L'emergere della vulnerabilità sociale nella società dell'incertezza

Di Costanzo Ranci Giovedì 09 Ottobre 2008 18:14 Stampa
I processi economici e sociali in atto stanno trasformando rapidamente la questione sociale. In crisi sono i principa­li pilastri intorno a cui si è costruito il cosiddetto “model­lo europeo”: una forte stabilità occupazionale, l’ampiez­za e generosità dei programmi di welfare, la persistenza di forti legami familiari. Queste trasformazioni determina­no la diffusione di un’ampia vulnerabilità sociale che col­pisce i ceti medi, danneggiati, più che da una riduzione del tenore di vita, da una prolungata fase di instabilità sociale ed economica.

La questione sociale oggi

Negli ultimi due decenni i cambiamenti in atto nella società hanno creato muove forme di insicurezza e di instabilità, che colpiscono una quota molto ampia di cittadini europei. La nostra società sembra afflitta da uno strano paradosso: da quando la capacità dei sistemi sociali di offrire protezione dai rischi sociali ha raggiunto il suo massimo storico, sono in costante incremento l’incertezza e l’instabilità. Come interpretare questo paradosso? Quale spiegazione offrirne?

Una risposta possibile è di considerare l’incertezza come l’effetto inevitabile di una fase di transizione, caratterizzata dalla destrutturazione della società fordista e dal passaggio verso una nuova forma di organizzazione sociale. La paradossale compresenza del massimo di sicurezza e di insicurezza rifletterebbe le ambivalenze e le contraddizioni tipiche delle fasi di passaggio, quando sembrano prevalere gli elementi di disorganizzazione rispetto a quelli di riorganizzazione. Un fenomeno transitorio, che riflette più la crisi del capitalismo organizzato che la costruzione di un nuovo ordine sociale.

Secondo un’altra prospettiva, non si tratta invece di una sindrome transitoria, ma di un tratto permanente della società postindustriale. Sino a quando le società industriali sono state capaci di scommettere sullo sviluppo futuro, la predisposizione al rischio è stata elevata: come afferma Beck, nelle società industriali la “logica” di produzione della ricchezza domina sulla “logica” di produzione dei rischi. Nelle società postindustriali, il rischio cessa invece di costituire un effetto collaterale per occupare sempre di più il centro della scena. Alla fiducia nella capacità di mantenere sotto controllo i rischi subentra una nuova inquietudine, un’incertezza connessa all’idea che i nuovi rischi non siano del tutto prevedibili e controllabili. Cresce un’utopia della sicurezza, dal carattere peculiarmente negativo e difensivo. Non si tratta più di ottenere qualcosa di “buono”, ma soltanto di evitare il peggio: l’obiettivo che emerge è l’autolimitazione.

Ma quali sono i nuovi rischi che emergono nelle società postindustriali di oggi? Il cosiddetto Modello sociale europeo, che ha caratterizzato lo sviluppo delle società salariali europee dall’ultimo dopoguerra, si è retto a lungo su tre pilastri fondamentali: una forte stabilità occupazionale, l’ampiezza e generosità dei programmi di welfare, la persistenza di forti legami di solidarietà familiare e sociale, fondati sulla netta divisione per genere dei ruoli e sulla responsabilità reddituale del capofamiglia maschio. Lo sviluppo dei sistemi di welfare ha contribuito in modo sostanziale alla saldatura tra il modello organizzativo dominante nella sfera produttiva e quello prevalente nella sfera familiare, offrendo protezione contro il rischio considerato più grave, ovvero la perdita del lavoro.

Nell’arco di poco tempo, i tre pilastri (lavoro, famiglia, welfare) su cui si sono rette le società europee del dopoguerra hanno tuttavia perso la capacità di provvedere al benessere e alla sicurezza di molti cittadini. Secondo Esping-Andersen, queste istituzioni sono oggi le fonti principali di pericolo. Ad essere minacciati sono sia i cittadini delle classi di età e di reddito più estreme, sia quelli appartenenti ai ceti medi e alle classi d’età centrali. Un processo che è stato definito da Castel di «progressiva erosione delle posizioni intermedie».

