Uno Stato interventista ma non strategico

Di Vera Zamagni Lunedì 22 Dicembre 2008 19:14 Stampa

L’Italia aveva in passato mostrato di saper intraprendere strade innovative nel disegno delle sue istituzioni di sostegno all’economia. Ma il bilancio di oggi non è positivo. Cercheremo di capire in questa sede quando lo Stato italiano ha smesso di svolgere il suo ruolo di indirizzamento del sistema economico e perché lo abbia fatto. Lo spartiacque viene identificato tra i due decenni 1970 e 1980, prima per fronteggiare emergenze nazionali e internazionali e poi per incapacità politica di ritrarsi in tempo da una deriva di interventi a pioggia, senza alcuna progettazione di lungo termine.

In tutto l’arco di un secolo e mezzo della sua storia, lo Stato italiano ha dato prova di sapersi adoperare per sostenere l’attività economica del paese e può quindi essere considerato uno Stato interventista, in buona compagnia con altri Stati europei, fra cui Francia e Germania. In qualche caso, lo ha fatto attivando interventi originali, prima che questi diventassero propri anche di altri paesi. Se ne possono ricordare tre: la legge Casati sull’istruzione del 1859, l’intervento di promozione delle aree arretrate del paese al tempo di Giolitti, la creazione di un vasto complesso di imprese a controllo statale negli anni Trenta. La legge Casati, emanata appena dopo l’annessione della Lombardia e in seguito estesa al resto dell’Italia, introduceva l’istruzione elementare obbligatoria e gratuita anche per le bambine, istituiva gli istituti tecnici, anche di livello superiore (politecnici), «per dare ai giovani che intendono dedicarsi a determinate carriere del pubblico servizio, alle industrie, ai commerci e alla condotta delle cose agrarie la conveniente coltura generale e speciale», fondava infine le scuole «normali» per la preparazione dei maestri. Si trattava di una legge che è stata riconosciuta come «well in advance» rispetto a Francia e Gran Bretagna e per certi versi anche rispetto alla Germania, a cui pure si ispirava.1 L’intervento di promozione delle aree arretrate del paese cominciò nel primo decennio del secolo XX, con la cosiddetta “legislazione speciale”, che vide un sostegno concreto all’industrializzazione di Napoli e la predisposizione di opere pubbliche infrastrutturali e di risanamento idrogeologico un po’ in tutto il Mezzogiorno.2 Anche in questo caso si trattò di un’anticipazione di interventi volti a promuovere lo sviluppo nelle aree arretrate (o in declino) dei paesi europei, interventi che si sarebbero moltiplicati in Europa solo a partire dagli anni Trenta. Infine, la soluzione che lo Stato italiano diede ai salvataggi resi necessari dagli effetti devastanti della grande crisi del 1929 tra 1931 (creazione dell’IMI) e 1933 (creazione dell’IRI) fu quella di coinvolgere largamente lo Stato nella stessa amministrazione delle imprese e delle banche. In questo caso, non era la prima volta che succedeva, né in Italia (precedentemente si era avuta la nazionalizzazione delle ferrovie nel 1905 e la creazione dell’Agip nel 1926), né in Europa, dove in molti paesi ferrovie e industria petrolifera (ma non solo) avevano visto un protagonismo degli Stati. Ma era la prima volta che l’intervento di pubblicizzazione delle imprese avveniva in modo coordinato e trasversale a molti settori industriali, con una formula di controllo originale, dovuta a Beneduce, che lasciava le società soggetti di diritto privato. L’esempio italiano fu sicuramente presente, pur nelle diversità di realizzazione, nelle vaste nazionalizzazioni che paesi come la Francia, la Gran Bretagna e l’Austria (ma anche altri) sperimentarono nel secondo dopoguerra.

