Wall Street e le democrazie delle classi medie

Di Stefano Fassina Lunedì 22 Dicembre 2008 19:41 Stampa

Alla base della crisi finanziaria c’è la lunga stagnazione dei redditi delle classi medie, “costrette” ad indebitarsi per mantenere status e prospettive. Le forze conservatrici hanno tentato di superare le difficoltà del welfare State con la welfare finance. La sfida riformista è portare la politica alla dimensione globale dell’economia per ricostruire le democrazie delle classi medie.

Mai come in questa fase lo sguardo dei cittadini è stato così attento all’economia globale. Tuttavia, come sempre avviene nei momenti di curiosità concitata, si rischia di guardare alla superficie e lasciarsi convincere dalle spiegazioni facili. Lo sguardo superficiale ci porta a vedere una drammatica crisi finanziaria; la finanza come attività autoreferenziale, dominata dall’avidità dei suoi protagonisti; un’avidità colpevolmente alimentata dall’ideologia liberista dell’autoregolazione dei mercati; la finanza come la peste del XXI secolo.

La lettura di superficie è comoda e rassicurante, in quanto circoscrive e isola le cause e le responsabilità della crisi. Ma è una lettura assolutamente inadeguata a farci comprendere le dimensioni dell’iceberg. La crisi originata dai mutui subprime non è soltanto crisi finanziaria: è crisi economica e sociale. Non solo per l’ampiezza delle conseguenze, ma per le sue cause. Con essa arriva al capolinea un modello di crescita.

Per capire quanto avviene, dobbiamo domandarci se sia un caso che la più grande crisi finanziaria della nostra epoca irrompa quando la distribuzione del reddito negli Stati Uniti torna a coincidere con quella degli anni Venti del secolo scorso, quella del pre-New Deal. Da trent’anni l’andamento dei redditi da lavoro delle classi medie americane è sostanzialmente piatto in termini reali. Non solo i lavoratori con basse qualifiche sono sempre più in affanno, ma sono in affanno anche ampie porzioni delle classi medie, le lavoratrici e i lavoratori diplomati e laureati, occupati a tempo pieno. Una recente ricerca sugli Stati Uniti, presentata in un seminario internazionale sull’uguaglianza coordinato dal professor Maurizio Franzini, indica che, tra il 1979 e il 2005, il reddito da lavoro dei diplomati occupati a tempo pieno, depurato dall’inflazione, ha avuto una variazione media annua inferiore o pari a zero. Per i laureati, la performance è stata analoga. Nello stesso arco di tempo, la produttività negli Stati Uniti è aumentata, in media, di quasi il 2% all’anno. In sostanza, il reddito di un lavoratore diplomato che nel 1979 era di circa 30.000 dollari (a prezzi 2005) sarebbe dovuto arrivare a quasi 50.000 dollari nel 2005. Invece, è sceso a 25.000 dollari! Per un laureato, il reddito è rimasto sostanzialmente invariato. Dov’è è andata a finire la differenza? La differenza è finita ad alimentare i redditi da lavoro e da capitale del decile più ricco della forza lavoro. Anzi, è andata a moltiplicare la ricchezza dell’1% più ricco delle famiglie. L’American dream per la stragrande maggioranza delle famiglie americane è rimasto dream.

Data la stagnazione dei redditi da lavoro in un ambiente in rapida crescita (la ricchezza del paese più che raddoppiava) come stupirsi se il debito delle famiglie degli Stati Uniti è cresciuto dal 40% del PIL registrato all’inizio degli anni Settanta al 100% del PIL della fine del 2007? Si tratta di un’impennata dovuta non solo alla necessità di risorse per l’acquisto della casa. Una quota consistente del debito deriva dalle carte di credito: nel 1989, tale debito ammontava a 238 miliardi di dollari; l’anno scorso era di 937 miliardi di dollari. Si tratta di debito al consumo destinato a offrire alle classi medie un miglioramento del loro stile di vita. Come ha scritto qualche mese fa David Brooks, commentatore conservatore non ideologico, negli ultimi tre decenni negli Stati Uniti ha dominato la cultura del debito: «Da un lato c’è la classe degli investitori, con agevolazioni fiscali sui piani di risparmio e un esercito di consulenti finanziari. Dall’altra parte, c’è la lottery class, il popolo delle lotterie, con scarse possibilità di farsi un fondo pensione o accedere alla pianificazione finanziaria, ma con facile accesso ai prestiti a due settimane sullo stipendio, alle carte di credito e alle lotterie».1

