La necessità di una lotta su due fronti

Di Italianieuropei Giovedì 09 Ottobre 2008 18:04 Stampa
Nei paesi ricchi come in quelli più poveri lo scarto di red­dito tra i ricchi e i meno abbienti si fa sempre più ampio. Ciò è connesso alle crescenti disparità nell’accesso al sa­pere, dovute al rifiuto di pensare insieme il problema economico e quello dell’istruzione. Se infatti si privilegia­no anche nel campo dell’istruzione obiettivi di breve pe­riodo per stimolare l’economia in chiave capitalistica, non si fa che rallentare ulteriormente la crescita. Occor­re quindi ripensare l’importanza dell’educazione in modo rivoluzionario.

Oggi gli economisti sono in maggioranza d’accordo nell’ammettere che, se lo scarto di reddito tra i paesi industrializzati e quelli in via di sviluppo si è leggermente ridotto, è notevolmente cresciuto quello tra i più ricchi tra i ricchi e i più poveri tra i poveri, sia all’interno dei paesi ricchi sia nei paesi poveri. Di qui la comparsa e l’aumento, nei paesi ricchi, di una grande povertà e, nei paesi poveri, di una miseria assoluta.

Questo fenomeno, del quale siamo ogni giorno testimoni, comporta numerose conseguenze. La prima è una minore disponibilità dei paesi ricchi ad aiutare i paesi poveri: l’aumento della povertà al loro interno pone sufficienti problemi. La seconda è un’instabilità sociale attestata in zone diverse e con modalità molto variate tanto dalla crisi dei subprimes quanto dalle rivolte mosse dalla fame.

Si intende qui attirare l’attenzione su un fenomeno connesso a quello della povertà, che si sviluppa parallelamente a questo e che vi è chiaramente collegato: quello delle crescenti disparità nel campo della conoscenza. Il problema della sopravvivenza, in alcuni continenti, e quello del potere di acquisto in altri, infatti, hanno come conseguenza un decadimento della qualità delle riflessioni sull’insegnamento e sulla ricerca. Ora, anche se attirano legittimamente la nostra attenzione, i temi della disoccupazione, della precarietà del lavoro e dei bassi redditi non devono renderci disattenti o ciechi rispetto alle carenze delle nostre politiche educative, perché esse stesse non sono prive di conseguenze sull’aumento della povertà.

Il paradosso è infatti il seguente: mentre la scienza progredisce a una velocità esponenziale, sia dal punto di vista dei suoi fondamenti sia da quello delle sue ricadute pratiche, si apre, ancor più rapidamente di quanto avviene per i redditi, una forbice tra gli addetti ai lavori in campo scientifico, o almeno tra gli appassionati istruiti, e la massa che non ha la minima idea delle poste in gioco. Lo scarto tra i paesi impegnati in campo scientifico e quelli che ne sono emarginati, e, all’interno degli uni e degli altri, tra l’élite scientifica e i più ignoranti nel campo del sapere, si allarga ancor più rapidamente di quello dei redditi. George Steiner ha fatto osservare che la spesa per la ricerca nella sola università di Harvard superava quella di tutte le università europee nel loro insieme. Se è vero che compaiono poli di sviluppo scientifico nei paesi emergenti, al loro interno le disparità in tema di istruzione e di sapere sono ancor più profonde di quelle dei paesi sviluppati, dove comunque continuano a crescere. Si può dunque paventare la comparsa, nel medio periodo, non di una democrazia generalizzata su tutta la terra, ma di un’aristocrazia planetaria del sapere, del potere e della ricchezza, a fronte di una massa di semplici consumatori e a una ancor più numerosa di esclusi sia dal sapere sia dai consumi. Tale aristocrazia sarebbe globale (già oggi, nei laboratori delle università americane, troviamo persone provenienti da ogni luogo, che, per la maggior parte, non ritorneranno nei paesi d’origine). Sarebbe un’aristocrazia polarizzata (nel senso che le reti di circolazione del sapere s’incrocerebbero in vari punti del pianeta); infine, pur senza necessariamente cristallizzare in modo irreversibile i rapporti di forza esistenti, tenderebbe comunque a rafforzarli (perché il costo degli studi e le condizioni di vita svolgono evidentemente un ruolo cruciale nella diffusione del sapere). Se pensiamo alle rispettive opportunità che si aprono per il futuro a una bambina che vive in una località remota e isolata della campagna afgana, e a un bambino americano figlio di due docenti di Harvard, abbiamo modo di comprendere quale rischi di essere il futuro dell’umanità.

