiettivo era l’attenuazione del blocco economico che strangola Gaza e la riapertura dei valichi, in particolare quello di Rafah. Hamas, o almeno la sua direzione politica esterna rifugiata a Damasco, era convinta che, in vista dell’imminente scadenza elettorale, nessun leader politico israeliano avrebbe pagato il prezzo legato a un attacco su larga scala; né, tanto meno, avrebbe dato il via a una nuova occupazione della Striscia. Ai “duri” la situazione politica a Gerusalemme sembrava interdire una massiccia risposta militare. Un errore di valutazione che ha rimosso l’imperativo alla sicurezza israeliano e l’ansia di Gerusalemme di recuperare, dopo lo scacco libanese, quella deterrenza che, in Medio Oriente più che altrove, si regge sul fattore psicologico oltre che sulla capacità militare. Un fattore che, dopo il ritiro unilaterale da Gaza voluto da Sharon e la guerra con Hezbollah del 2006, sembrava giocare pesantemente a favore degli islamisti. Lo stesso errore compiuto dal “Partito di Dio” quando, con la sanguinosa imboscata a una pattuglia di Tsahal, scatenò la “guerra dei 33 giorni”: anche allora il movimento di Nasrallah non si aspettava una reazione così dura da parte di Israele.

Un azzardo, quello di Hamas, anche perché, proprio in vista delle elezioni anticipate, nessun leader israeliano poteva dimostrarsi debole di fronte alla minaccia costituita dal lancio dei razzi su città e villaggi di frontiera. Né la Livni, insidiata a destra dal suo principale concorrente, il leader del Likud Netanyahu, né tanto meno Barak che, oltretutto, proprio tra i kibbutz del Negev, divenuti bersaglio dei Qassam, ha parte della sua base elettorale. Eppure l’errore c’è stato, frutto anche delle divergenze interne al gruppo islamista, diviso tra i fautori della rinegoziazione della tregua – tra i quali vi erano anche i pragmatici fautori dell’accettazione di uno Stato palestinese nei confini del 1967, oltre a quanti pensavano che si potesse trasformare la tahdia in hudna, una tregua di lungo periodo che può dilatarsi o meno nel tempo, a seconda dei rapporti di forza, senza per questo rinnegare il principio ideologico e religioso della cancellazione dell’“entità sionista” dal Medio Oriente – e un’ala, quella dei duri, che pensava fosse giunto il momento, contando sull’asse con i radicali iraniani di Ahmadinejad e l’Hezbollah libanese di Nasrallah, di mettere in difficoltà Israele costringendolo a subire un’agenda imposta da altri, anche a costo di un conflitto che poteva essere comunque disastroso per Hamas e per i palestinesi di Gaza, ormai sempre più insofferenti verso un’esperienza che non riusciva a soddisfare i bisogni minimi della popolazione, stretta tra il blocco israeliano e la necessità di procurarsi da vivere attraverso il termitaio dei tunnel di Rafah. Dentro Hamas si guardava con preoccupazione al crescente interesse della popolazione di Gaza per il “modello cisgiordano”, caratterizzato, dopo il colpo di Stato nella Striscia, da un certa crescita economica e da una relativa pace interna, prospettiva che tendeva sempre più a divaricare i diseredati della Striscia dalla borghesia di Ramallah e delle altre città oltre la Linea Verde, storicamente simpatizzanti con i nazionalisti di Fatah. L’ala dura di Hamas, che fa capo a Meshal, ha scelto di rilanciare la partita armata perché riteneva propizio il quadro politico e militare esterno, perché crescevano le difficoltà interne a Gaza, perché vedeva allontanarsi la prospettiva di un’efficace azione politica in Cis - giordania, dove Fatah aveva liquidato con la forza l’organizzazione. La leva militare doveva permettere al movimento di riprendere un ruolo anche nella West Bank, facendo perno sull’orgoglio nazionalista palestinese davanti alla possibile reazione israeliana. Lo stupore emerso quando Israele ha reagito con forza devastante al lancio dei Qassam e i “fratelli” di Cis - giordania non si sono mobilitati contro l’attacco, rendendo vano l’appello di Meshal per una terza Intifada, è rivelatore dell’incapacità di Hamas di leggere il mutamento intervenuto del quadro interno e regionale. L’intensità dell’attacco ha obbligato l’organizzazione a fare delle scelte. A partire dalla considerazione che, sostanzialmente, Hamas si è ritrovata sola nei frangenti della guerra. Ne l’Iran, nonostante gli infuocati proclami contro i sionisti, né Hezbollah potevano fare scelte che conducessero a uno scontro aperto con Israele. Gli interessi iraniani e quelli di Hezbollah, impegnato nell’ascesa al cielo del potere libanese, impedivano l’andare oltre una solidarietà politica. Significativa, anche simbolicamente, è la fatwa emanata dall’ayatollah Khamenei che ha vietato ai volontari reclutati, sia pure propagandisticamente, dagli ambienti dei radicali vicini a Ahmadinejad di andare a combattere il jihad in Palestina. L’Iran è impegnato a risparmiare energie, risorse, armi, per poter eventualmente far fronte a un conflitto, come quello sul nucleare, che può mettere a rischio la stessa sopravvivenza del regime. Una prospettiva che i trasversali nemici di Ahmadinejad, accusato di voler affermare il primato della rivoluzione sulla nazione, mettendo quest’ultima a rischio, aborrono, impegnati come sono nel tentativo di rendere stabile nel tempo il regime e di affermare un riconosciuto ruolo di potenza regionale all’Iran. Quanto a Hezbollah, il suo leader Nasrallah ha messo sull’avviso gli israeliani, ricordando loro che la guerra del 2006 sarebbe stata, a confronto, una semplice «passeggiata nel parco» qualora avessero attaccato il Libano. In realtà nemmeno il “Partito di Dio” aveva interesse ad attizzare un nuovo conflitto; tanto più dopo aver vinto, politicamente, il braccio di ferro sul governo, del quale Hezbollah è ora parte integrante. Una solitudine accentuata, per diversi motivi, dal ruolo giocato dall’Egitto al confine meridionale di Gaza. Chiudendo il confine, Mubarak non solo ha impedito una via di fuga alla popolazione civile palestinese obbligata a una circolare fuga senza sbocco – evitando di farsene carico in futuro come pure vorrebbero gli israeliani, liberati a quel punto degli obblighi verso la popolazione della Striscia deri-vanti dallo status di potenza occupante – ma ha impedito la ricostituzione, sia pure parziale, dell’arsenale militare di Hamas, privandolo così di quel sostegno logistico di cui, grazie al retroterra siro-iraniano, aveva invece goduto Hezbollah nei momenti più difficili dello scontro con Tsahal. Una linea, quella di Mubarak, che mirava anche a indebolire all’interno i Fratelli musulmani, dei quali Hamas è la branca palestinese.