Degenerazione della finanza e polarizzazione nella distribuzione del reddito sono facce della stessa medaglia: qualcuno avido di denaro ha of- ferto denaro senza scrupoli; qualcun altro, però, ha dovuto domandare o è stato indotto a domandare. I subprime sono stati operazioni finanziarie irresponsabili, che però hanno consentito a milioni di famiglie di comprare la casa di residenza. Con la distribuzione del reddito caratteristica degli anni Sessanta, le stesse famiglie avrebbero potuto permettersi mutui prime.

Il punto di politica economica, anzi di politica, che qui interessa sottolineare è il seguente: le forze conservatrici a partire dai primi anni Ottanta, invece di contrastarla, hanno alimentato con le politiche economiche e sociali la sperequazione tra i redditi e hanno affidato alla finanza la sostituzione del welfare State, indubbiamente in difficoltà. Dal welfare State alla welfare finance. Il tentativo va avanti sin dai tempi dell’Amministrazione Reagan, ma la sua codificazione più esplicita si è avuta nella campagna elettorale per le elezioni presidenziali del 2000 e del 2004. Bush ha lanciato la ownership society (l’individualismo proprietario sul terreno dei diritti sociali) per le classi medie e il compassionate conservatism (la carità di Stato) per quanti rimanevano ai margini. È la logica conseguenza di decenni di propaganda sulle virtù taumaturgiche della privatizzazione dei sistemi pensionistici a ripartizione. È il tentativo di privatizzare anche l’assicurazione contro la disoccupazione, oltre che la scuola e la sanità.

In altre parole, nel modello conservatore la finanza ha avuto una funzione servente; non è stata protagonista, ma strumento. Uno strumento poi sfuggito di mano, ma sempre strumento per promuovere e realizzare un modello di crescita profondamente iniquo. La via finanziaria è stata la soluzione per far quadrare il cerchio di redditi da lavoro sempre più sperequati, trasformazione in senso regressivo dei sistemi fiscali, smantellamento delle istituzioni di welfare e consenso delle classi medie. Senza i miracoli promessi dalla finanza alle classi medie, il paradigma neoliberista non si sarebbe potuto affermare in un contesto democratico.

Forse, è anche il momento per il centrosinistra, una volta tanto, di rivendicare il merito di aver resistito alle mode del tempo. Di aver resistito alla privatizzazione e finanziarizzazione del welfare State, non in nome dell’ideologia, ma in coerenza con il buon senso, la storia economica e qualche buona teoria. Ovviamente, resistere alla finanziarizzazione del welfare non ha voluto dire resistere alle riforme. Il welfare di impianto fordista era da riformare profondamente, e i riformisti, dove più dove meno, sono riusciti ad avviare le riforme. I limiti a cui era giunto erano limiti veri, non propaganda della destra. Tuttavia, è la scelta politica compiuta di affidare i principali capitoli della cittadinanza democratica alla finanza a rimanere sotto le macerie di Wall Street. Dopo quasi venti anni dalla caduta del Muro di Berlino, è il muro dell’egemonia dell’individualismo proprietario, il mito della privatizzazione del rischio a sgretolarsi.

