Politiche contro la povertà: un problema che non trova soluzioni

Di Tiziano Vecchiato Giovedì 09 Ottobre 2008 18:20 Stampa
La povertà in Italia non diminuisce e i segnali che si regi­strano a questo proposito sono preoccupanti. Una pro­gressiva riconversione della spesa per assistenza sociale aprirebbe nuove possibilità di intervento in questo ambi­to. Gran parte degli interventi si riduce attualmente a soli trasferimenti monetari, mentre nuove soluzioni, senza au­mentare gli attuali livelli di spesa, potrebbero venire dal potenziamento dei servizi.

Conoscere e non fare

La povertà nel nostro paese è una costante. Ogni anno si ripresenta con gli stessi numeri (nel 2006 erano povere l’11,1% delle famiglie), che descrivono un paese che non sa o non vuole affrontare il problema, visto che il fenomeno non accenna a diminuire, ma anzi, persiste e si consolida (negli ultimi cinque anni la povertà relativa è rimasta sostanzialmente invariata). I segnali sono preoccupanti, perché prefigurano la sua estensione a fasce di popolazione che mai avrebbero pensato di esserne interessate (quasi due milioni di famiglie, pari all’8,2%, sono a rischio povertà).

Le sintesi ci dicono che i poveri sono soprattutto al Sud (1 persona su 4), che le famiglie con tre e più figli minori sono ad alto rischio povertà (30,2%), che ne soffrono molti anziani soli, in modo crescente al Nord (tra il 2005 e il 2006 la povertà è passata dal 6 al 7,9%). Numerose famiglie monogenitoriali (quasi sempre madri sole con figli) vivono in condizioni di deprivazione. Molti giovani a basso reddito sarebbero poveri se le loro famiglie non supplissero alla loro precarietà e instabilità lavorativa.

Un quadro “normale”, che poco ha a che vedere con l’immagine tradizionale del povero, facilmente riconoscibile, disoccupato, poco desideroso di lavorare, con problemi psichici e di integrazione sociale. La povertà sta assumendo volti nuovi e inediti. La cronaca li racconta e quindi riusciamo a conoscerli più da vicino, a capire che il rischio di diventare poveri è molto più normale e diffuso che in passato.

Agli osservatori della Caritas diocesana, ai centri di ascolto arriva una domanda di aiuto crescente da parte di “residenti” rispetto a quella consueta: la prima immigrazione e le persone senza fissa dimora. Spesso si tratta della cosiddetta «povertà dignitosa », che non volendo farsi riconoscere e accettarsi, non si rivolge ai servizi sociali, alle istituzioni, ma percorre strade più discrete, che sfuggono al conteggio dei “poveri”. Non sono però solo questi segnali a preoccupare. Cresce soprattutto il rischio di povertà, che (dopo i trasferimenti pubblici) rimane tra i più alti in Europa (l’indice Eurostat 2006 è pari a 20, mentre in Olanda è 10, in Danimarca e Svezia 12, in Francia e Germania 13). Lo testimonia anche la crescita delle sofferenze bancarie delle famiglie, la crescente difficoltà ad accedere a beni primari, la crescita del credito al consumo, aumentato del 28,5% negli ultimi due anni. L’analisi tuttavia resta fine a se stessa se non affronta il tema del “cosa fare”, per non ritrovarsi a essere semplicemente osservatori passivi, che continuano a fare anatomia patologica del problema senza affrontarlo.

Un paese con molti poveri, ma senza una strategia

Se nel nostro paese il problema povertà non trova risposta è anche perché non si è cercato di individuarne una. Sono state messe in cantiere alcune “iniziative”, tra cui la Commissione di indagine sulla povertà, oggi Commissione di indagine sull’esclusione sociale, e la sperimentazione del reddito minimo di inserimento (RMI). Ma non possiamo pensare che singoli interventi possano supplire alla cronica mancanza di azione strategica. Dobbiamo prendere atto della situazione di stallo in cui ci troviamo e a cui ci consegna la mancanza di scelte del passato.