Consapevole di non avere la forza o il retroterra del “Partito di Dio” e di non possederne l’armamento, l’addestramento, tanto meno di essere affiancato sul campo dai consiglieri “militari” iraniani che hanno guidato gli islamisti sciiti libanesi nella guerra dei bunker del 2006, di fronte alla colata di “Piombo fuso” Hamas ha puntato a resistere il più possibile, anche a prezzi immani per la popolazione civile, in modo tale da affermare che la «resistenza all’entità sionista» non ha ceduto. È quest’ultima, infatti, condizione essenziale per garantire la sopravvivenza a un’organizzazione che ha fatto della cancellazione di Israele dalle carte geografiche del Medio Oriente il cuore del proprio messaggio ideologico.

Così, dopo che Israele è passato dalla “guerra dell’aria” alla “guerra di terra”, Hamas ha arretrato la linea del fronte all’interno delle città, cercando di coinvolgere Tsahal in una battaglia casa per casa in aree ad altissima densità di popolazione. Una tentativo di trasformare la Striscia in una sorta di piccola Stalingrado in riva al Mediterraneo, nella quale la superiorità militare degli assedianti fosse attenuata da scontri tra macerie, cecchini, attentati suicidi, trappole di mine, armi controcarro, cattura di ostaggi, il pericolo del fuoco amico: una prospettiva rischiosa, che mirava a infliggere perdite elevate agli israeliani, obbligati in quel caso dalla lunghezza delle operazioni a schierare in massa i riservisti, bersagli ideali nel tentativo, come già accaduto in Libano, di far vacillare il fronte interno del nemico.