Andare oltre il perimetro della finanza nell’analisi della crisi in atto è indispensabile per formulare qualche ipotesi di intervento correttivo. Date le dimensioni dell’iceberg contro il quale siamo andati a sbattere non possiamo limitarci ad invocare una migliore regolazione dei mercati finanziari o prendercela con il povero Greenspan, osannato quando la sua politica monetaria iper-espansiva dava alle famiglie americane la forza di trainare la crescita del resto del mondo. Dobbiamo pensare a come ricostruire le condizioni politiche e istituzionali per rifondare le democrazie delle classi medie, oltre che i sistemi di welfare, in un contesto economico globale. È la sfida di Obama. È la sfida sulla quale dovrebbero cimentarsi, insieme, tutti i riformisti europei, oramai in difficoltà ovunque. Insistere con il riformismo in un solo paese consegna le classi medie spaventate alle destre populiste e protezionistiche. È un film già visto, con un finale terribile.

La crisi iniziata negli Stati Uniti a metà 2007 ha investito in pieno anche l’Europa, sia nella sua dimensione finanziaria che reale. Non può non essere così, dato che se negli Stati Uniti le banche hanno prestato 96 centesimi per ogni dollaro depositato, le banche dell’Europa continentale hanno prestato 140 centesimi per ogni euro depositato. E va sottolineato, come hanno fatto Daniel Gross e Stefano Micossi sul “Financial Times”,2 che le principali banche europee sono too big to save, ossia sono troppo grandi rispetto alle dimensioni economiche dei rispettivi paesi (si consideri che la Deutsche Bank ha un’esposizione debitoria di 2.000 miliardi di euro, ossia un ammontare superiore all’80% del PIL della Germania), e che l’Unione europea non dispone di una sede istituzionale per realizzare un qualsivoglia piano di salvataggio qualora ve ne fosse bisogno.

Per rispondere alla crisi, l’Unione europea ha bisogno di una svolta politica. Le fasi di emergenza sono anche fasi di opportunità politica. Che cosa dovrebbe fare l’Unione europea o, almeno, che cosa dovrebbero fare i paesi membri dell’eurogruppo? Qualche passo nella giusta direzione è stato fatto alla riunione di Parigi dei paesi europei del G8 il 4 ottobre scorso. È stato un passaggio importante sul piano politico, prima che su quello tecnico. Si è ripresa la strada dell’integrazione intergovernativa, dopo le iniziative individuali, deboli e pericolose, in particolare dopo l’inaccettabile mossa di free riding di alcuni governi nell’assicurazione dei depositi bancari.

Ma serve più coraggio politico. L’Ecofin, o meglio il Consiglio europeo dovrebbe riprendere e approvare la proposta sostenuta lo scorso anno dall’Italia e da qualche altro paese dell’eurogruppo, ma ostacolata dal governo britannico, per definire un quadro regolatorio unico e per realizzare un’unica autorità di vigilanza europea sui mercati finanziari. Il Consiglio europeo dovrebbe anche portare avanti con determinazione l’iniziativa avviata a Washington per una profonda revisione della governance globale dei mercati finanziari e, altro aspetto decisivo, per la riforma delle istituzioni di Bretton Woods oltre che del G8. L’obiettivo è quello di riconoscere pienamente il peso degli attuali protagonisti dell’economia globale e di dare alle istituzioni multilaterali compiti adeguati alle sfide del mondo piatto del XXI secolo. Oggi, al board del Fondo monetario internazionale e della Banca mondiale, la Cina pesa come il Belgio. Senza ricostruire una minima legittimazione democratica, le istituzioni finanziarie internazionali e il G7 non avranno voce in capitolo e non potranno incontrare la disponibilità delle economie emergenti ad accettare le richieste di cooperazione loro rivolte. Agli interventi sul sistema finanziario e alle riforme della governance globale vanno associati, da subito, interventi fiscali anticiclici a livello di area euro. Ovviamente, la politica monetaria è necessaria ad arginare la profondità e la durata della crisi. Bene ha fatto la Banca centrale europea a ridurre i tassi di riferimento in modo deciso e coordinato con le altre banche centrali dei G7 e della Cina. Ma, in un contesto di scarsa fiducia, la poli- tica monetaria non è sufficiente. L’Unione europea o, almeno, i principali paesi membri dell’eurogruppo dovrebbero puntare a dotarsi di una politica di bilancio comune. Per affrontare la difficile fase congiunturale nella quale è immersa, l’Unione europea dovrebbe puntare sulla domanda interna, la domanda di una realtà che conta 450 milioni di consumatori e milioni di imprese. Le politiche di bilancio devono tornare in campo. Di fatto, stanno tornando in campo, ma in modo non coordinato, surrettizio (si veda la decisione di Francia e Germania di rinviare la scadenza per il pareggio di bilancio). E così non colgono le potenzialità di interventi coordinati.

