Economia tra Stato e libero mercato nella cultura degli economisti

Di Massimo Giannini Martedì 09 Dicembre 2008 20:14 Stampa
Riflettere sui principali riferimenti culturali del dibattito legato al modo in cui una economia debba essere organizzata può essere molto utile per trarre alcune indicazioni su come la crisi finanziaria attuale possa essere affrontata, e in genere su quale ruolo lo Stato e il mercato debbano giocare nelle moderne economie occidentali.

Non si può tentare un’analisi del dibattito Stato-mercato se non identifichiamo i punti di riferimento culturali e storici necessari. Il primo riferimento è ad Adam Smith. Quest’ultimo è spesso visto come il padre fondatore del liberismo economico, di quell’insieme di condizioni concorrenziali cioè che governano il regolare e armonico funzionamento di un’economia di scambio. Ma è alla figura di Vilfredo Pareto, capostipite della scuola neoclassica degli inizi del Novecento, che dobbiamo guardare per arrivare ad un concetto moderno di liberismo. L’opera di Pareto si concretizza nel suo ben noto (primo) teorema dell’economia del benessere. Secondo questo, solo una forma di mercato perfettamente concorrenziale consente all’economia di realizzare l’ottimo sociale, inteso come massimo benessere di tutti gli individui che partecipano al processo di produzione e scambio. Ancor più, la ricerca egoistica e individualistica della felicità personale, ripresa dallo homo oeconomicus di Adam Smith e dai filosofi del Settecento, finisce per realizzare un ottimo collettivo. Lasciamo agli individui esprimere liberamente e totalmente le loro preferenze in mercati caratterizzati dalla libera e piena competizione tra produttori, e con ben definiti diritti di proprietà, perché “la mano invisibile” smithiana – l’incontro tra la domanda e l’offerta – stabilisca un prezzo equo per ogni merce, un prezzo cioè che consente al consumatore e al produttore di realizzare i loro obiettivi di benessere. Tutto questo a un “costo” basso; è sufficiente che tutte le imprese abbiano la stessa (piccola) di- mensione e non possano influenzare il prezzo di mercato, che i consumatori siano perfettamente informati sulla qualità della merce e che le merci siano omogenee nelle loro caratteristiche, cosicché i produttori siano di fatto “anonimi” e in perfetta concorrenza tra loro.

Quale può essere il ruolo dello Stato in questo contesto? Ovviamente nessuno. L’economia di Pareto non ha bisogno dello Stato, che diventa solo un elemento di disturbo nell’armonia del mercato. Nessun altro ente regolatore è così lungimirante come il mercato nel soddisfare i bisogni individuali. La visione di Pareto non è lontana dalla meccanica celeste di Newton; l’esistenza di un “equilibrio economico generale” ricorda il sistema gravitazionale classico, dove astri e pianeti sono tenuti insieme armonicamente e immutevolmente nel tempo. Così come un supremo architetto ha disposto per l’universo, così il mercato assolve alla funzione di vegliare sull’equilibrio economico.

La visione di Pareto ha una forte suggestione intellettuale, perché suffragata dalla logica matematica. È il tentativo di fare assurgere l’economia da pensiero a “scienza” a tutti gli effetti. È questa in fondo la grande utopia paretiana: sgombrare il pensiero economico dal fardello dell’etica e dei giudizi soggettivi che avevano caratterizzato i grandi pensatori, da Smith a Ricardo a Marx, e fondare i presupposti per una scienza dell’economia. Quanto è riuscito Pareto in questo supremo tentativo culturale? Già Pareto era conscio degli elementi di debolezza della sua analisi, perché vi sono merci per le quali il mercato non è in grado di esprimere un prezzo (ad esempio i beni pubblici, come la difesa nazionale). Ma la maggiore obiezione sta nel concetto stesso di ottimo sociale. Il suo mondo perfetto e asettico era completamente muto su un punto che invece era stato al centro dell’analisi dei suoi predecessori: la giustizia distributiva del mercato. Se infatti il mercato perfettamente concorrenziale è in grado di rendere massimo il benessere individuale questo è vero solo relativamente alla distribuzione iniziale delle risorse. In altri termini, se gli individui sono fortemente sperequati nelle risorse di cui sono dotati all’origine, il mercato non è in grado di eliminare tale sperequazione. Questa pesante critica porterà Pareto a enunciare il secondo teorema dell’economia del benessere che comunque non risolverà il problema originario. In questo caso viene invocato direttamente un intervento redistributivo ex ante che, eliminando le sperequazioni iniziali, consentirà al mercato di trovare equilibri efficienti e anche equi sotto un profilo distributivo. E questo ruolo distributivo non può che essere effettuato da un regolatore esterno all’economia. Quindi Pareto finisce per contraddire se stesso. Il mercato è efficiente ed equo solo dopo un intervento dello Stato nell’economia.