Una trappola in cui Israele non è caduto, evitando di penetrare in profondità nei centri urbani e proseguendo la guerra aerea, scelta che, nonostante i durissimi colpi subiti, ha permesso al gruppo islamista di evitare l’annientamento della leadership politica e salvaguardare una residua operatività di quella militare. Per Hamas era essenziale che un’eventuale tregua, unilaterale o meno, non apparisse come il risultato di una sconfitta sul campo. La sua leadership conta, infatti, sulla possibilità di riacquistare, a breve, posizioni e consenso attraverso l’ala sociale del movimento, la stessa che ha consentito la sua crescita. I danni di guerra sono enormi, e per riportare il tutto a una parvenza di normalità, Hamas conta di riconquistare cuori e menti della popolazione esercitando un ruolo decisivo nella ricostruzione, facilitata dalle donazioni e dai fondi che verranno dalle charities islamiche, in particolare quelle dei ricchi paesi del Golfo, e attraverso il suo collaudato welfare religioso. Riconquista che punta anche sul dilagante odio verso Israele, cresciuto fra la popolazione dopo il moltiplicarsi degli attacchi ai civili – che ha prodotto una strage di bambini e di donne – e alle moschee, ritenute da Tsahal luoghi in cui il gruppo nascondeva i suoi arsenali.

Il cuneo stretto di Abu Mazen

La memoria del golpe che ha estromesso l’ANP dal potere nella Striscia, la resa dei conti che ha visto Fatah dare la caccia agli islamisti a Gaza e Hamas braccare i seguaci di Abu Mazen in Cisgiordania anche durante le tre settimane di guerra ha reso ancora più critici i già difficili rapporti tra le principali fazioni palestinesi. All’inizio del conflitto Fatah non è sembrata dolersi troppo della dura lezione che Hamas stava subendo ma, con l’intensificarsi dei bombardamenti e il vertiginoso aumento delle vittime tra la popolazione, diventava impossibile non schierarsi, pena la totale delegittimazione, a fianco dei “fratelli di Gaza”. Oltretutto, durante la guerra, Abu Mazen ha visto scadere il suo mandato presidenziale mentre la situazione imponeva lo scivolamento delle elezioni. Inoltre, più si intensificava il conflitto più diventava chiaro che l’ANP non poteva tornare a Gaza al seguito dei Merkava. L’ANP ha così cercato di pesare, scommettendo sulla trattativa egiziana, spingendo per un accordo che salvaguardasse la popolazione civile senza per questo omettere le responsabilità nel conflitto di Hamas; strategia tesa a precostituire le condizioni di un futuro ritorno a Gaza in condizioni di maggiore forza politica e legittimità, dopo l’evidente indebolimento di Hamas; strategia che la tregua unilaterale, voluta da Israele, ha vanificato, rinviandone l’effettività a un futuribile accordo di pace sancito internazionalmente.

 

Il “Piombo fuso” di Israele

L’operazione “Piombo fuso” era stata preparata da tempo. Il fallimento della campagna libanese, sancito anche dal Rapporto Winograd, che ha messo impietosamente in luce gli errori e la mancanza di pianificazione di quel conflitto, ha indotto le autorità politiche e militari israeliane a prepararsi per tempo a uno scontro sul fronte meridionale, per cancellare la vergogna del Libano e per non doversi mai più chiedere, alla fine di un conflitto, chi abbia vinto. Nemmeno la tregua di sei mesi raggiunta nel giugno del 2008, che pure metteva temporaneamente fine alle ostilità tra Hamas e Israele riprese nel febbraio precedente, aveva interrotto la preparazione dell’incandescente “colata”. La previsione era che Hamas non intendesse rinnovare la tregua, tanto che nel novembre 2008 Tsahal ha attaccato al confine di Gaza un nucleo di Ezzedin al Qassam sospettato di preparare il rapimento di soldati israeliani. Nell’accettare la tregua Israele aveva comunque precisato che, pur non intendendo effettuare operazioni di vasta portata, si riservava il diritto di condurre attacchi su bersagli specifici qualora fosse stata minacciata la sua sicurezza. Da quell’episodio è iniziata un’escalation fatta di attacchi di razzi, che Hamas nega di aver compiuto e poi rivendicati dalla Jihad islamica, dalle Brigate dei martiri di al Aqsa e dai Comitati di resistenza popolare. Lanci ai quali Israele ha risposto con la reintroduzione di uno stretto embargo e con incursioni di commando in edifici sospettati di occultare i tunnel dai quali possono agire i miliziani di Ezzedin al Qassam.

