Il valore di un'esperienza

Di Giuliano Amato Giovedì 28 Febbraio 2008 22:30 Stampa
La Fondazione nacque dieci anni fa con l’esplicito intento di valorizzare il contributo della cultura socialista nella costruzione del riformismo necessario ai nuovi tempi. Ciò voleva dire contrastarne la chiusura entro i vecchi confini e aprirla da un lato alla dimensione europea e al rapporto con le culture democratiche e progressiste extraeuropee (a partire dai democratici americani), dall’altro al concorso degli altri filoni del nostro riformismo in vista di una prospettiva comune. Non a caso nel 2001 il primo numero del bimestrale “Italianieuropei” si aprì con un scambio di lettere, “Caro Massimo”, “Caro Giuliano”, nel quale Massimo D’Alema ed io, partendo ciascuno dalla propria storia, cercavamo di cogliere le coordinate di un futuro nel quale avrebbero perso senso le tradizionali contrapposizioni interne alla famiglia socialista. Mentre l’anno dopo scrivemmo insieme una lettera aperta al Partito Socialista Europeo, pubblicata sul numero 4/2002 della rivista, invitandolo a dar vita alla casa comune dei riformismi europei. «Il nome della nuova famiglia poco importa – scrivemmo fra l’altro – perché la forza delle nostre idee di socialisti non è nel richiamo di un nome, ma nella nostra capacità di tradurre in realtà gli ideali da cui siamo animati». Oggi si è realizzata buona parte del percorso che auspicavamo. È nato in Italia il Partito Democratico e il Partito europeo ha già espresso il suo convinto consenso a poter divenire il partito dei socialisti e dei democratici europei. In seguito a questo importante avvenimento ci siamo chiesti se avesse ancora un senso la nostra Fondazione, se, in altre parole, la sua missione non dovesse considerarsi compiuta. E abbiamo concluso che non è così e che proprio per costruire il futuro comune serve ancora richiamarsi ai nostri valori e avvalersi degli stessi errori che segnano il nostro passato.

Condividiamo con i riformisti cresciuti nel mondo cattolico, con i liberal democratici progressisti, con i democratici di tutto il mondo, il progetto di un nuovo mondo pacifico, nel quale sia consentito ad ogni essere umano di progettare e costruire la propria vita liberamente. È, se volete, il progetto che costruirono per sé i ceti borghesi europei nel corso del XVIII secolo, che nel secolo successivo e poi nel Novecento si allargò ai ceti proletari delle società industriali e che oggi è penetrato e sta penetrando in ogni essere umano che viva una vita grama in ogni parte del mondo. C’è in un tale progetto la forza forse più incoercibile del nostro tempo, la forza del principio di eguaglianza, ma in contesti culturali e politici diversi essa può essere imbrigliata o incanalata verso sbocchi tragicamente diversi da quelli a cui dovrebbe portare, dalle dittature populiste alle follie ideologiche e operative dell’estremismo terrorista. Perché è proprio questo il punto. Gli esseri umani hanno sempre vissuto la loro aspirazione all’eguaglianza come aspirazione ad eguale libertà, ma la storia ha troppo spesso disconnesso, e troppo spesso continua a disconnettere libertà ed eguaglianza, presentandole e gestendole come un impossibile ossimoro. Noi dobbiamo alla nostra storia, alla storia dei nostri successi e dei nostri errori, la profonda e irrevocabile consapevolezza che non è così e che il progetto, semplice e grande, che unifica gli uomini, realizza l’eguaglianza puntando sulla libertà e dilatandone i confini, senza sbandamenti né da una parte né dall’altra. Per questo la nostra mano sulla barra è una mano che, certo non da sola, continua a servire.