Possiamo dire oggi che una tale precocità nel disegno istituzionale degli interventi per promuovere lo sviluppo economico della nazione non è purtroppo stata premiata in Italia da risultati di eccellenza. Il paese è stato sì capace di seguire un suo sentiero di crescita, ma non senza pesanti limiti, che sono oggi sotto gli occhi di tutti: una specializzazione produttiva che in troppo pochi casi lo mette sulla frontiera delle tecnologie e della scienza; una dimensione media delle imprese esageratamente piccola, con conseguente limitazione nelle capacità di innovazione tecnologica; uno stato dell’istruzione e della ricerca che si va deteriorando sempre più; una dotazione infrastrutturale insufficiente e inefficiente; una burocrazia pubblica pletorica e demotivata; un Mezzogiorno che ancora non ha trovato la sua strada, nonostante le imponenti iniezioni di risorse effettuate. Cercheremo qui di dare risposta alle due seguenti domande: qual è la responsabilità dello Stato italiano in questa assai insoddisfacente situazione del paese? Collegata a questa domanda ne sorge un’altra: si può identificare una svolta storica che ha fatto imboccare allo Stato italiano una strada involutiva? Si tratta, come si può capire, di domande imbarazzanti, che richiedono un grande coraggio da parte di chi si accinge ad offrire una qualche risposta senza poterla argomentare compiutamente. Ma poiché il cambiamento è oggi impellente, non possiamo sottrarci al compito di offrire qualche spunto utile alla riflessione.

La svolta storica responsabile dell’involuzione della presenza dello Stato nell’economia italiana è avvenuta tra il decennio 1970 e il successivo.3 La crisi internazionale dovuta all’abbandono del sistema di Bretton Woods e all’innalzamento del prezzo del petrolio innescò negli anni Settanta un’inflazione che mai l’Italia aveva sperimentato in tempo di pace (tanto è vero che la lira italiana tra 1949 e 1973 non si era mai svalutata). Al medesimo tempo, le proteste sindacali che discendevano dall’”autunno caldo” avevano spinto il sindacato su posizioni oltranziste, fino a sostenere che il salario era una «variabile indipendente»4 e ad ottenere da Gianni Agnelli (allora a capo di Confindustria) nel 1975 l’aggancio automatico dei salari all’inflazione.5 In questo contesto, lo Stato dovette anche far fronte alla sfida drammatica delle Brigate Rosse. Ebbe inizio così la ricerca di un largo consenso, comperato a suon di spesa pubblica: il welfare venne allargato con insufficiente copertura; le imprese pubbliche vennero utilizzate per mantenere prezzi amministrati e/o un eccesso di occupazione, fini che ne alterarono gli equilibri aziendali; gli interventi nel Mezzogiorno assunsero sempre più la connotazione di strumento per consolidare i partiti al governo; gli interventi di politica industriale vennero volti a salvataggi che non facevano che ingrandire la presenza dello Stato nell’economia, rincorrendo il più delle volte progetti ormai obsoleti (come il raddoppio dell’acciaieria di Taranto) e limitandosi spesso solo a colmare vistosi buchi di bilancio. Fu l’inizio della fine della capacità dello Stato italiano di governare l’economia. Poiché tutto avvenne sotto l’onda di urgenze e di gravi congiunture politico-economiche, si potrebbe pensare invero che le cose si sarebbero potute raddrizzare succes- sivamente, quando il contesto nazionale e internazionale si fosse rischiarato. In effetti, con l’entrata dell’Italia nello SME (Sistema monetario europeo) nel 1979 e il “divorzio” fra Tesoro e Banca d’Italia nel 1981 due forti premesse per il rientro dall’inflazione vennero poste, ma sul versante della spesa pubblica non ci fu alcuna coerenza e si continuò “allegramente” a macinare incredibili deficit di bilancio, aumentando smisuratamente il debito pubblico (che si attestava in precedenza su livelli normali). La spesa pubblica veniva effettuata sempre più “a pioggia” e con sempre meno strumenti selettivi di direzionamento strategico della stessa. Infatti, sotto i colpi della marea montante di corruzione che è sempre il rovescio della medaglia di una spesa pubblica poco selettiva, vennero smantellati via via tutti i centri decisionali che precedentemente avevano provato a qualificare la spesa stessa: il sistema delle imprese pubbliche, la Cassa per il Mezzogiorno, le politiche industriali. Non si vuole sostenere qui l’idea che tali centri decisionali dovessero necessariamente essere mantenuti come erano, bensì che, se smantellati, dovevano lasciar posto ad altri centri decisionali sostitutivi. Ma così non fu. Le grandi imprese italiane, che erano state per lo più imprese di Stato, dovettero trovare la loro strada singolarmente come imprese privatizzate e la cosa si è rivelata assai meno agevole del previsto, con qualche eccezione. In ogni modo, nel migliore dei casi queste imprese sono riuscite a riorganizzare se stesse, ma non hanno più fatto parte, come prima, di un sistema sinergico. L’intervento nel Mezzogiorno perse qualsiasi disegno e venne lasciato alla contrattazione di poteri locali quasi mai attrezzati per progettarlo al meglio con l’Unione europea. Le politiche industriali vennero semplicemente abbandonate, mentre altri paesi, come la Francia, le continuavano sotto altra forma.