Dopo l’infelice parentesi di Peretz, avere Barak alla Difesa significa per Tsahal contare su una guida meno malleabile a ogni richiesta dei militari, ma anche un ministro che, per biografia, comprende le necessità di chi combatte. Da qui il via libera alla massiccia campagna aerea che, nell’intento di mettere fuori gioco la struttura militare di Hamas, non mira solo a minimizzare le perdite in un’eventuale operazione di terra ma a dare dimostrazione della concreta applicazione della Dottrina Dahya, dal nome del quartiere sciita di Beirut raso al suolo nel 2006 nell’intento di mostrare a quale rischio si espone chi attacca Israele. I raid hanno anche l’obiettivo di produrre il progressivo distacco della popolazione palestinese da Hamas. Rientrano in questa logica il lancio di volantini, le telefonate che invitano preventivamente a sgomberare edifici che stanno per essere colpiti, e che producono, in chi li riceve, la sensazione di essere controllati da un “panopticon” nemico in grado di tutto vedere e sapere. Il tutto in un contesto di guerra psicologica che si combatte accanto a quella sul campo e che mira a riversare su Hamas la responsabilità di quanto accade.

Scartata l’idea di occupare nuovamente la Striscia, rientrando nella trappola da cui Sharon era uscito, opzione dai costi umani, finanziari e politici enormi, la strategia di Barak punta a ristabilire innanzitutto il potere di deterrenza di Israele, incrinato, dal punto di vista politico e comunicativo se non militare, dalla fallimentare guerra con Hezbollah; a mutare i rapporti di forza al confine meridionale, indebolendo radicalmente Hamas; a imporre una nuova tregua di lungo periodo fondata su condizioni più favorevoli. Rovesciare Hamas è un esito che può sortire dagli sviluppi sul terreno, ma non è ritenuto né prioritario né realistico da Barak, convinto che l’organizzazione goda ancora di consenso nella Striscia e che, dunque, abbattere il governo golpista di Haniyeh e sostituirlo con una leadership legata alla decomposta ANP di Abbas, sia prematuro. L’essenziale è che la guerra induca la popolazione prima a premere su Hamas perché accetti una nuova tregua, poi ad addossare la colpa di un conflitto senza sbocchi agli islamisti.

Esito, quello del rovesciamento, visto invece con favore, almeno inizialmente, dal ministro degli Esteri Livni, pressata a destra dal suo principale rivale politico, il leader del Likud Netanyahu, sino alla vigilia della guerra favorito nelle elezioni anticipate di febbraio, e soprattutto dallo stesso Olmert, ormai prossimo all’uscita di scena ma impegnato a salvare l’onore politico macchiato dall’infelice campagna libanese e, forse, le sue stesse sorti personali, affidate ormai alle vicende giudiziarie che lo coinvolgono. Le diverse aspettative dei leader politici influiranno molto sulle scelte del gabinetto di guerra.

Nell’attacco a Gaza, il più massiccio dopo il 1967, due dei tre membri della troika politica composta da Barak, Livni e Olmert si giocano il futuro. Barak, addirittura, la carriera politica. La sua esperienza nel governo Olmert, segnata dai continui scontri con il premier e da tatticismi spregiudicati, è stata oggetto di pesanti critiche a destra e sinistra. La determinazione mostrata nell’assalto all’Hamasland, scelta che nell’immaginario collettivo israeliano sembra cancellare l’umiliazione della guerra non vinta con Hezbollah, gli permette di recuperare consenso. Anche la Livini appare molto determinata, anche se la sua posizione alla guida della diplomazia le permette di cogliere i pericoli di isolamento internazionale che Israele correrebbe se “Piombo fuso” dovesse dilatarsi nel tempo. Ciò che differenzia la nuova leader di Kadima da Barak è semmai il ruolo che dovrà esercitare la comunità internazionale dopo la fine delle operazioni e il tipo di scelte che dovrebbero seguirne.