Permettetemi un breve excursus, nel quale non potrò non riprendere cose già dette e scritte in altre occasioni (ma il nuovismo su certi temi non sempre aiuta). La storia socialista parte da utopie e ideologie che avevano disancorato l’eguaglianza dalla libertà. E a farlo non era stato soltanto il comunismo, erano state le stesse utopie che esso aveva alle spalle. Insomma, il XIX secolo aveva radicato l’idea che per costruire l’eguaglianza servisse un assetto che realizzasse fra i consociati un pari trattamento imposto dall’alto. E quando arrivò il comunismo, esso dette a quell’idea una valenza ancora più forte, perché la innestò su una analisi scientifica dei fatti passati, che pretese di generare una analisi scientifica degli stessi fatti futuri. Con ciò si attribuì la guida verso il futuro a coloro che conoscevano le regole a cui risponde il corso della storia, nella convinzione che, non facendo errori, essi avrebbero portato là dove c’era la libertà per tutti.

Avremmo imparato a nostre spese che non è così, che il corso della storia non è figlio di regole, ma è figlio di azioni e interazioni fra esseri umani, che lo orientano in un senso o nell’altro a seconda degli spazi di libertà di cui gli uni e gli altri dispongono. La libertà dopo il processo non arriva, se non c’è stata libertà durante il suo svolgimento. E nessun risultato è garantito a priori, il che significa che la storia non pretende da chi ne interpreta le potenzialità che applichi un metodo scientifico, pretende piuttosto che pratichi l’etica della coerenza con ciò che proclama.

Sin qui la lezione che abbiamo imparato dall’ideologia e dall’esperienza del comunismo. Ma attenti, anche le esperienze che abbiamo costruito sull’humus della socialdemocrazia nell’Europa occidentale hanno molto unilateralmente fatto perno sull’eguaglianza in quanto parità di trattamento gestita dall’apparato pubblico, piuttosto che come risultante di scelte e di assunzioni di responsabilità rese possibili a ciascuno. Del resto i nessi fra comunismo e socialdemocrazia, che portano alle burocrazie come dispensatrici presunte di eguaglianza, sono stati autorevolmente illustrati (basti pensare a Massimo Salvadori).

In breve, negli ultimi decenni del Ventesimo secolo giungono, ciascuno per conto suo ma insieme, il crollo del comunismo e l’esplosione delle diseconomie, delle entropie e della insostenibilità finanziaria del welfare burocratico di stampo socialdemocratico. A questo punto il pendolo della storia passa dal lato opposto e parte un’onda liberista che predica e pratica la libertà sconnessa dall’eguaglianza. È un’onda che appare per più versi liberatrice, che mette il pubblico alla frusta, che ne ridimensiona gli spazi, che offre spazio invece a investimenti prima dormienti e al rischio, che rimette in circolazione principi e valori dotati di un merito indiscusso.

Ma grazie alla sua forza unilaterale e squilibrante, anche il bisogno del pubblico come regolatore viene contestato; lo stesso antitrust, essenziale per mantenere al mercato la sua indole di arena della libertà economica e non di preda dei poteri privati, viene ridimensionato come un’intrusione. E l’esclusione sociale cessa di essere problema, o almeno è tale solo per la sua vittima, su cui incombe la responsabilità di risolverselo da sola. Sappiamo tutti, inoltre, che l’ondata liberista si è verificata proprio in un tempo nel quale essa per di più ha coinciso, o forse meglio ha contribuito a quel gigantesco sviluppo che porterà il nome di globalizzazione; un gigantesco sviluppo in ragione del quale l’economia esce dal possibile controllo delle istituzioni raggiungendo dimensioni sovranazionali dove con gran fatica si riesce a farla lambire dalle regole che prima ne evitavano le esorbitanze.