Sono indispensabili politiche di bilancio anticicliche per sostenere il potere d’acquisto delle famiglie e la crescita. Vedremo come i ministri economici dell’eurogruppo e l’Ecofin declineranno l’indicazione contenuta nel comunicato finale dell’incontro del 4 ottobre a Parigi affinché «l’applicazione del Patto di stabilità e crescita rifletta le circostanze eccezionali che attraversiamo».

Il Partito Democratico nella sua Conferenza economica del 6 ottobre scorso ha presentato una proposta: una riduzione delle imposte sui redditi da lavoro e da pensione per 0,5 punti percentuali di PIL in tutti e 27 i paesi membri o, almeno, nei paesi Ecofin, per dare un immediato sostegno alla domanda interna, alla crescita, ai redditi. Si tratterebbe di un intervento concentrato sui redditi bassi e medi. Se realizzato contestualmente l’intervento avrebbe effetti moltiplicativi significativi, considerato il livello di integrazione tra i 27 (ciascuno dei 27 vende oltre la metà delle proprie esportazioni ad un altro membro del gruppo). La proposta non è alternativa ad altre proposte già in campo, orientate a sostenere la spesa in conto capitale (dagli eurobonds suggeriti da Delors negli anni Novanta, alla ridefinizione del mandato della Banca europea per gli investimenti). Sono proposte interessanti e da perseguire, ma non hanno alcuna possibilità di produrre effetti nel breve periodo. Ad esempio, guardiamo alla proposta, condivisibile, del ministro Tremonti per assegnare alla BEI la gestione di un fondo per finanziare spese in conto capitale: i tempi della riscrittura dello statuto della BEI, della predisposizione della macchina amministrativa, della selezione dei progetti e della raccolta dei capitali per alimentare investimenti in infrastrutture transeuropee, sono assolutamente incompatibili con l’esigenza di una risposta anticiclica. Arriveremmo troppo tardi. Invece, una decisione Ecofin a favore di un allentamento temporaneo dei vincoli alle politiche di bilancio dei paesi membri sarebbe certamente di maggiore efficacia. Certo, sarebbe necessaria una leadership politica in grado di andare oltre l’opportunistica retorica antimercatista.

Infine, guardiamo alla politica di bilancio dell’Italia. Il 23 settembre il governo ha approvato la Nota di aggiornamento del DPEF e la Relazione previsionale e programmatica. Dati i radicali mutamenti del quadro macroeconomico internazionale e interno, sarebbe stato necessario correggere la manovra predisposta a luglio. Una manovra pesantemente prociclica in termini macroeconomici e regressiva in termini di impatto sulla distribuzione dei redditi, segnata da populismo (social card, Robin Hood Tax, Protocollo tra ministero dell’Economia e ABI per i mutui a tasso variabile ecc.) e corporativismo (smantellamento delle principali misure di liberalizzazione dei mercati e di contrasto all’evasione introdotte dal centrosinistra, ulteriore precarizzazione del mercato del lavoro ecc). Invece, la linea è stata confermata. Ma che senso hanno le Robin Hood Tax in un mondo bancario e assicurativo in pesante difficoltà e con la caduta dei prezzi del petrolio? A cosa serve la parziale detassazione degli straordinari, quando aumenta in modo esponenziale la cassa integrazione? Non sarebbe stato meglio utilizzare per chi non arriva alla quarta settimana i 2,5 miliardi di euro all’anno spesi per completare l’eliminazione dell’ICI sulle abitazioni delle famiglie più abbienti? Non è elemosina istituzionale una social card che riguarda un milione di cittadini poverissimi, quando abbiamo 20 milioni di famiglie in difficoltà, ossia anche ampie fasce delle classi medie?