Come spesso accade in Israele, un ruolo decisivo nel processo decisionale è svolto dai vertici degli apparati militari e di sicurezza. Qui la troika è composta dal nuovo capo di Stato Maggiore delle Forze armate Ashkenazi, dal capo dello Shin Bet, Diskin, da quello del Mossad, Dagan. Pur evitando di assumere atteggiamenti alla Halutz e rispettando la catena di comando politico-militare, Ashkenazi è contrario a un impegno in profondità a Gaza. Il capo di Tsahal è consapevole del tempo, delle risorse, dei costi umani necessari per attuarlo, e lascia trasparire la sua preferenza per la strategia di Barak. Il capo del servizio segreto interno, che da sempre fa intelligence nei Territori, appoggia invece la decisione di Olmert di sferrare un colpo decisivo ad Hamas attraverso l’operazione di terra.

È questo difficile equilibrio all’interno della doppia troika che impone una continua discussione sulle scelte da prendere. La più difficile riguarda la necessità di superare l’impasse in cui Israele si trova dopo aver vinto, data la sua incontrastata superiorità nei cieli, la guerra dell’aria. Pesanti bombardamenti possono cancellare le infrastrutture di Hamas, ridurne notevolmente la capacità militare, ma non annientare l’organizzazione. Come Hezbollah, Hamas non è un piccolo gruppo militarizzato, ma un movimento di massa con un’ala armata. Per sconfiggerlo occorre scendere dal cielo e penetrare lo spazio ostile che presidia. Barak è consapevole che un simile radicamento non si cancella con gli Apache e gli F16. E poi, chi dovrebbe gestire il potere nella Striscia dopo l’eventuale caduta del governo Haniyeh? Forse l’ANP di Abu Mazen, liquidato a Gaza non solo dalle canne del fucile del potere islamista ma dal crescente malcontento popolare? Un simile governo può reggere oggi solo dopo che Tsahal abbia rioccupato Gaza, liquidato fisicamente il gruppo dirigente di Hamas, posizionato i Merkava appena al di qua della recinzione della “gabbia”, pronti a intervenire al primo scontro tra fazioni palestinesi. L’ipotesi di tornare a Sharon prima di Sharon è, dunque, esclusa. L’obiettivo resta una tregua di lungo periodo. Una tregua, quella auspicata da Barak, a precise condizioni: la cessazione dei lanci su Israele e degli attacchi al confine del- la Striscia, la chiusura definitiva dei tunnel che portano in Egitto e permettono il contrabbando di armi, un efficace meccanismo di controllo del valico di Rafah da parte dell’Egitto, magari con la supervisione di intelligence degli Stati Uniti, il rilascio del soldato Shalit. Anche a rischio che l’accordo venga interpretato propagandisticamente dall’Iran come una nuova vittoria islamica, dopo quella di Hezbollah, contro “l’entità sionista”. Per il ministro della Difesa, la tregua deve essere preferibilmente garantita internazionalmente e deve indurre nel tempo la formazione di un governo palestinese di unità nazionale, retto, però, da rapporti di forza favorevoli a Fatah. Ipotesi diversa da quella della Livni, fautrice di una calma di fatto che consenta a Israele massima flessibilità nell’azione e nessun vincolo esterno dato dalla presenza di forze internazionali ai confini di Gaza e la possibilità di rispondere militarmente a nuovi lanci di Katyusha o Grad. Un accordo, rivolto alla necessità di contrastare il terrorismo, che in questa versione significa essenzialmente fermare il traffico d’armi tra Hamas e Iran, va semmai stabilito con gli Stati Uniti.