Ecco emergere allora prepotente il bisogno di una gestione bilanciata dei due termini dell’ossimoro. Ed ecco il bisogno della cultura politica di chi, come noi, ha imparato dalle dure lezioni della storia quanto quei due termini siano coessenziali l’uno all’altro. Noi sappiamo ormai che il liberismo ha dentro di sé la tensione, che deve essere anche nostra, verso la promozione della libertà, ma sappiamo anche che ritenere l’eguaglianza un effetto indotto destinato a venire da solo significa costruire la libertà dei pochi, non quella dei tanti. Perché per dare concretezza alla libertà dei tanti c’è bisogno di meccanismi di allocazione d di risorse che sono diversi da quelli richiesti dalla libertà dei pochi. Allo stesso tempo, sappiamo che nelle regole che si adottano, nelle modalità di allocazione di risorse che si favoriscono, nelle azioni che si compiono, occorre tenersi a distanza dalle architetture che mettono a repentaglio la libertà, che anziché mettere ciascuno nella condizione di assumere la responsabilità del proprio futuro, lo sottopongono a un angelo custode pubblico, trasformando insomma ogni idea buona in una nuova e pesante struttura burocratica. E mai ricadere nell’antica ubris: io sono più intelligente del mercato, posso fare meglio di lui. Se così è, comporre in modo equilibrato i termini del nostro ossimoro significa uscire con coraggio dai breviari su cui sinotticamente venivano allineati in passato gli strumenti necessariamente di sinistra e quelli necessariamente di destra. E richiede che si misurino ex novo tali strumenti sul metro della libertà eguale, della libertà per i tanti e non per i pochi, che essi possono alimentare. Permettetemi due esempi eloquenti. In materia previdenziale, una volta accettato che la previdenza obbligatoria non può più provvedere da sola a tutto e che occorrono al suo fianco i fondi complementari, non è di sinistra dare la preferenza ai fondi chiusi o a quelli gestiti dall’Inps perché li si considera meno privati e più vicini al pubblico e/o ai sindacati. L’interesse dei lavoratori è molto meglio servito da una sana concorrenza fra i fondi esistenti, dando loro la possibilità di scegliere e creando così lo stimolo essenziale a rendere i fondi più efficienti e a tagliare i costi che pesano poi sui trattamenti erogati. Allo stesso tempo, non c’è logica concorrenziale che possa servire ai lavoratori tanto discontinui o dal reddito così basso, da non avere risparmi da accantonare in un fondo integrativo. A questi, e a questi soltanto, la previdenza pubblica deve provvedere integralmente e sarebbe un delitto che, nei loro confronti, la pensione non includesse una componente solidaristicoredistributiva. È in questo senso che ha corretto precedenti riforme quella messa a punto dal governo Prodi.

Il secondo esempio lo offre il tema delle retribuzioni. Sappiamo tutti che in questi anni di globalizzazione si è venuta progressivamente riducendo la quota della ricchezza prodotta destinata ai salari, mentre è simmetricamente cresciuta quella del capitale. È una tendenza difficile da contrastare, perché l’impresa, per rimanere competitiva, deve ridurre i costi che gravano sul prodotto, ed è poi il prodotto venduto a prezzi competitivi che la fa guadagnare. Il povero Cipputi è così in una morsa: se pretende e ottiene di più, diviene responsabile del fallimento dell’impresa, che non ce la fa più a vendere. Se si accontenta di un salario che permette al prezzo del prodotto di battere la concorrenza, l’impresa aumenta i profitti e lui deve fare le acrobazie per sopravvivere. Ma quando ci vogliamo decidere ad organizzare il suo accesso ai profitti, visto che è a quello stadio che ci sono soldi da spartire? Certo, c’è un margine di rischio. Ma c’è anche un margine di guadagno che la contrattazione del salario, per definizione, non può includere. Tant’è che già oggi diverse imprese, scavalcando e quindi indebolendo i sindacati, si sono messe sulla strada delle elargizioni unilaterali una tantum. Per Maometto, ingabbiato nella strettoia dei costi, è tempo di andare alla montagna dei profitti. E non è una montagna di destra.

