Tolleranza

Di Saverio Ricci Martedì 23 Dicembre 2008 12:55 Stampa
Il termine tolleranza viene in uso in Europa a partire dal XVI secolo, derivando, nelle maggiori lingue del continente, dal latino tolerantia, “capacità di sopportazione”, sinonimo di patientia, una delle virtù morali individuali codificate dallo stoicismo nell’ambito della fortitudo, quindi non con un’accezione di tipo politico-sociale.

Ma il concetto presto comincia a esprimere una valenza immediatamente connessa alla questione della libertà religiosa.
Secondo l’Antico Testamento, l’apostasia, i culti idolatrici, la blasfemia, l’irrisione dei comandamenti divini sono legittimamente puniti in questa vita dal potere religioso e politico costituito da Jahvè. Il giudaismo ellenistico sembra offrire piuttosto l’esempio di comportamenti che attualmente definiamo di coesistenza, più o meno pacifica: il confronto tra sette e divisioni dottrinali (già definite a quel tempo con il greco haìresis, ma in senso non peggiorativo: sono “scelte”). Non tutto l’estraneo è erroneo e perseguibile. D’altro canto, il comandamento di amore intraebraico contenuto nel Levitico («Amerai il tuo prossimo come te stesso»)1 prescrive qualcosa di diverso e di più ampio della tolleranza: non un invito a tollerare ciò che non si conosce o non si condivide, ma l’impegno ad amare almeno tutti i fratelli di fede, accettandone visioni dissonanti su alcuni punti particolari. Il che non impedisce comunque che si creino contrasti anche violenti.
Nell’etica aristotelica, l’ampio rilievo conferito alle virtù della mansuetudine, dell’amicizia e della giustizia invita al conseguimento di effetti analoghi ma finanche più elevati di quella che oggi definiamo tolleranza, sebbene questo avvenga sempre in ambito intraellenico, poiché la geopolitica aristotelica, rievocando un costume in uso fra i greci, definisce per la prima volta la distinzione tra liberi (gli elleni) e barbari (i non elleni). Inoltre, il mondo greco manifesta intolleranza verso la miscredenza, l’empietà e l’introduzione di nuovi dei o di culti non sorvegliati dallo Stato, nonostante l’adattamento e l’interferenza continua tra diverse versioni delle “favole” e dei culti degli dei. Nell’etica stoica, e in generale ellenistica (si guardi ai temi della constantia e della clementia), sopportazione e generosità diventano valori sommi – ma individuali – di una cosmopolitica aristocrazia sapiente.
Nel Nuovo Testamento sopportare l’altrui cecità, errore o durezza di spirito, che non è compito dell’uomo punire, non inibisce tuttavia un diritto- dovere alla correzione fraterna, ma della colpa non pubblica e grave, che ha invece come ratio estrema l’esclusione.2 Il ribadito comandamento di amore, esteso a tutti gli uomini senza distinzione,3 impegna infatti così alla carità verso l’errante, come alla sua riforma non violenta. Non tutto ciò che appare estraneo, ostile o non condivisibile è erroneo, e anche l’erroneo ha i suoi diritti. Gesù rifiuta di invocare su una città della Samaria il castigo celeste per non averlo accolto in quanto giudeo, come invece vorrebbero fare, sulla base di episodi veterotestamentari, i suoi discepoli.4 La coscienza, di cui si afferma la libertà, anche quando induce in errore, ha comunque il suo diritto, poiché deve guidare le azioni degli uomini. Si può dunque rischiararla con la predicazione e con l’esempio, ma non obbligarla con la forza: è in essa che Dio parla e comanda all’uomo, ed è in essa che l’uomo abbraccia liberamente la fede. Nel cristianesimo paolino la centralità della coscienza è ribadita, ma nella vita delle prime comunità cristiane si fissa la pratica della scomunica spirituale per coloro che contravvengono gravemente agli insegnamenti morali e ai dettami della fede. Resta tuttavia che la «carità» è «paziente», e «tutto sopporta ».5 Nei precetti dei padri della Chiesa, durante le persecuzioni, si rivendica al cristianesimo il diritto di godere della tolleranza dei culti caratteristica della tradizione romana, fondata sulla salvaguardia della pax deorum e sulla traducibilità dei diversi politeismi, ma al tempo stesso sull’assenza di pregiudizio per l’ordine pubblico. Lo Stato romano è religioso, ma aconfessionale; se vieta il cristianesimo è perché questo appare incompatibile con gli altri culti ammessi, con il culto dell’imperatore e con le leggi di Roma; ma quando, con Costantino, esso decide di tollerarlo, lo fa, sul piano formale, a risarcimento della neglegentia comportata dalle persecuzioni dei cristiani, che invece esige devozione al pari degli altri dei. Nell’età teodosiana il cristianesimo diventa religione di Stato, e la tolleranza (dissimulatio) invocata in favore dell’antico paganesimo è revocata. Ambrogio e Agostino, pur considerando atto di carità la correzione dell’eretico, sono tuttavia contrari in linea di massima alla persecuzione giudiziaria dei rei in fide da parte dello Stato, che comincia in quel periodo a farsene carico.