Nell’avviare l’operazione di terra, Israele deve tenere conto del fattore tempo. Se troppo breve, l’intervento può apparire una sorta di spettacolare, quanto poco efficace, spedizione punitiva. Se protratto nel tempo è destinato a far aumentare il numero delle vittime, con il rischio di veder diminuire o far venire meno il consenso della comunità internazionale, che nella fase iniziale del conflitto ha prima puntato l’indice contro Hamas, ritenuto responsabile della crisi, poi, con l’aumento delle vittime tra i civili, in particolare tra i bambini e le donne, lo ha rivolto contro Israele, che non fermava l’attacco di fronte a una catastrofe umanitaria ufficialmente negata ma innegabile. Il fattore tempo diventa decisivo perché fa salire esponenzialmente il rischio di isolamento internazionale del paese, sempre più evidente negli ultimi giorni di guerra. Troppa la potenza di fuoco usata da Tsahal, anche nell’intento di proteggere le vite dei propri soldati e garantire l’unità di quel fronte interno divenuto il lato debole del finale di partita libanese. Nonostante i cittadini israeliani esprimano un massiccio sostegno alla guerra, con un consenso che rasenta l’80%, e apprezzino in particolare il comportamento del ministro della Difesa, Barak, “Piombo fuso” deve cessare prima che Obama si insedi ufficialmente alla Casa Bianca. Il parziale mutamento di rotta degli Stati Uniti all’ONU, culminato nell’astensione sul cessate il fuoco al Palazzo di Vetro dopo aver esercitato in precedenza il diritto di veto, è stato colto immediatamente. Un simile segnale non può essere ignorato, così come l’accusa, rivolta dal segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-Moon, di «uso sproporzionato della forza» e l’invito ad aderire al cessate il fuoco. Nonostante la presenza di molti filoisraeliani nella nuova Amministrazione, Israele non può permettersi di offrire come dono iniziale a Obama una crisi senza sbocchi. Del pieno appoggio di Obama Israele avrà bisogno quando verrà affrontata la scomoda presenza in scena del convitato di pietra delle due ultime guerre per procura, quella libanese e quella di Gaza: l’Iran. Allo stesso tempo Israele deve innescare una corsa contro il tempo che consenta di raggiungere un accordo con gli Stati Uniti teso a contrastare la fornitura di armi iraniane a Hamas. Accordo sancito poi dall’incontro tra la Livni e la Rice a Washington nelle ore precedenti alla fine del conflitto. Il fattore tempo è legato ai possibili dividendi politici e militari dell’operazione. A voler spingere sino in fondo “Cast Lead”, con l’obiettivo di distruggere Hamas, è a un certo punto il solo Olmert. Le differenze tra Barak e la Livni riguardano più che l’opzione della tregua, la sua cornice: se debba essere o meno garantita internazionalmente. Il ministro della Difesa pensa di sì; quello degli Esteri ritiene di no, puntando a un accordo di fatto che consenta a Israele di rispondere con ancora più forza a eventuali violazioni, senza osservare i vincoli previsti da un accordo internazionale, e non offra troppo spazio all’Egitto. Entrambi i leader sanno che, in questa fase scandita dall’imminente chiamata alle urne, l’importante è far cessare i lanci. Dopo le elezioni ci sarà tempo per adottare strategie di lungo respiro.

L’obiezione a portare sino in fondo la resa dei conti con Hamas non è data solo dallo scorrere del fattore tempo e dai costi umani dell’operazione, ma anche dalla preoccupazione che nella Striscia, priva di un centro politico di riferimento, possa svilupparsi una sorta di sindrome somala che la trasformi in un luogo dove regna incontrastato il caos. Spazzata via Hamas e impossibilitata a tornare Fatah sui cingoli dei tank, il rischio è quello di assistere alla decomposizione di ogni forma d’autorità, situazione nella quale potrebbe trovare spazio anche al Qaeda. Sino alla vigilia della guerra, i tentativi quaedisti di radicarsi nell’area sono sostanzialmente falliti. Il carattere islamo-nazionalista di Hamas, così come quello panislamsita pro-iraniano della Jihad islamica, organizzazioni che hanno monopolizzato in chiave nazionale il tema del jihad, hanno ostacolato un simile esito. Anche se a Gaza sono giunti, attraverso i tunnel o condotti dai beduini del deserto, alcuni elementi jihadisti sauditi e maghrebini. La rotta di Hamas potrebbe favorire la penetrazione di al Qaeda. Non è casuale che il redivivo Bin Laden, sempre critico verso la scelta degli islamisti palestinesi di partecipare a quelle elezioni che pure ha vinto, poiché ritenute forma di idolatria che osa sostituire la sovranità popolare a quella divina, abbia fatto sentire la sua voce, dopo molti mesi di assenza, nel gennaio 2009, per chiamare al jihad in Palestina. Un deciso tracollo di Hamas offrirebbe la possibilità di fare rifluire nelle fila dei piccoli nuclei qaedisti di Gaza e nel Sud del Libano la componente più radicale dell’organizzazione sopravvissuta all’azione di Tsahal.