Il fatto è che al di fuori delle imprese pubbliche, in Italia esisteva sì un tessuto solido ed efficiente di piccole e medie imprese, ma queste per loro natura sono distanti dalla capacità di svolgere un ruolo direzionale dell’economia. Fu così che l’economia italiana è stata lasciata senza direzione. Naturalmente, ciò che spontaneamente si è potuto continuare a realizzare è andato avanti e per fortuna non è stato poco. A questa auto-organizzazione dell’economia delle piccole e medie imprese dobbiamo se l’Italia è ancora oggi un paese solido a livello micro, con grande diffusione dell’imprenditorialità e del saper fare. Ma il livello macro è assente, anche perché dopo la grande crisi politica ed economica del 1992-93, lo Stato italiano ha dovuto cercare un rientro dalla sua “finanza allegra” in un contesto internazionale poco favorevole, e questo ha ampiamente impedito qualunque radicale ripensamento della deriva verso cui ci si era incanalati e della mancanza di progettualità. Ad aggravare il problema, si è diffusa persino fra la sinistra un’idea di marca anglosassone che bastasse liberalizzare. Non si vuole con questo dire che non esistano aree dell’economia italiana che possano beneficiare di una liberalizzazione e che i famosi “lacci e lacciuoli” di cui sempre si lamentava Guido Carli siano tutti scomparsi. C’è ancora molto da fare per semplificare la legislazione italiana e renderla più moderna ed efficiente. Ma il problema di fondo è che se la deregulation diventa l’unico principio di governo dell’economia italiana occorre ricordarsi che si tratta di una ricetta di marca anglosassone, che sta dando oggi gravi problemi persino al mondo anglosassone stesso, ma che è del tutto inadatta ad un contesto come quello italiano. Infatti, in un contesto come quello degli Stati Uniti, dove esistono un numero sufficiente di grandi imprese capaci di far fronte (insieme alle piccole e medie imprese) non solo alla produzione di beni e servizi,6 ma alla soluzione di problemi collettivi di grandi dimensioni come i trasporti, l’energia, le infrastrutture, l’innovazione farmaceutica, la ricerca, è concepibile che lo Stato svolga un ruolo strategico minore e sia richiesto soprattutto di “lasciar fare”. Non riteniamo che i risultati siano tutti positivi, perché ovviamente una soluzione esclusivamente privatistica dei problemi sopra delineati tende ad esternalizzare vari costi, come quelli da inquinamento. Fra i risultati peggiori, come è ampiamente noto, sta la grave inefficienza nella produzione privatistica di servizi sanitari, che assorbono il 16% del PIL americano, a fronte di un 8% dell’Italia (su un PIL che è inferiore di un terzo a quello americano). Ma in un paese come l’Italia, dove per motivi storici la grande impresa si è scarsamente affermata, sposare l’ideologia della deregulation è suicida e porta ad uno smarrimento del sistema economico, privato dei grandi progetti che sono necessari a sostenere l’attività delle piccole e medie imprese e stanno alla base anche della loro opportunità di in- grandimento. Nemmeno con le privatizzazioni le cose potevano cambiare, perché le ex imprese di Stato che sono riuscite a salvarsi dal naufragio sono comunque poche. Restiamo oggi il paese avanzato con la maggiore frammentazione in campo imprenditoriale, anche se teniamo conto dell’esistenza di gruppi che compattano alcune PMI fra