Ma il fascino del primo teorema ha finito per prevalere nell’ortodossia del pensiero, tanto da far dimenticarne i limiti evidenziati nel secondo teorema. Nel frattempo il mondo cambiava in fretta. Il centro affaristico si era spostato dalla City londinese al tempio della finanza made in USA dove le grandi famiglie di banchieri decidevano le sorti economiche del pianeta. Lo sviluppo vertiginoso e senza precedenti degli strumenti finanziari moderni inaugurò una stagione dove al capitalismo delle imprese si sostituiva quello della grande concentrazione bancaria e finanziaria. Fino al ben noto evento del 1929. Questa data è fondamentale nella nostra riflessione. Come sta accadendo oggi, la crisi finanziaria tolse benzina al motore della crescita economica: il tessuto industriale, l’unica vera ricchezza di una nazione. Seguì un doloroso periodo di recessione economica, particolarmente forte nei due paesi leader, gli Stati Uniti e il Regno Unito. La forte disoccupazione che ne conseguì, e che non veniva riassorbita spontaneamente dalle economie di mercato, fece vacillare la fede degli economisti nel sistema paretiano, dove le crisi sono solo temporanee, perché la legge della domanda e dell’offerta finisce sempre per riequilibrare l’economia. La disoccupazione, divenuta strutturale, innescò forti attriti sociali. Il governo inglese varò una serie di provvedimenti fiscali, ispirati dalla figura di David Lloyd George, tesi a sostenere le imprese, anziché le famiglie, utilizzando fondi provenienti, tra l’altro, dalla riduzione dei sussidi alla disoccupazione. È in questo contesto che emerge la figura e il pensiero fondamentale di John Maynard Keynes. Quest’ultimo scrisse un piccolo pamphlet dal titolo “Can Lloyd George Do It?”. Questa che a torto viene considerata un’opera minore di Keynes rappresenta invece l’embrione di quella che verrà definita la «rivoluzione keynesiana». In questo breve saggio Keynes pone l’enfasi sul lato della domanda quale elemento trainante di una economia. In assenza di un adeguato livello di domanda non può esserci produzione e quindi generazione di reddito. Ridurre il sostegno ai salari significa ridurre il potere di spesa delle classi salariate, che sono quelle che hanno la più alta propensione al consumo a causa del basso tenore di vita. Questo vuoto di domanda porterà ad un eccesso di produzione che spingerà gli imprenditori ad una contrazione della medesima attraverso processi di revisione dei piani di produzione sfocianti in una riduzione del lavoro, essendo le macchine meno facilmente dismissibili. Questa ulteriore riduzione di occupazione acutizzerà ancor più il calo di domanda, innescando un processo (de)moltiplicativo dei consumi e quindi del reddito dell’economia. In totale contrapposizione all’economia di mercato, il problema non è nella determinazione dei prezzi delle merci, lavoro incluso, ma nel colmare il vuoto di domanda che una crisi come quella del 1929 comportava.