L’altro fantasma è quello iraniano. Alcuni ambienti israeliani ritengono inevitabile, prima o poi, lo scontro con l’Iran, ritenuto la sola e vera minaccia strategica nella regione: tanto vale, dunque, che lo si affronti il prima possibile. Soprattutto prima che Teheran disponga del nucleare militare. Altri ambienti sono più prudenti: la mancanza di copertura americana a un raid sulle centrali, negata dalla stessa Amministrazione Bush, è un’eventualità che consiglia maggiore prudenza. Vi è poi chi ritiene essenziale, per esplorare strade diverse da quelle militari, sgomberare il campo almeno dalla presenza di Ahmadinejad. Prospettiva che sino a qualche settimana prima della guerra sembrava probabile. In Iran si discuteva allora prevalentemente di crisi economica e prezzo della benzina, calcando la mano sulla disastrosa politica economica governativa. Gaza ha favorito lo spostamento dell’attenzione verso i temi di politica estera, alimentando la mobilitazione dei radicali che dalle tensioni internazionali e dalle campagne contro il “Grande e piccolo Satana”, Stati Uniti e Israele, hanno sempre tratto giovamento, mobilitazione che può influenzare l’esito delle elezioni presidenziali di giugno. Ahmadinejad ha subito rilanciato la sua durissima polemica antisionista, chiedendo di portare i leader israeliani dinanzi alla giustizia internazionale per crimini di guerra.

 

Le tensioni nel mondo arabo e in quello islamico in Europa

La guerra mette in difficoltà il mondo arabo, sottoposto, come sempre in simili circostanze, a particolari tensioni che si riverberano nei complicati rapporti interni tra regimi e movimenti di opposizione. L’effetto più eclatante sul piano statale è la spaccatura della Lega araba, emersa dal mini vertice di Doha, nel quale la Siria, legata a un patto politico e militare con l’Iran, ha dichiarato definitivamente morta l’iniziativa araba del 2002 proposta dall’Arabia Saudita e adottata allora dalla Lega araba, fondata sul riconoscimento di Israele in cambio della creazione di uno Stato palestinese. Assad inviterà i paesi arabi a interrompere i rapporti diplomatici con Israele, definito, con toni che rieccheggiano quelli di Ahmadinejad, «una forma di nazismo contemporaneo». Un vertice al quale regimi tradizionalmente alleati dell’Occidente come Egitto, Giordania e Arabia Saudita risponderanno convocando un altro summit in Kuwait con Abu Mazen. I paesi arabi filoccidentali sono comunque in difficoltà. Si augurano che Hamas, e soprattutto il suo grande protettore iraniano, ricevano un duro colpo, ma non possono ignorare che le loro opinioni pubbliche, di fronte agli effetti della guerra, si sono spostate, dopo i primi giorni di attesa, decisamente a favore di Hamas. Così in Iraq il governo, dominato dalla componente sciita, ha denunciato il «regime assassino» e lo stesso ayatollah Sistani, mai tenero con il khomeinismo per ragioni teologiche e politiche, definisce quello israeliano un «attacco sanguinario» e invita i leader dei paesi islamici a fermare l’aggressione. La Turchia, che pure ha sempre avuto ottimi rapporti politici e militari con Gerusalemme, afferma con il premier Erdogan che Israele dovrebbe essere bandito dalle Nazioni Unite per aver ignorato la richiesta del Consiglio di Sicurezza sul cessate il fuoco. Una posizione che, anche per pressione dei militari, garanti della collocazione occidentale del paese e dell’appartenenza alla NATO, sarà poi sfumata, ma che rispecchia comunque il segno delle tensioni che attraversano i paesi della Mezzaluna legati all’Occidente. Anche l’Egitto, che ha partecipato attivamente alla trattativa tra Hamas e Israele, non nasconde l’irritazione per la decisione di tregua unilaterale preferita da Israele, che ridimensiona il ruolo e la strategia di Mubarak in quella circostanza. Tensioni, quelle interne al mondo islamico, che preoccupano gli americani, assai sensibili a quanto avviene nell’area, e che pone interrogativi all’Amministrazione Obama, decisa a verificare direttamente la possibilità di sciogliere, senza un taglio gordiano, gli intricati nodi che aggrovigliano la regione.