L’avvenire del liberalismo, come si è autorappresentato nelle proprie visioni del futuro, forse meno spettacolari di quelle del campo marxista, ma a un primo sguardo più efficaci e più vicine alla realtà economica del mondo capitalista, rischia così di deludere i fautori di un liberalismo tanto economico quanto sociale, così come sono rimasti delusi i partigiani del socialismo umanista. Si può ipotizzare che il rifiuto di pensare insieme il problema dell’economia e quello dell’istruzione sia la causa profonda dei nostri fallimenti in entrambi i campi. Dissociarli, infatti, equivale a cedere alla grande tentazione postmoderna: rinunciare a porsi la questione delle finalità. Per essere più precisi: nelle situazioni di scarsità in cui oggi ci troviamo è certamente inevitabile che si dia la priorità a obiettivi di breve periodo (il posto di lavoro, interventi urgenti, “piani sociali” (contributi ai lavoratori licenziati), un’efficace formazione professionale – che orienti i giovani verso i settori nei quali le imprese hanno necessità di assumere), ma il problema di sapere in vista di quale obiettivo si studi o si lavori passa sempre più sotto silenzio. Lo si considera come una specie di lusso, un sogno da intellettuali idealisti ad uso e consumo di altri sognatori, un sogno che bisogna dimenticare in fretta per ripiegare rapidamente su obiettivi a breve termine. La conseguenza di ciò non è irrilevante: proprio mentre le esigenze di redditività sono causa di riduzione dei posti di lavoro, il che comporta a sua volta una contrazione del potere d’acquisto, di per sé causa di un rallentamento della crescita (è, questa, una delle spirali perverse del capitalismo nella sua fase attuale), le politiche educative sono sempre meno orientate all’acquisizione del sapere per il sapere. La scelta del percorso futuro viene fatta sempre più presto e la conseguenza è che, negli ambienti economicamente più sfavoriti, i bambini hanno opportunità molto ridotte, se non nulle, di accedere a una formazione di un certo tipo. I sociologi hanno avuto occasione di far osservare che in un paese come la Francia il sistema educativo non tenderebbe oggi a ridurre le disparità sociali, bensì a riprodurle. Siamo indubbiamente nell’epoca dell’apertura dell’istruzione superiore a un numero maggiore di giovani, ma il tasso di abbandono nei primi due anni è notevole. L’apertura delle università, inoltre, è ufficialmente considerata come un cambiamento della stessa vocazione di questi istituti, ormai sempre più chiamati a rispondere alle esigenze dell’impresa e del mercato del lavoro. Solo pochi anni fa c’era la tendenza a pensare che, poiché la meccanizzazione riduce una parte dell’intervento umano nella produzione, una politica del tempo libero avrebbe consentito un accesso generalizzato alla cultura. Oggi siamo lontani da questa utopica prospettiva. La priorità è data alle nozioni di base nell’istruzione secondaria e alla formazione nell’istruzione superiore. Ci ritroviamo davanti alle contraddizioni del sistema capitalista nella sua fase attuale (progresso tecnologico accelerato che riduce il ricorso al lavoro umano, disoccupazione o moltiplicazione dei lavori precari, contrazione del potere d’acquisto e rallentamento della crescita) senza sospettare un solo istante che all’origine di questo paradosso ci sia una sostanziale assurdità.

Forse un giorno arriveremo a capire che non c’è progresso sociale possibile senza una rivoluzione educativa. Una rivoluzione che dovrebbe rappresentare la priorità assoluta delle vere democrazie. Forse un giorno ci ricorderemo che non c’è altra finalità per gli umani sulla terra, se non quella di imparare a conoscersi e a conoscere l’universo che ci circonda – un compito infinito che li definisce come umanità cui partecipa ogni individuo. Noi viviamo al rovescio, camminiamo sulla testa. Non è infatti assurdo pensare che, se decidessimo di sacrificare tutto all’educazione, alla ricerca e alla scienza, facendo investimenti massivi e senza precedenti nei settori dell’insegnamento a tutti i livelli, ne ricaveremmo più posti di lavoro e più prosperità.

L’ideale della conoscenza non ha bisogno di disparità sociali o economiche. Tutt’altro: rispetto a quell’ideale, le disparità sono fattori di stagnazione, ostacoli, rappresentano un notevole spreco di energie, un danno per il potenziale intellettuale dell’umanità. È invece certo che il fatto di lasciare che il divario tra chi è più istruito e chi lo è meno si accresca non può che peggiorare in modo irrimediabile le condizioni di miseria della maggioranza. Il problema della povertà non è tale da poter essere affrontato indipendentemente dagli altri. I palliativi che il sistema attuale tenta di inventarsi per evitare le conseguenze più drammatiche della povertà rientrano nella logica dominante della libera impresa, che privilegia l’iniziativa individuale, quell’iniziativa che i più idealisti tra i capitalisti immaginano possa alla fine andare a vantaggio della maggioranza. Ora, tutto oggi dimostra come que- sto «grand récit», per riprendere un termine di Lyotard, immaginato dal capitalismo liberale, sia ingannevole ed errato quanto i grandi racconti vagheggiati nel XIX secolo dai pensatori socialisti. Non si tratta qui di sostenere per principio l’egualitarismo e la divisione del lavoro, ma di applicare l’ideale liberale al campo del pensiero, dell’istruzione e della scienza, di ribaltare radicalmente l’ordine delle priorità per mettere tutti gli esseri umani in condizione di acquisire i mezzi dell’autonomia intellettuale, che è alla base di ogni creatività. Questa idea non è più utopistica di quella che pretende di generare la prosperità di tutti grazie alla potenza economica di alcuni. Si tratta di una prospettiva che richiederebbe una determinazione morale assoluta, per organizzare i mezzi istituzionali della libertà intellettuale di ogni individuo, esigerebbe enormi investimenti e sforzi materiali a breve e a lungo termine, ma si può scommettere che le sue ricadute sociali ed economiche sarebbero percettibili fin dall’inizio della sua attuazione, incoraggiando così i meno abbienti, come tutti gli altri, a capire che l’umanità è una, che tutti gli uomini condividono la stessa storia e che questa storia ha un senso.