Una prima forma di erosione riguarda l’organizzazione del lavoro. La rottura fondamentale con il modello salariale consiste nell’indebolimento della capacità dell’attività economica di fungere da meccanismo principale di integrazione sociale. Al- l’origine di questo processo sta soprattutto la precarizzazione del lavoro, ovvero la costituzione di rapporti di lavoro non fondati sulla continuità di una competenza messa a disposizione, quanto sulla realizzazione immediata di compiti specifici. Una seconda forma di erosione consiste nella perdita graduale di densità delle reti familiari, determinata in parte dalle nuove dinamiche demografiche e in parte dalla riorganizzazione delle convivenze familiari. Si diffondono famiglie unipersonali nonché famiglie monogenitoriali. Gran parte delle famiglie nucleari tradizionali conosce una vera e propria rivoluzione interna, segnata da un lato dall’assunzione di un ruolo lavorativo della donna e dall’altro dalla prolungata permanenza dei figli nell’ambito familiare ben oltre la soglia dell’autonomia economica.

Sono tutti segnali di una progressiva individualizzazione della vita sociale che, pur non compromettendo la famiglia come forma di organizzazione fondamentale della convivenza, ne determina profondi cambiamenti a livello organizzativo e relazionale. Tutto ciò determina un indebolimento della famiglia nella sua funzione fondamentale di raccolta e di redistribuzione delle risorse a tutela dei soggetti più deboli: i bambini, gli anziani, le persone che per condizioni di salute proprie o altrui non possono lavorare. Anche il reciproco sostegno tra diverse generazioni con legami di parentela si fa più aleatorio, esponendo molte persone, soprattutto quelle più anziane, all’insicurezza e all’incertezza sul loro futuro.

A questi mutamenti fa da contrasto la forte rigidità dei sistemi di welfare. Essi sono l’oggetto di un terzo processo di erosione. I sistemi di welfare sono rimasti intrappolati dentro un modello che non è più in sintonia con il profilo dei rischi sociali dominante nelle società europee. In molti paesi europei i sistemi di protezione sociale offrono una protezione significativa solo a quella parte della cittadinanza che è ancora integrata entro una struttura produttiva di tipo salariale. Sotto i colpi della crisi fiscale e organizzativa dello Stato sociale, parte di queste protezioni vengono oggi concesse ad una quota più ristretta di cittadini e con minore generosità che in passato. Ma, fatto ancor più importante, sono intanto emersi nuovi profili di rischio per i quali il welfare State esistente non è attrezzato a dare risposte adeguate. Profili di rischio più frammentati che in passato e che richiedono un ri- pensamento complessivo dell’architettura finanziaria e organizzativa del sistema di welfare per essere adeguatamente tutelati.

I nuovi rischi sociali

I rischi sociali emergenti oggi sorgono all’incrocio tra precarizzazione del lavoro, instabilità reddituale, fragilizzazione dei supporti di prossimità e inerzia delle istituzioni preposte alla protezione sociale. Sono identificabili quattro aree problematiche principali.

La prima riguarda la diffusione della povertà temporanea: un’ampia area di cittadini europei che sperimentano temporaneamente, e spesso sporadicamente, una situazione di povertà relativa. Un’area di povertà transitoria che interessa complessivamente il 20-25% della popolazione dei paesi europei, con punte più alte nel Sud Europa e in Gran Bretagna e più basse nei paesi dell’Europa continentale e nei paesi scandinavi. Questa area di povertà temporanea è complessivamente molto più ampia di quella della povertà persistente, a segnalare come si sia diffusa un’area di fragilità e di rischio caratterizzata strutturalmente dall’instabilità dei redditi e dalla conseguente fluidità della collocazione sociale ed economica. L’instabilità reddituale designa infatti una condizione di vita caratterizzata da un forte stress economico, da una decisa compressione del tenore di vita, spesso accompagnata da una situazione patrimoniale alquanto incerta.