Nel Medioevo atteggiamenti di tolleranza o curiosità o rispetto verso altre fedi e costumi diversi da quelli dominanti nel cristianesimo non mancano, soprattutto in figure d’eccezione. Chiesa e poteri pubblici cooperano nell’ambito della distinzione tomistica tra dominio della natura e dominio della grazia e tra Stato e Chiesa, nella repressione dell’eresia e nel disciplinamento delle minoranze etnico-religiose. Tommaso offre una fondamentale apologia dei diritti della coscienza errante e fissa nella malvagia inclinazione della volontà la trasformazione dell’errore in eresia. La coercizione è tuttavia legittima, non perché la fede possa essere imposta, ma poiché eretici e infedeli ostacolano, minacciano o perseguitano chi la vera fede abbia abbracciato.
Si confrontano intanto la visione dell’Islam come pervertimento o eresia del cristianesimo – speculare alla visione che la teologia islamica fornisce di ebraismo e cristianesimo come traviamenti della rivelazione fatta ad Abramo – e quella dell’Islam come lex nova, naturalistica, che nulla ha da spartire con il cristianesimo, e temibile per quella santificazione di valori mondani (guerra, conquista, bottino) che si fonda su una promessa di salvezza personale più facilmente raggiungibile che nella fede evangelica. L’età delle guerre sante e delle crociate registra le più crude intolleranze. Tuttavia le divisioni interne ai due contrapposti schieramenti e gli interessi politici trascendono il piano religioso: la conquista islamica dell’Andalusia nel 711 avviene anche grazie all’appoggio navale dei bizantini e al favore degli ebrei, insofferenti nei confronti del regno cristiano-visigoto; nel 1099 i crociati strappano Gerusalemme ai turchi selgiuchidi grazie a una peraltro precaria alleanza con i fatimidi d’Egitto; nel 1204 la quarta crociata diviene una guerra di conquista mossa dai cristiani d’Occidente a danno dell’impero bizantino.
La fine del Medioevo e gli inizi dell’età umanistico-rinascimentale vedono in ambito cristiano la formazione di dottrine e atteggiamenti successivamente definiti tollerantistici, fondati su varie forme di eclettismo filosofico-religioso, di metodologia della conversione o di teologia alternativa alla tomistica. Si pensi agli studi coranici di Cusano e al suo irenismo, fondato sull’idea che l’asimmetria della Rivelazione fra i popoli e la natura congetturale delle conoscenze umane producono una religio, ma in rituum varietate. Il confronto con il tollerantismo pragmatico a base fiscale verso i cristiani e gli ebrei soggetti all’Islam come regime politico, che non ostacola tuttavia né improvvise campagne intolleranti verso cristiani e politeisti, né, all’interno della fede islamica, “guerre sante” di una fazione teologico-politica contro altre fazioni giudicate infedeli, comincia a esercitare il suo fascino su certi autori cristiani, e così germina il mito di un buon governo islamico.
La scoperta dell’America e la Riforma di Lutero rendono la questione ancora più drammatica. Dalla geopolitica aristotelica viene applicata alle civiltà amerindiane una definizione di barbarie – contestata dalla dottrina internazionalistica di alcuni teologi tomisti, dalla mistica francescana e da posizioni neoevangeliche (erasmisti e Las Casas) o scettiche (Montaigne) – che involverà verso la rappresentazione dell’umanità amerindiana come subumanità indemoniata; quella stessa definizione sarà poi allargata agli schiavi tradotti dall’Africa. La Chiesa della Controriforma acuisce la repressione dell’eresia, il controllo delle idee, la disciplina della vita ebraica e il contenimento di anomalie sociali di vario tipo. Analogamente, anche le chiese riformate si lanciano nella persecuzione giudiziaria dell’errore teologico e di altre alienazioni (magia, stregoneria, disordine morale). L’intolleranza dottrinale protestante è contestata da singoli riformatori religiosi, che esprimono invece, come fa Sébastien Castellion, una decisa riflessione sulla incoercibilità della coscienza.