In sintesi, continua a mancare, nonostante lo scivolamento nella recessione, un intervento fiscale sul potere d’acquisto dei lavoratori e dei pensionati. Più in generale, continua a mancare una politica dei redditi in grado di accompagnare la riforma del modello contrattuale in discussione tra Confindustria e sindacati. Un’assenza che porta Confindustria e sindacati ad inventare un improbabile indicatore, “l’inflazione previsionale”, la cui individuazione viene affidata ad un soggetto terzo, come se il problema fosse tecnico e non politico. È pienamente condiviso l’obiettivo di evitare rincorse salari-prezzi. Su tale punto, il modello del 1993 rimane fondamentale, ma attenzione: il modello di indicizzazione delle retribuzioni funzionò in quanto inserito dentro una politica dei redditi sostenuta dal governo Ciampi. Senza una politica dei redditi, l’inflazione programmata o previsionale diventa una strada profondamente iniqua e insostenibile. Politica dei redditi vuol dire, oltre che riduzione delle imposte sui redditi da lavoro e da pensione, anche un ventaglio di politiche di orientamento opposto rispetto a quelle attuate dal governo Berlusconi; vuol dire politiche di regolazione concorrenziale dei mercati, non ripristino di condizioni di rendita nel settore bancario, assicurativo, energetico, dei servizi professionali; vuol dire disponibilità di servizi pubblici di qualità, non ridimensionamento di scuola, sanità, assistenza, trasporto pubblico locale.

I fondamentali di finanza pubblica italiani offrono lo spazio per un allentamento della manovra anticiclica e per realizzare un intervento di politica dei redditi. La finanza pubblica non può prescindere dall’economia reale, altrimenti va a finire male, sia per l’una che per l’altra. Possiamo migliorare il rapporto deficit/PIL puntando ad innalzare, con le riforme strutturali e la politica di bilancio, il denominatore (PIL). È controproducente ostinarsi ciecamente sul numeratore (deficit). Il governo dia un po’ di ossigeno a decine di milioni di famiglie attraverso un innalzamento delle detrazioni fiscali. Con 7-8 miliardi di euro all’anno si possono alleviare gli effetti della recessione senza compromettere il percorso di risanamento della finanza pubblica. Inoltre, il governo riveda i tagli alla spesa in conto capitale e ripristini la praticabilità del credito di imposta per gli investimenti delle imprese nel Mezzogiorno. Infine, di fronte alla difficile situazione del settore bancario, il governo espanda e potenzi, temporaneamente, i servizi di garanzia del credito alle piccole e medie imprese e la copertura dell’assicurazione contro la disoccupazione.

In conclusione, la crisi economica in corso può essere l’occasione per rivedere una politica economica sbagliata. Una politica economica che non può funzionare, perché non penalizza solo i lavoratori e le lavoratrici più deboli, colpisce ampie aree delle classi medie: lavoratori dipendenti, giovani precari, finte partite IVA, lavoratori autonomi marginali e pensionati, colletti bianchi o ex del settore pubblico e privato. Insomma, quasi 25 milioni di cittadini. È, dati tali numeri, una politica economica dannosa per tutti. Lo capiranno prima o poi anche gli interessi oggi beneficiati. Ma non c’è alcun determinismo economico sul quale può fare affidamento una forza riformista. C’è, invece, uno straordinario lavoro politico da intensificare.

[1] D. Brooks, The culture of debt, in “The New York Times”, 22 luglio 2008.

[2] D. Gros, S. Micossi, European banking lives on borrowed time, in “Financial Times”, 23 settembre 2008.