L’analisi keynesiana trova la sua definitiva consacrazione nella “Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta” del 1936. È in questo contesto intellettuale che l’economia di Stato si riprende la rivincita sull’economia di mercato. Nell’analisi keynesiana, infatti, si adotta una visione del mercato molto più complessa di quella di Pareto. Il mercato è contraddistinto dalla concentrazione industriale, dalle rendite monopolistiche, dall’informazione imperfetta, dalle speculazioni finanziarie, dall’irrazionalità degli agenti economici e soprattutto dalle loro aspettative (animal spirits). Tutti elementi che impediscono che la “mano invisibile” operi in modo corretto. Il sistema capitalistico è destinato a crisi continue per il suo stesso operare. Il disequilibrio del mercato diventa la regola e non l’eccezione. In questo contesto il livello di domanda nell’economia può essere insufficiente ad assorbire tutte le risorse disponibili. La disoccupazione diventa un fatto strutturale e non episodico a cui non si può sperare di porre rimedio attraverso la riduzione salariale, pena un inasprimento della crisi stessa. In tale contesto Keynes dimostrò come solo l’iniezione di risorse esterne all’economia, veicolate dallo Stato, può colmare il vuoto di domanda e, rivitalizzando gli animal spirits, far ripartire l’economia, in un processo moltiplicativo e circolare. Lo Stato interviene ogni qualvolta lo spirito imprenditoriale (gli animal spirits) viene meno, come nei periodi recessivi, ed è l’unico che può far ripartire una economia in crisi, non solo iniettando risorse ma anche mutando il clima delle aspettative. Sulla scia del pensiero keynesiano vanno letti i massicci interventi statali che hanno caratterizzato gli anni del boom economico italiano, con le nazionalizzazioni di grandi imprese e banche, l’istituzione di un sistema di welfare atto a mantenere i livelli di consumo delle fasce esposte della popolazione e del sistema di ammortizzatori sociali, oltre naturalmente ad uno sviluppo dell’attività sindacale.

Il sistema keynesiano rappresenta una valida alternativa all’economia di mercato? L’esperienza storica ne ha segnato i limiti. Le risorse che lo Stato mette in campo producono molti effetti indiretti che l’analisi keynesiana non prese in considerazione. In primo luogo la reperibilità delle risorse. Sostenere un elevato livello di spesa pubblica significa mantenere elevata la pressione tributaria se non si vuole creare un deficit crescente delle casse statali. Come è noto, questo elemento ha generato la disastrosa situazione dei conti pubblici italiani, che ci hanno obbligato per decenni a mantenere elevati i tassi di interesse sui titoli di Stato, che se da un lato hanno favorito il risparmio, non hanno certo aiutato il credito alle imprese né la stabilità del tasso di cambio. L’elevata pressione fiscale induce degli effetti perversi nelle scelte di accumulazione e di investimento degli individui; è inutile generare reddito se una cospicua parte finisce nelle “tasche” dello Stato anziché in quelle di chi ha generato tale reddito. Senza parlare dell’incentivo all’evasione, che diviene una specie di “giusto comportamento” per gli individui. Inoltre l’iniezione massiccia di risorse può avere effetti positivi sul livello di domanda, ma proprio per questo finisce per generare pressioni inflattive che riducono di fatto il potere di acquisto reale delle famiglie. Infine, come è spesso richiamato ultimamente, l’efficienza della macchina pubblica è minore di quella privata e quindi per ogni euro tolto al sistema privato per dirottarlo verso quello pubblico si riduce l’efficienza complessiva del sistema.

Insomma, Keynes non ha avuto miglior fortuna di Pareto. Ed è per questo che il rapporto conflittuale tra Stato e mercato è tuttora aperto e dibattuto. Volendo riassumere sinteticamente, possiamo dire che l’economia di mercato pone al centro dell’analisi il “lato dell’offerta” cioè il sistema produttivo imprenditoriale. Esso è l’unico generatore di reddito nell’economia; se non vi è produzione non vi è reddito e quindi non vi è domanda. Questa è in estrema sintesi ciò che gli economisti chiamano “legge di Say”: è l’offerta che crea la domanda. Sul versante opposto il pensiero keynesiano: è la domanda che genera il reddito proveniente dalla produzione. Senza domanda non può esserci produzione e quindi reddito. È chiaro che le politiche economiche che vengono messe in campo secondo i due casi polari sono profondamente diverse. La supply-side economics, cioè l’insieme delle misure invocate dai fautori del lato dell’offerta e del mercato, vede nelle politiche paretiane la chiave di volta dello sviluppo economico; favorire la libertà imprenditoriale, liberalizzare le imprese statali per aumentarne l’efficienza, evitare la concentrazione industriale e le rendite monopolitistiche, togliere tutti i freni che impediscono a prezzi e salari di adeguarsi in tempi rapidi alle condizioni di domanda e di offerta, liberalizzare e flessibilizzare il mercato del lavoro e lasciare che il mercato assorba spontaneamente le sue crisi, pur violente. Le politiche keynesiane vanno in senso opposto: nazionalizzazione delle imprese in crisi per salvaguardare occupazione e potere di acquisto dei salari, aumentare i livelli di assistenza e previdenza, salvaguardare l’occupazione e i salari con l’ausilio dei sindacati, sviluppare le grandi infrastrutture.