Una seconda area problematica riguarda la diffusione delle posizioni occupazionali e delle carriere caratterizzate dalla precarietà e dalla temporaneità. Nell’Europa occidentale la percentuale di occupati temporanei passa dall’8% del 1996 all’11% del 2006. Negli ultimi anni l’incidenza del lavoro temporaneo ha superato quella della disoccupazione, che complessivamente passa dal 10% nel 1996 al 7% nel 2006, segnalando come l’area sociale collocata nella precarietà, tra lavoro e non lavoro, sia oggi una componente maggioritaria rispetto a quella dell’esclusione dal lavoro. Le conseguenze della diffusione dei lavori temporanei vanno considerate soprattutto in relazione all’aumentato rischio di acquisire un salario ridotto, di restare intrappolati in occupazioni co stantemente precarie e di finire, con il tempo, in una posizione di progressiva esclusione dal mercato del lavoro. Questi rischi appaiono particolarmente elevati per i lavoratori precari con bassa istruzione e bassa qualificazione professionale. L’ultimo decennio ha visto un aumento progressivo del livello di istruzione dei lavoratori e una conseguente riduzione dei lavoratori precari con bassa istruzione. In questo stesso periodo di tempo l’instabilità lavorativa si è diffusa maggiormente sia nelle occupazioni di servizio (soprattutto di tipo commerciale) e a bassa occupazione, sia nel lavoro tecnico e professionale ad elevata qualificazione. Si tratta quindi di una condizione di lavoro che si sta progressivamente diffondendo anche in figure professionali in precedenza caratterizzate da un lavoro dipendente: un cambiamento rilevante di status che tocca ceti sociali tradizionalmente considerati al riparo dai rischi tipici della precarietà lavorativa. L’occupazione precaria si estende attualmente ben oltre la popolazione giovanile: sempre nella UE a 15 soltanto il 34% dei lavoratori precari sono in età inferiore a 24 anni, mentre il 41% è costituito da lavoratori in età compresa tra 25 e 39 anni. La probabilità che un giovane sino a 24 anni svolga un lavoro temporaneo era nel 1996 pari al 34% ed è aumentata in dieci anni del 20%, raggiungendo ora la quota del 41%. Nella fascia d’età successiva (tra 24 e 39 anni) la crescita è stata del 34% (passando dal 16% al 21%). La crescita del lavoro temporaneo è aumentata quindi ad un tasso più elevato nella fascia dei lavoratori compresi tra 25 e 39 anni, segnalando un progressivo spostamento della precarietà oltre la fascia dei lavori di ingresso e una sua progressiva estensione su un arco di tempo più lungo della carriera lavorativa.

La terza area critica riguarda la conciliazione tra working and mothering: un problema che si diffonde in conseguenza dell’aumento dell’occupazione femminile e della crescente importanza per le famiglie di disporre di due earners allo scopo di mantenere un reddito familiare soddisfacente. Nell’arco dell’ultimo decennio il tasso di attività femminile è aumentato nei paesi della UE a 15 del 10%, raggiungendo ora il 63% della popolazione femminile in età lavorativa. Nello stesso periodo la distanza tra il tasso di attività femminile e quello maschile è diminuita di ben un quarto, rendendo molto più ravvicinata la situazione tra i due sessi. Ciò, tuttavia, ha scatenato forti tensioni intorno al problema della conciliazione tra lavoro e maternità. Se si considerano i periodi di vita in cui il lavoro femminile coincide con la maternità (25-34 anni e 35-44 anni), si nota come la distanza esistente tra i tassi di attività maschile e femminile è di circa 15 punti. Gran parte di questa distanza (circa due terzi, stando alle stime di Eurostat) è determinata dall’assunzione parallela di responsabilità familiari e dalla presenza di bambini in età prescolare. Il perdurare dei problemi di conciliazione tra lavoro e cura non ha ricadute negative soltanto sull’occupazione femminile e sulle disuguaglianze ancora esistenti tra donne e uomini nella partecipazione al lavoro, ma anche su altri due aspetti della vita sociale: sull’esposizione alla povertà delle famiglie con bambini piccoli e sull’equilibrio demografico della popolazione europea. Va infatti considerato che la diffusione delle famiglie dual earner sembra costituire, secondo molti osservatori, la migliore difesa contro il rischio di povertà, e ha in effetti controbilanciato, nel corso degli anni Novanta, la tendenza all’aumento delle disuguaglianze economiche. Oggi sono proprio le famiglie organizzate intorno al modello tradizionale male breadwinner quelle maggiormente a rischio di povertà. Secondo Esping-Andersen emerge anzi una crescente polarizzazione tra le famiglie dual income e quelle male breadwinner, che richiederebbero il rafforzamento delle politiche familiari allo scopo specifico di contrastare il rischio di povertà e di esclusione sociale. Un secondo aspetto problematico riguarda il rapporto tra occupazione femminile e tasso di fertilità. Questi due aspetti sembrano infatti correlati positivamente grazie alla presenza di politiche familiari di sostegno al costo dei figli e alla diffusione dei servizi pubblici di childcare. Ciò spiega, unitamente a fattori culturali, perché la correlazione risulti invece negativa per i paesi dell’Europa meridionale e molto bassa per quelli dell’Europa continentale.