di loro. Da qui lo stallo a cui siamo arrivati, con una spesa pubblica sempre in affanno, schiacciata tra l’incudine di doversi restringere, per evitare di far ricadere il bilancio dello Stato nella spirale dei deficit, e il martello di dover far fronte ai mille problemi che un paese sempre più inefficiente come il nostro si vede davanti: i salari che non crescono perché il paese è fermo da anni; la distribuzione del reddito che peggiora, perché il sistema di welfare non viene ripensato; l’università che fallisce, perché non si ha il coraggio di metterci mano; le infrastrutture che sono al collasso, perché sono anni che progettazione e investimenti vengono rinviati; il sistema della ricerca affossato in una irrilevanza da cui ben poco si salva. Siamo ridotti alla social card, la elemosina di Stato. Anche su questo punto è bene intendersi: primum vivere, deinde philosophare. Quando c’è l’emergenza, sia benvenuta anche la social card, ma non può essere questa la soluzione. Un ultimo punto ci sta molto a cuore. Più Stato dunque in Italia? Sì, non crediamo che la conclusione del ragionamento sopra fatto possa essere diversa. Ma è una conclusione che necessita di una precisazione molto importante. La storia economica insegna che ci sono due tipi di Stato: quello dirigista e quello condiviso. L’estremo limite dello Stato dirigista si è raggiunto in Unione Sovietica, e non è stato un caso di successo sul lungo periodo; ci sono esempi di un dirigismo più illuminato e temperato, come lo Stato francese, o Singapore o, in tempi recenti, lo Stato cinese, sul cui successo occorre meditare. Esiste però anche il modello di Stato condiviso, il cui esempio principale è dato dallo Stato inglese, che dalla Magna Charta (1215) in poi ha praticato la condivisione delle decisioni tra categorie sempre più ampie di soggetti. Leggiamo un passaggio cruciale della Magna Charta, un documento che dovrebbe essere letto a tutti gli studenti per far comprendere le vere radici della civiltà occidentale: «No scutage or aid may be levied in our Kingdom without general consent […]. To obtain the general consent […] we will cause the archbishops, bishops, abbots, earls and greater barons to be summoned individually by letter».7 Ebbene, gli italiani hanno fin dai tempi della Magna Charta praticato con entusiasmo lo Stato condiviso nelle loro città-Stato e quando si sono trovati sottoposti a dittature o a regimi dirigisti non lo hanno gradito. Sono stati gli italiani ad inventare tutte le strutture portanti di uno Stato condiviso, come ormai anche gli studiosi stranieri sono arrivati ad ammettere. Leggiamo un passo conclusivo del volume di un prestigioso studioso americano: «The late medieval institutional development had direct impact on later institutions. The modern business corporation grew out of the legal form of the corporation, as developed for medieval guilds, municipalities, monasteries and universities. The operation of the late medieval corporations led to the development of particular knowledge, laws, and other institutional elements that manifested in current practices such as trading in shares, limited liability, auditing, apprenticeship, and double entry bookkeeping. European commercial law, insurance markets, patent systems, public debt, business associations, and central banks were developed in the context of medieval institutions».8