La tolleranza come diritto di regolamentare dall’esterno i culti diviene soprattutto attributo della sovranità politica. Sperimentata, in modo intermittente, nei confronti delle comunità ebraiche d’Europa, essa si assicura nella soluzione dei conflitti confessionali interni all’Impero (cuius regio, et eius religio), ed è applicata nella Francia delle guerre di religione (concessione – revocabile – di immunità, libertà e privilegi a minoranze religiose), fino alla tolerationtolérance reclamata e fondata in paesi protestanti. Questa viene presentata ora su basi razionalistiche (Spinoza), ora empiristiche e di cristianesimo latitudinario (Locke), ora relativistico-scettiche, come adesione obbligatoria della coscienza all’ordine variegato e non del tutto comprensibile stabilito da Dio per il mondo (Bayle); e si afferma sulla scorta della ragion di Stato, come in alcune legislazioni di fine Seicento (in Inghilterra, in Olanda), che includono gradualmente gli ebrei e molti dissidenti cristiani, ma mantengono l’esclusione per cattolici, antitrinitari, atei. Si nega quindi libertà a qualunque atteggiamento religioso, a prescindere dal suo contenuto dottrinale, insindacabile dal magistrato civile, se comporta effetti negativi nella sfera politica.
Nel pensiero inglese del XVII secolo la tolleranza è tuttavia non solo prerogativa dello Stato, ma anche valore e diritto del cittadino. L’Illuminismo accentua e diffonde questo secondo aspetto, muovendo da riflessioni sulla natura relativa e fallibile dell’uomo, o ancora una volta su base pragmatica, ed estendendolo a varie sfere della vita, non solo religiosa. In Voltaire il fondamento della tolleranza è l’indulgenza per la debolezza dell’uomo in generale; la voce “Tolleranza” dell’”Encyclopédie” parte dallo stesso presupposto e approda alla distinzione tra tolleranza pratica e tolleranza speculativa, ovvero fra tolleranza e approvazione (si può almeno pacificamente criticare e discutere ciò che non si condivide); e alla intolleranza verso le religioni che minacciano la compagine statuale, verso l’ateismo e le società segrete: «Regola generale: rispettate inviolabilmente i diritti della coscienza in tutto ciò che non turba la società (…). Limitatevi a punire i crimini, abbiate pietà dell’errore ». Tanto da matrici religiose che da matrici laiche discende e si diffonde l’idea che l’intolleranza sia un disordine, poiché pretende uniformità laddove Dio o la natura hanno previsto o imposto varietà e fragilità, dubbio e incertezza.
La Rivoluzione francese e il liberalismo ottocentesco contrastano l’intolleranza non solo religiosa, ma anche politica, culturale, sociale e razziale, e celebrano come universali i diritti della coscienza, la libertà di pensiero e di espressione e l’accesso della persona ai diritti civili. La lotta allo schiavismo e alle segregazioni sociali e l’estensione delle libertà individuali, la costruzione dello Stato laico, liberale e democratico non impediscono tuttavia che l’interazione fra interessi economici o di potenza e inedite dottrine razziste ne frenino o ritardino l’efficacia per lungo tempo, soprattutto in determinate aree del mondo.
Nel Novecento, alcune ideologie eleggono a valore positivo, in Europa, l’intolleranza di qualunque espressione o condizione umana che venga ritenuta non comprensibile o nociva nel quadro di progetti totalitari, con l’effetto di persecuzioni e stermini di massa. In seguito, la democrazia risorgente ribadisce e arricchisce lo spettro dei diritti fondamentali dell’uomo, gli dedica l’attività di istituzioni nazionali e internazionali e numerose pratiche di promozione sociale. La tolleranza, non più graziosa o utile concessione come in antico regime, è assorbita nel nuovo e ampliato concetto di libertà, che nel rispetto di leggi democraticamente stabilite e da tutti esatto accoglie come eguali le più diverse convinzioni e opzioni. La tolleranza tende a evolvere
nel pluralismo quale coesistenza ordinata di componenti diverse in un condiviso assetto storico-costituzionale, nel quale la differenza non chiede privilegio e non si sottrae alla discussione sociale.
Il termine tolleranza sconta l’impronta pragmatica (ragion di Stato) del suo uso in età moderna, e, per altro verso, l’ispirazione probabilistica o scettica di alcune formule illuministiche. In un certo senso, essa può diventare anche anticamera dell’indifferenza e del disinteresse. Rispettare stabilmente l’altrui espressione sembra invece dover comportare studio, comprensione e discussione. «Se dunque è piacevole conoscere se stesso, e non è possibile conoscerci senza un altro che ci sia amico, l’uomo indipendente avrà bisogno dell’amicizia per conoscere se stesso».6 Forse, sulla base dello sforzo conoscitivo cui la philìa impegna nell’etica aristotelica, ogni volta che diciamo tolleranza potremmo intendere amicizia fondata sulla conoscenza reciproca.