L’ultima area critica riguarda le condizioni di vita della popolazione più anziana. L’implicazione più rilevante riguarda l’ampliarsi del numero di persone non autosufficienti che necessitano di una assistenza long-term care. Per effetto dell’allungamento progressivo della vita e del miglioramento delle condizioni di vita determinati dal miglioramento delle terapie sanitarie, la non autosufficien- za è destinata in futuro a diffondersi nella popolazione e ad avere una durata maggiore. Essa inoltre si concentrerà sempre di più nella popolazione al di sopra degli 80 anni. Oltre questa soglia di età si collocano oggi circa 17 milioni di persone nell’area UE a 15. La quantità assoluta è tuttavia destinata ad aumentare rapidamente, anche grazie all’ingresso in questa fascia di età di coorti molto numerose. Mentre la popolazione complessiva resterà stabile, la popolazione sopra gli 80 anni è destinata ad aumentare ad un tasso vicino al 3% annuo, raddoppiando di consistenza nell’arco di trent’anni circa, finendo per rappresentare nel 2025 una quota pari al 7% della popolazione complessiva. Anche se l’incidenza della dipendenza sarà inferiore a quella attuale, si calcola che comunque la popolazione non autosufficiente conoscerà un aumento esponenziale nei prossimi decenni.

La famiglia costituisce, in tutti i paesi europei, la prima risorsa di cura per le persone non autosufficienti. Si stima che nei paesi dell’Europa occidentale la cura informale copra circa tre quarti della cura complessivamente fornita alle persone disabili: una percentuale che assegna all’intervento pubblico un ruolo del tutto secondario. Oltre alle disparità di situazione tra poveri e ricchi determinata dalla residualità dell’intervento pubblico nel campo del long-term care, gran parte degli attuali problemi è determinata dal fatto che la stessa assistenza informale fornita dalle famiglie sta attraversando una fase di crisi, dovuta ad un complesso di fattori: la crescita dell’occupazione femminile, l’aumento degli anziani che vivono soli e senza supporti familiari, il peggioramento del rapporto statistico esistente tra le generazioni più anziane e quelle successive (la riduzione progressiva del numero dei figli per donna ridurrà infatti la disponibilità di care giver familiari). L’Europa è destinata a diventare l’area del mondo dove il potenziale di supporto delle reti familiari sarà maggiormente ridotto. Di qui l’esigenza di sviluppare nuovi sistemi di cura. In effetti alcuni paesi hanno già attivato riforme in tal senso, facendo del long-term care uno dei campi di policy maggiormente aperto a innovazioni e sperimentazioni. L’impatto della non autosufficienza sarà infatti vigoroso non solo per il numero di persone in stato di bisogno, ma anche per la complessità delle potenziali ricadute negative. L’invecchiamento è destinato a creare notevoli ten- sioni sui modelli tradizionali di cura, mettendo sotto pressione l’organizzazione delle famiglie e la tenuta dei legami intergenerazionali. Nelle famiglie con reddito più basso la presenza di un anziano non autosufficiente può deprimere l’occupazione femminile, contribuendo ad aumentare il rischio di povertà per la famiglia. Le difficoltà di sviluppare dei sistemi di tutela pubblica aumenterà la necessità di servizi privati ed esporrà a ulteriori rischi la popolazione più povera e meno capace di agire sul mercato dei servizi privati. Intorno alla non autosufficienza, in altri termini, avverrà in futuro una riorganizzazione sociale che riguarderà contemporaneamente la tenuta delle relazioni intergenerazionali all’interno delle famiglie, la capacità delle politiche pubbliche di offrire tutela ai soggetti più indifesi, la costruzione di un mercato privato di servizi la cui qualità risulta particolarmente difficile da valutare e controllare.