La conclusione cui giungere è quindi che gli italiani non possono prosperare in uno Stato dirigista; possono dare il meglio di sé solo in uno Stato condiviso, come danno il meglio di sé in imprese, siano esse piccole-medie private o cooperative, di cui condividono i fini. E dunque solo se si apriranno i cantieri della progettazione alla società civile, mettendo in piedi task forces bipartisan sui tanti problemi a cui occorre trovare una soluzione, si ritroverà l’entusiasmo che permetterà di identificare le nuove direzioni e la coesione sociale indispensabile per perseguirle. Solo cioè se si muoverà verso la democrazia deliberativa – la versione moderna dello Stato condiviso – si vedrà tornare l’Italia ad essere una società dinamica. Altrimenti si continuerà a dibattere vecchie idee stantie e ad agire con veti incrociati, capaci solo di rendere permanente quell’immobilismo in cui ci troviamo, come anche Galli Della Loggia ha recentemente denunciato con grande tristezza.9 La tristezza di vedere un paese a cui non mancano cittadini ingegnosi e desiderosi di impegnarsi per la prosperità della propria comunità costretti ad andare a fare i soldati di ventura per gli eserciti degli altri o a dar sfogo a una vena protestataria fine a se stessa.

[1] V. Zamagni, L’offerta di istruzione in Italia (1861-1981): un fattore guida o un ostacolo?, in G. Gili, M. Lupo, I. Zilli (a cura di), Scuola e Società. Le istituzioni scolastiche in Italia dall’età moderna al futuro, ESI, Napoli 2002.

[2] E. Felice, Divari regionali e intervento pubblico. Per una rilettura dello sviluppo in Italia, Il Mulino, Bologna 2007.

[3] Si veda ad esempio V. Zamagni, I mutamenti dell’economia internazionale e l’Italia, in A. Giovagnoli, S. Pons (a cura di), Tra guerra fredda e distensione, Rubbettino, Soveria Mannelli 2003.

[4] Luciano Lama fece ammenda di aver condiviso tale tesi in un’intervista a “La Repubblica” del 24 gennaio 1978, in cui ammise che mal si era fatto a considerare il salario sganciato dall’equilibrio economico generale in un periodo di tale instabilità. Si veda A. Graziani, Lo sviluppo dell’economia italiana, Bollati Boringhieri, Torino 1998.

[5] La scala mobile venne abolita nel 1984, ma il sindacato tentò di resistere, giocando senza successo, l’anno dopo, la carta del referendum.

[6] La recente ubriacatura finanziaria del sistema americano ha di molto appannato queste storiche capacità di produrre eccellenti prodotti ai costi minori: si pensi allo stato di collasso in cui versano la Ford e la General Motors, simbolo del capitalismo americano.

[7] «Nessuna imposta [scutage e aid erano i due tipi principali di imposta dell’epoca] può essere decisa senza un consenso generale […]. Per ottenere tale consenso generale, noi riuniremo avvisandoli per lettera arcivescovi, vescovi, abati, conti e baroni principali».

[8] A. Greif, Institutions and the Path to the Modern Economy. Lessons from Medieval Trade, Cambridge University Press, New York 2006, p. 394. «Lo sviluppo istituzionale del basso Medioevo [italiano] ha avuto un’influenza diretta sulle successive istituzioni. L’impresa moderna deriva dalla forma legale dei corpi intermedi, sviluppata dalle corporazioni, dai comuni, dai monasteri e dalle università. Il funzionamento dei corpi intermedi medievali ha prodotto lo sviluppo di una particolare conoscenza, di leggi, e di altri elementi istituzionali che si manifestano oggi nelle pratiche correnti della compravendita di azioni, della responsabilità limitata, della revisione, dell’apprendistato, della partita doppia. Il diritto commerciale europeo, le assicurazioni, i brevetti, il debito pubblico, le associazioni economiche, le banche centrali, sono stati tutti sviluppi generati dal contesto medioevale».

[9] E. Galli Della Loggia, L’Italia immobile, in “Corriere della Sera”, 25 ottobre 2008.