Quello che l’esperienza storica dimostra è che non esiste una ricetta precostituita. Entrambe le facce della medaglia hanno la loro importanza: non si può favorire un lato a scapito dell’altro, ma sostenerli entrambi. Il problema resta sempre quello di trovare il mix ottimale.

Stato e mercato nell’attuale crisi finanziaria internazionale: regole o intervento?

Questo percorso di ricostruzione storico-economico è di ausilio nella lettura della crisi finanziaria attuale e che non tarderà a tramutarsi in una crisi dell’economia reale. Le analogie con la crisi del 1929 sono molto forti e suggestive. Oggi, ancora una volta, la crisi viene dal settore bancario e finanziario, dal settore vitale per il credito alle imprese e quindi per il lato dell’offerta dell’economia. Ma anche per quello della domanda, dato che le famiglie sono particolarmente esposte con il settore bancario per via dei prestiti al consumo e i mutui immobiliari. Keynes direbbe che avremmo bisogno di un ruolo attivo dello Stato. Ed è in realtà quello che stiamo vedendo, con le banche centrali e gli Stati nazionali che stanno entrando pesantemente nelle economie di mercato. Quanto è efficace questo intervento se lo poniamo nell’ottica del mercato finanziario attuale? Questo è ancor più complesso di quello che Keynes credeva e ancor più dipendente dalle “isterie” degli investitori, legate alle loro aspettative. E certamente molto lontano da quell’ideale razionalità individuale necessaria al mondo di Pareto. Oggi il prezzo di un’azione spesso non è effettivamente rappresentativo della forza di un’azienda, cioè del contributo di generazione del valore che questa impresa ha nel paese. Vi sono piazze borsistiche euforiche in paesi che hanno performance di economia reale molto meno brillanti, come in America Latina. Il moderno capitalismo assomiglia ormai molto più ad un casinò aperto ventiquattro ore al giorno, con milioni di giocatori ben informati, specializzati e agguerriti. Dove l’avvento degli strumenti informatici ha drasticamente ridotto i tempi e i costi di transazione. Se da un lato Pareto saluterebbe tutto ciò come benvenuto, perché aumenta l’efficienza degli scambi, dall’altro si rischia di scollare il sistema finanziario da quello produttivo, che rimane invece l’unico vero generatore di valore per una nazione. Queste attività finanziarie non possono essere immuni dal rischio, benché gli economisti cerchino di ridurne la portata attraverso la creazione di nuovi strumenti finanziari. Le istituzioni finanziarie tendono alla concentrazione per avere più potere di mercato e imporre le proprie strategie. Si cerca di attirare in ogni modo clientela sulla quale scaricare il rischio, si inventano sempre nuovi strumenti. Il sistema genera ricchezza in modo moltiplicativo; un euro investito ne genera molti altri ma tutti basati su quell’unico euro iniziale. È una piramide rovesciata che poggia su un vertice in bilico, ma con una base in continua espansione. La ricerca di questi profitti spinge ad aumentare la platea dei clienti, facendo entrare nel casinò anche quelli che non hanno le garanzie per farlo, e offrendo sempre nuove e affascinanti slot-machines, come la finanza derivata.