Il ruolo del welfare

I sistemi di welfare tradizionali sembrano poco attrezzati, nella loro configurazione attuale, ad offrire una adeguata protezione ai questi nuovi profili di rischio. La loro diffusione richiede un’innovazione profonda dei sistemi di protezione sociale. La consapevolezza delle limitate capacità di risposta dei sistemi attuali di welfare dovrebbe sollecitare una posizione “riformista”, che ponga nell’agenda delle politiche sociali, italiane ed europee, non solo il problema centrale della compatibilità finanziaria tra politiche di sviluppo e politiche di coesione sociale, ma anche quello della ristrutturazione dei sistemi di protezione in modo da renderli più adeguati alle esigenze sociali emergenti. Un corollario (non secondario) di questa posizione è che alcuni sistemi di welfare, a cominciare da quelli scandinavi, sembrano meglio attrezzati a rispondere ai nuovi profili di rischio perché costruiti su principi universalistici e non occupazionali e meritocratici. I sistemi maggiormente in difficoltà sono invece quelli occupazionali e corporativi, e dentro questi, i modelli sudeuropei. Il loro assetto familistico non consente di riconoscere i nuovi rischi e quindi di approntare misure adeguate di intervento. Inoltre, la presenza di forti coalizioni a difesa degli interessi degli insider rende difficile la rappresentanza po- litica dei nuovi rischi sociali e l’inclusione delle nuove esigenze nell’agenda politica. A tal punto che l’innovazione deve svilupparsi al di fuori del tradizionale “mondo del welfare”, entro schemi assistenziali condannati a restare marginali e ritagliati su esigenze di gruppi sociali specifici. Una maggiore attenzione ai nuovi rischi sociali, in questa prospettiva, implica per questi sistemi una decisa correzione di rotta e la costruzione di sistemi di carattere maggiormente universalistico.

Emergono anche questioni riguardanti l’assetto dei rapporti tra regolazione pubblica e regolazione privata. La vulnerabilità sociale si diffonde intorno a problemi che non sono facilmente percepiti come meritevoli di una risposta collettiva, in cui la responsabilità privata e familiare sembra ancora prevalente rispetto a quella pubblica. Lo sviluppo della vulnerabilità sociale colloca al centro i problemi della connessione tra il mercato del lavoro, l’organizzazione delle famiglie intorno agli snodi di vita e ai bisogni di cura e la diffusione dell’instabilità sociale. Un punto su cui storicamente i sistemi di welfare non sono intervenuti se non con politiche residuali e assistenziali, demandando le soluzioni alla dinamica spontanea del mercato oppure, e soprattutto, alla famiglia. Ancora oggi molti dei problemi emergenti in queste aree di confine vengono percepiti prevalentemente come problemi di funzionamento del mercato e delle solidarietà private.

L’intervento pubblico in queste aree, quando sviluppato, assume molto spesso la logica tipica delle politiche di attivazione e di inserimento attivo nel mercato del lavoro, così come i programmi sociali di sostegno all’instabilità reddituale e lavorativa, nonché finalizzati a favorire la conciliazione tra lavoro e cura, vengono considerati come forma di supporto alla flessibilizzazione del mercato del lavoro. La responsabilizzazione personale e l’attivazione costituiscono le parole chiave, in una prospettiva che demanda una parte fondamentale delle responsabilità agli individui. Si tratta di una linea di riforma dei sistemi attuali di welfare del tutto convincente e realistica, fondata sulla possibilità di operare una connessione più stretta che in passato tra politiche di coesione sociale e politiche per l’impiego. Il limite principale di queste politiche è tuttavia quello di affidare interamente alle supposte capacità inclusive del mercato del lavoro la respon- sabilità di offrire risposte a rischi sociali che in buona parte non riguardano esclusivamente l’occupabilità degli individui.

Il profilo complesso e differenziato della vulnerabilità sociale richiede invece che alle politiche finalizzate ad aumentare e rafforzare la partecipazione al mercato del lavoro della popolazione vulnerabile debbano coniugarsi in futuro anche altre politiche sociali, come quelle della cura, quelle abitative, quelle sanitarie e assistenziali, finalizzate a sostenere il complesso dei problemi connessi alle transizioni critiche del ciclo di vita, dall’ingresso nella vita adulta all’invecchiamento.