Attraverso la scelta del titolo “Rassegnarsi alla povertà”,1 il settimo rapporto su povertà ed esclusione sociale in Italia ha voluto denunciare questa perdurante carenza e, nello stesso tempo, chiedersi quali risposte potevano essere date al problema. L’esperienza non ci è di grande aiuto. Malgrado il problema sia strutturale, si è pensato di affrontarlo con misure settoriali. L’approccio basato sull’adozione di «misure», cioè di mezzi ulteriori, e non di strategie capaci di riqualificare le dinamiche strutturali della spesa sociale, si può riconoscere anche nella sperimentazione del RMI. Il fabbisogno stimato per la sua attuazione nazionale, pari a circa 3 miliardi di euro, ha reso improponibile la possibilità di proseguire su questa strada. In una fase di grande limitatezza delle risorse (ma quando non è stato così?) la soluzione al problema della lotta alla povertà non sta “oltre” quello che facciamo, ma in un diverso modo di utilizzare le risorse che abbiamo a disposizione. Anche su questo la discussione è aperta. Il fondo per le politiche sociali (1,5 miliardi di euro), la spesa sociale dei Comuni (oltre 5 miliardi di euro), la spesa sociale delle Regioni sono parti di un tutto. Bisogna avere una visione complessiva dei mezzi a disposizione, per passare dalla loro conoscenza all’analisi delle modalità di gestione, per passare cioè dalla logica dei mezzi a quella dei fini e delle strategie per conseguirli.

Di quanto disponiamo

In Italia utilizziamo circa un quarto del PIL per la protezione sociale.2 Si tratta di un impegno non indifferente, in armonia con alcuni paesi (26,0% in Grecia, 26,3% nel Regno Unito, 26,7% in Finlandia), ma inferiore, per esempio, a quello di Austria (29,1%), Belgio (29,3%), Germania (29,5%), Danimarca (30,7%), Francia (31,2%) e Svezia (32,9%).3 Più della metà della spesa sociale (56,1%) è destinata alla voce Pensioni in senso stretto e TFR. Il resto è ripartito tra le voci: Assicurazioni del mercato del lavoro (6,6%), Assistenza sociale (11,9%), Sanità (25,4%). Gran parte delle risorse vengono impiegate quindi per l’ultima fase della vita. Destiniamo molto poco alla prima fase della vita e al sostegno delle responsabilità familiari, dove si annida una parte considerevole di povertà. Il volume complessivo della spesa per assistenza sociale è di quasi 47 miliardi di euro. Quello specifico è di circa 780 euro pro capite. Questi dati, riportati nella Tabella 1, evidenziano un problema: non c’è consenso su come quantificare questa spesa. Rispetto all’impostazione dei conti della protezione sociale Sespros adottata dall’ISTAT, altre voci di spesa pubblica dovrebbero essere incluse nella voce Assistenza sociale. Si tratta delle integrazioni delle pensioni al minimo e degli assegni sociali, che l’ISTAT conteggia nella previdenza, ma che tali non sono. Già dieci anni fa la Commissione Onofri aveva sollevato il problema e proposto una diversa lettura della composizione della spesa per assistenza sociale.

La differenza non è di poco conto. Nel secondo caso, si tratta di risorse trenta volte superiori al cosiddetto Fondo sociale nazionale. Dobbiamo quindi chiederci se ragionare per fondi “finalizzati” o ripartire dall’ammontare complessivo delle risorse a disposizione. Senza una visione d’insieme è praticamente impossibile affrontare il problema nella sua globalità e complessità.

Nuove basi per lottare contro la povertà

Un piano di lotta alla povertà è oggi possibile senza pensare di aumentare la spesa per assistenza sociale. Prima di aumentarla (supposto che sia possibile) è anzitutto necessario riqualificarla e, ove ce ne sia bisogno, ristrutturala. Il volume complessivo della spesa per la protezione sociale, pari a 366.878 milioni di euro vale più della metà del-

 

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le risorse delle amministrazioni pubbliche (secondo i dati del 2008 del ministero dell’Economia). Nel 2007 è stata pari al 55,7% della spesa corrente, nel 2006 è stata invece del 56,1%. È direttamente condizionata dal debito pubblico, in particolare da quello accumulato nel periodo 1970-95 (cresciuto dal 37,4 al 124,3%). La spesa per interessi nel 2005 è stata di circa 65,5 miliardi di euro, quindi di gran lunga superiore all’intera spesa per assistenza sociale.