Inoltre, come mai era accaduto in passato, il conflitto si è riverberato con forza in Europa, sempre più popolata da cittadini o immigrati musulmani. Le manifestazioni di giovani islamici che hanno attraversato le città europee non sono piaciute affatto ai governi, che temono una radicalizzazione delle comunità che vivono nel Vecchio continente e la possibilità che si creino problemi di sicurezza. Manifestazioni che, al di là delle condanne ufficiali, inducono inevitabilmente i governi, con l’evidente eccezione italiana, ad assumere atteggiamenti più attenti al proprio interesse nazionale che a quello di Israele. Significative sono le posizioni sul conflitto assunte da Brown e Sarkozy, leader di paesi caratterizzati da una rilevante presenza islamica. Il presidente francese, non certo assimilabile a un leader antisraeliano, dirà che l’intervento militare di Israele nella Striscia non garantisce la sicurezza allo Stato ebraico e non realizza gli obiettivi per cui è stata intrapresa.

 

Obiettivi raggiunti?

La difficile trattativa condotta con la mediazione egiziana non si è risolta nell’accordo che, forse, avrebbe garantito un esito migliore di quello sfociato nel cessate il fuoco del 18 gennaio 2009. La decisione israeliana di proclamare una tregua unilaterale, che rimanda a quella, foriera di problemi, di Sharon di ritirarsi unilateralmente da Gaza restituendola ai palestinesi, premia la linea Livni, ostile a un coinvolgimento internazionale, e non penalizza quella di Barak, contrario a portare la guerra di terra dentro le città. Nel proclamare vittoria Olmert dirà che Hamas è stata pesantemente indebolita, ma non si può dire sconfitta. Ha perso leader politici e militari di primo piano, il suo arsenale si è notevolmente ridotto, ma continua a controllare Gaza. Il suo obiettivo era quello di resistere un minuto in più di Israele, quello di lanciare, come ha fatto, un ultimo razzo dopo l’annuncio israeliano, per dimostrare che non si è piegato e che la resistenza continua. Una condizione essenziale per dichiarare, come puntualmente avvenuto, la propria vittoria. Solo dopo aver simbolicamente rivendicato tale esito, ha anch’esso pronunciato una tregua unilaterale. Quanto a Israele, è stato obbligato a cessare il fuoco dalla sua sconfinata supremazia militare e dalla sua parallela debolezza politica esterna. La deterrenza è stata ristabilita, ma a un prezzo molto alto.

Le cause del conflitto restano immutate. Solo una trattativa che conduca, finalmente, a un accordo finale che preveda accanto a Israele l’esistenza di uno Stato palestinese degno di tal nome potrà progressivamente superarle. Per fare questo, occorre fare vere concessioni all’ANP. Hamas potrà essere battuta solo politicamente e un simile esito avrà buone probabilità di riuscita se Abu Mazen, o chi per esso, potrà mostrare ai palestinesi che la politica di moderazione paga. A meno che qualcuno, in quel gioco di specchi che rinvia a doppie immagini e doppie verità, non ritenga preferibile convivere con una doppia debolezza, non pensi sia meglio che Gaza e Cisgiordania siano governate da due forze nemiche, in modo che si possa evitare per lungo tempo di affrontare in tutti i suoi aspetti, dai confini al nodo di Gerusalemme, la questione dello Stato palestinese. Sarebbe un calcolo miope, destinato a produrre nuove catastrofi.