Viene incentivato lo scoperto, cioè la possibilità di speculare non con denaro proprio ma attraverso forme di indebitamento che aumentano l’esposizione al rischio. La base della piramide rovesciata cresce e perde la fondamentale relazione con il suo fulcro. Il Fondo monetario internazionale ha stimato, per la crisi in atto, perdite per 1.400 miliardi di dollari ma è una stima ottimistica che viene rivista al rialzo quasi quotidianamente.

In questo mondo esiste una “merce” cruciale per evitare le crisi: la fiducia degli investitori (Keynes direbbe gli animal spirits). Quando questa si incrina la piramide vacilla e rischia il crollo. Ma coordinare le aspettative di milioni di investitori non è possibile. È una degenerazione del mercato che gli economisti conoscono bene, tanto da averli portati ad esplorare la matematica del caos per spiegare questi comportamenti. E qui veniamo alla questione centrale. Cosa si deve fare in una crisi del genere? Occorre che lo Stato intervenga attivamente, come sta succedendo, nazionalizzando o sostenendo le imprese in crisi, iniettando liquidità nel sistema, riducendo i tassi di interesse per sostenere il credito alle imprese, sostenere le famiglie o lasciare che il mercato si curi da solo? In altri termini, cercare di sostenere l’economia ed evitare il panico finanziario o aspettare che i comportamenti irrazionali degli investitori si modifichino spontaneamente? La risposta è in realtà molto più banale: bisogna intervenire prima che la crisi si manifesti. E che la crisi stava arrivando non era un mistero, né per le banche centrali, Fed in testa, né per le grandi investment banks. Già in settembre gli Stati Uniti registravano il valore più elevato di disoccupazione dal 2003. Ma non si sono voluti adottare i controlli e le procedure di vigilanza che erano necessari e si è continuato a incoraggiare il mercato immobiliare negli Stati Uniti oltre misura e la collocazione di attività ad alto rischio ad esso collegato tra la clientela “retail” in Europa, Italia inclusa. Oggi pensare di tamponare una crisi di queste proporzioni con lo stanziamento di 700 miliardi di dollari da parte americana e con analoghi interventi in Europa è come ripararsi con un ombrellino durante un tornado. L’esposizione finanziaria globale è un multiplo di tutte le monete in circolazione e molto più dell’insieme delle riserve delle banche centrali. La Banca dei regolamenti internazionali ha stimato che l’esposizione dei soli contratti derivati ammonta a undici volte il PIL del pianeta ed era 2,5 volte solo dieci anni fa. Gli interventi statali possono solo da- re ai risparmiatori il segnale di non essere soli e cercare così di contenere la loro fuga dal sistema bancario e finanziario. Non certo alla speculazione che inevitabilmente si mette in moto durante le crisi. Non è un caso che le principali borse mondiali continuino a registrare record negativi pur con questi massicci interventi statali. Il mercato sa bene che non sono questi interventi a frenare il domino innescato dalla crisi. Questo tsunami finanziario finirà quando la speculazione internazionale dei grandi investitori (legati principalmente agli hedge funds e alle investment banks) avrà ripreso posizioni di equilibrio, ma avrà mietuto migliaia di vittime. Si potrà solo ricostruire, ma l’errore più grande sarebbe ignorare la morale di questa brutta favola. In un mondo finanziario globalizzato e informatizzato gli Stati nazionali possono fare ben poco. Nell’ultimo “World Economic Outlook”, il FMI ammoniva che le crisi finanziarie sono molto più cruente nei paesi con mercati altamente sofisticati. Solo un sistema rigoroso e coordinato tra gli Stati di controlli e vigilanza sull’ingegneria finanziaria e sui comportamenti degli emittenti e dei collocatori, insieme a un sistema giuridico penale credibilmente sanzionatorio dei comportamenti opportunistici, possono ridurre il rischio futuro di queste crisi. Lo Stato esce perdente, ma anche una certa idea di mercato: quello dove non esistono regole. Lasciamo quindi che la mano invisibile operi, perché è più forte dello Stato, ma delimitiamo con chiarezza e fermezza i limiti entro i quali essa può liberamente operare.