In secondo luogo, la spesa sociale è quasi totalmente destinata a trasferimenti monetari e non alla fornitura di servizi. È questa una grande anomalia italiana: alle persone e alle famiglie povere vengono dati soldi e non risposte più mirate ad eliminare le cause del bisogno. Si privilegia l’erogazione economica anche a causa dell’incapacità strutturale di dare risposte adeguate. A questo si aggiunge l’incapacità di passare dall’operare per “misure” all’operare per percorsi di “responsabilizzazione” e di “presa in carico” del problema. Da tempo Gorrieri si chiede se non ci siano troppi trasferimenti monetari: «Il vero problema è che – mentre, da un lato, le agevolazioni monetarie, spesso disperse a pioggia, sono inadeguate per le situazioni di effettivo bisogno – nello stesso tempo la distribuzione dei servizi socio-assistenziali nel territorio nazionale va dalla quasi assenza in certe zone ad una soddisfacente copertura in altre. In molte aree del Mezzogiorno (e anche dell’Italia centrale) si è largheggiato, in passato, nella concessine di sussidi monetari, come le pensioni d’invalidità o l’integrazione al minimo di pensioni; ciò a scapito dell’impegno per la creazione della rete di servizi».4

Infine bisogna considerare che gran parte della spesa per assistenza sociale è ancora gestita a livello centrale, malgrado le modifiche costituzionali prevedano il contrario. Le competenze sono state trasferite dal centro a Regioni e Comuni; quindi si profilerebbe una gestione illegittima da parte dello Stato di risorse che dovrebbero o potrebbero essere gestite in modo maggiormente commisurato ai bisogni di ogni territorio. Un piano di lotta alla povertà deve cioè necessariamente mettere radici nella transizione – in qualche modo – storica, che vede il nostro paese costruire nel tempo condizioni per una più sostanziale condivisione di responsabilità sui problemi a cui dare risposta.

Erogazioni monetarie o servizi?

Qual è il rapporto tra erogazioni monetarie e servizi? Se la cifra di riferimento è quella della spesa sociale quantificata dall’ISTAT, pari a 29.061 milioni di euro, il rapporto tra erogazioni economiche e servizi è di 3 a 1. Se invece utilizziamo il valore di classificazione della Commissione Onofri, pari a 46.988 milioni di euro, il rapporto tra erogazioni economiche e servizi diventa di 7 a 1.

In realtà il rapporto è ancora più sfavorevole se consideriamo che i trasferimenti monetari non sono gestiti solo dallo Stato ma anche da altre amministrazioni, in particolare dai Comuni. Dei circa 86 euro pro capite spesi dai Comuni italiani per servizi sociali, quasi un quarto sono destinati a trasferimenti monetari.5 In questo modo il rapporto tra erogazioni monetarie e servizi diventa di 12 a 1. Sono dati che parlano da soli e ci dicono dell’urgenza di invertire questa tendenza. I maggiori effetti redistributivi dei servizi rispetto ai trasferimenti sono noti da tempo. I servizi educativi e sanitari sono più capaci di ridurre la disuguaglianza e la povertà rispetto ai trasferimenti monetari erogati dall’assistenza sociale.

«Da trasferimenti monetari a servizi» e «da gestione centrale a gestioni decentrate» sono i due orientamenti strategici proposti nel settimo rapporto su povertà ed esclusione sociale in Italia e meglio articolati nell’ultimo e più recente rapporto della serie.6 Entrambi sono stati pensati per evidenziare la possibilità di un piano di lotta alla povertà anche nel nostro paese, senza necessariamente contare su risorse aggiuntive rispetto a quelle oggi utilizzate per dare assistenza sociale.

I Comuni classificano nell’area della povertà il 6,8% della loro spesa sociale, cioè poco più di 363 milioni di euro. Sappiamo che la povertà non può essere affrontata solo a partire dal versante dell’assistenza sociale, ma il fatto che anche la spesa per assistenza sociale, pur limitata, possa dare il proprio contributo è un segnale politico e tecnico necessario. Può essere di stimolo ad altri centri di responsabilità e di decisione.