C’è infine un altro terreno sul quale oggi siamo chiamati a cimentarci, ed è quello della libertà e dell’eguaglianza che riusciamo ad assicurare ai tanti che stanno venendo a vivere nei nostri paesi, arrivando da paesi più poveri, da culture diverse, da costumi sociali diversi. È stato, in questi venti mesi di governo, uno dei nostri impegni principali e ho percepito personalmente quanto esso andasse a toccare profili nevralgici di quel progetto di liberazione dall’ineguaglianza che si è diffuso nel mondo di oggi. Come ministro dell’Interno, avevo la responsabilità di difendere la mia comunità nazionale dalla criminalità che è penetrata nei nostro confini e avevo anche quella di difendere gli immigrati da quella criminalità che con atroce cinismo li spinge in mare illegalmente verso le nostre coste. Ma dovevo stare bene attento a tracciare una chiara linea di confine tra la lotta alla criminalità straniera e il riconoscimento dei “diversi” venuti fra noi, che criminali non sono. E dovevo farlo non solo perché è elementarmente giusto che sia così, ma anche perché alcuni errori da parte nostra ai fini di quel riconoscimento, uniti allo spazio che troppo spesso lasciamo ai nostri pregiudizi a danno di chi arriva, possono tragicamente alimentare la convinzione che solo attraverso il conflitto, al limite solo attraverso l’adesione a ideologie estreme, si può ottenere il proprio spazio nel mondo.

C’è qui quanto basta, e forse più di quanto basta, per rimettere l’uno contro l’altro i termini del vecchio ossimoro, secondo moduli ancora più laceranti di quelli conosciuti dalla nostra storia. E ancora una volta, per scongiurare il rischio, occorre muoversi al di fuori dell’unilateralismo di schemi e breviari datati. Rispettare e accettare le diversità non significa rispettarle e accettarle tutte, significa casomai che noi dobbiamo abbandonare i nostri pregiudizi e che altri devono abbandonare i loro, rinunciando in tal modo alle diversità che esprimono le loro arretratezze e i loro tabù.

Ci abbiamo provato nei mesi scorsi e che il nostro lavoro sia rimasto a metà è motivo di profonda amarezza. Avremmo voluto che indipendentemente dalla acquisizione della cittadinanza le donne musulmane venissero protette in famiglia contro le angherie di maschi, padri e mariti padroni, che in più casi sono arrivati a segregarle e a punirle con violenza. Avremmo voluto che i loro bambini nati in Italia diventassero per ciò stesso cittadini italiani, così come avviene in tanti paesi del mondo, a partire dagli Stati Uniti. Avremmo voluto che in un paese come il nostro, in cui sono rilevanti forme di occupazione temporanea e precaria, l’espulsione degli immigrati non fosse la prima conseguenza della perdita del lavoro. Così come avremmo voluto che quando un immigrato commette una violazione amministrativa fosse trattato alla stessa stregua degli italiani e non, quindi, come un criminale per quella sola ragione. Solo una piccola parte dei nostri propositi ha potuto realizzarsi e questo è un male. D’altro canto, la loro stessa realizzazione sarebbe stata poco più dell’inizio di un cammino che è ancora largamente davanti a noi, il cammino di società che solo ora stanno davvero diventando multietniche e che devono attrezzarsi per reggere all’urto di questa loro nuova natura. E indipendentemente da chi governerà l’Italia nei prossimi anni, noi, in ruoli diversi, dovremo comunque esercitare la nostra parte di responsabilità per evitare che, in nome di libertà e di eguaglianze ritenute incomponibili, sia lo scontro di civiltà a segnare i rapporti internazionali e gli stessi rapporti interni alle società in cui viviamo.

È importante dunque che davanti al futuro sappiamo essere noi stessi, così com’è innegabile che in diverse situazioni dalle quali siamo usciti male e con difficoltà, ciò è accaduto perché non lo siamo stati abbastanza. Anche per questo è bene che la Fondazione Italianieuropei rimanga. Attraverso di essa potremo aiutarci ad essere meglio noi stessi.