Da dove cominciare?

Due ambiti di spesa sociale in cui si concentrano molte situazioni di povertà e di esclusione sono quelli della non autosufficienza e delle famiglie con figli. Queste due aree, in termini di spesa, valgono oltre 16 miliardi di euro. La spesa per indennità di accompagnamento al primo gennaio 2007 ammontava infatti a 7.128 milioni di euro (a cui vanno aggiunti 3.047 milioni di indennità e pensioni di invalidità), mentre la spesa per assegni familiari, comprensiva di assegni familiari e assegni al nucleo familiare, nel 2007 è stata di 6.427 milioni di euro. Il primo problema da porsi è quello del rendimento di questa spesa. Non è difficile dimostrare che è molto basso, tra i più bassi in Europa in termini di capacità di ridurre la povertà. Il diritto al trasferimento monetario è tutelato, ma la risposta ai bisogni di chi è povero è tutta da dimostrare.

Secondo i dati del 2008 della Ragioneria generale dello Stato la spesa italiana per servizi sanitari e riabilitativi per le persone non autosufficienti, ad esempio, è pari all’ammontare dei trasferimenti in denaro per indennità di accompagnamento. Il rendimento della prima (spesa per servizi con benefici in termini di cura, riabilitazione) è documentabile. Ben poco sappiamo della capacità della seconda di ridurre la povertà, l’esclusione e i carichi assistenziali della famiglia. Una ragione strategica per ristrutturare (e riqualificare) parte delle due aree di spesa qui considerate è legata al fatto che non basta allocare gli esborsi; bisogna anche interrogarsi sulle sue condizioni di efficacia, sul rendimento sociale, sulla sua capacità di protezione e tutela dei più deboli. Bisogna in definitiva passare dall’ossequio formale al diritto ad una maggiore responsabilizzazione sulle condizioni di efficace esercizio di tale diritto, superando la logica della mera riscossione. Non si tratta quindi di togliere benefici riconosciuti agli attuali percettori di indennità di accompagnamento e/o di assegni familiari, ma di rinegoziare con loro le condizioni per una maggiore efficacia di quanto viene loro dato, a partire dai bisogni dei molti poveri che ci sono tra loro. I protagonisti di un possibile esperimento sarebbero le Regioni e gli enti locali, insieme con chi rappresenta gli interessi degli aventi bisogno e diritto, avendo in mente che maggiori investimenti in servizi possono avere un impatto positivo contro la povertà, come avviene in altri paesi.

Conclusioni

Gli strumenti per dare soluzioni al problema della povertà sono numerosi: passare da un approccio categoriale a un approccio per persona e famiglia; sperimentare soluzioni perché una parte degli attuali trasferimenti monetari possa essere fruita in termini di servizi, senza costi per gli aventi diritto; valutare il rendimento sociale delle nuove soluzioni; dimensionare le risposte tenendo conto della gravità del bisogno, dando di più a chi ha più bisogno (oggi le indennità sono erogate indipendentemente dal reddito); valorizzare il lavoro di cura della famiglia, anche prevedendo che parte della riconversione sia trasformata in tutela integrativa per i familiari che se ne fanno carico. È cioè possibile e urgente sperimentare nuove forme di utilizzo solidaristico delle risorse disponibili, per ridurre non solo il numero degli attuali poveri, ma anche quello delle persone e famiglie che rischiano di diventarlo.

[1] Caritas Italiana, Fondazione Zancan, Rassegnarsi alla povertà. Rapporto 2007 su povertà ed esclusione in Italia, Il Mulino, Bologna 2007.

[2] 26,1% nel 2004 rispetto ad una media europea (UE a 25) del 27,3%.

[3] Dati Eurostat 2004.

[4] E. Gorrieri, Parti uguali da disuguali, Il Mulino, Bologna 2002.

[5] T. Vecchiato, Per un piano di lotta alla povertà: risorse, bisogni, ipotesi e proposte, in Caritas Italiana, Fondazione E. Zancan, op. cit., pp. 27-106.

[6] Caritas Italiana, Fondazione E. Zancan, Ripartire dai poveri, Ottavo rapporto su povertà ed esclusione sociale in Italia, Il Mulino, Bologna 2008.