Il grano di Liberaterra. Dai beni confiscati alla mafia una risorsa per lo sviluppo

Di Giovanni Colussi e Rosa La Plena Lunedì 02 Settembre 2002 02:00 Stampa

Sempre più spesso i beni confiscati alle organizzazioni criminali salgono agli onori delle cronache. Un giorno è la notizia che un patrimonio di svariati milioni di euro è stato sequestrato ad un importante gruppo criminale. Poi è la volta di una confisca, altri beni che vanno ad aggiungersi al patrimonio dello Stato. Valori che magari erano stati sequestrati in una delle tante indagini della metà degli anni Novanta seguite alla stagioni delle stragi. Ma non sono solo notizie di sequestri e confische che giungono in questi mesi. Si parla di riutilizzo di questi beni, si vedono in televisione campi che prima erano patrimonio di famosi boss, che oggi vengono coltivati da giovani riuniti in cooperative. Sembra questa una stagione propizia per pensare ai beni confiscati alle mafie in modo nuovo, più completo e consapevole. È ora quindi che questo tema esca dal recinto delle cronache giudiziarie o dei fatti di costume e venga percepito per quello che è: una grande opportunità per fare sviluppo e insieme lotta alla mafia degna di comparire nei primi posti dell’agenda politica.

Sempre più spesso i beni confiscati alle organizzazioni criminali salgono agli onori delle cronache. Un giorno è la notizia che un patrimonio di svariati milioni di euro è stato sequestrato ad un importante gruppo criminale. Poi è la volta di una confisca, altri beni che vanno ad aggiungersi al patrimonio dello Stato. Valori che magari erano stati sequestrati in una delle tante indagini della metà degli anni Novanta seguite alla stagioni delle stragi. Ma non sono solo notizie di sequestri e confische che giungono in questi mesi. Si parla di riutilizzo di questi beni, si vedono in televisione campi che prima erano patrimonio di famosi boss, che oggi vengono coltivati da giovani riuniti in cooperative. Sembra questa una stagione propizia per pensare ai beni confiscati alle mafie in modo nuovo, più completo e consapevole. È ora quindi che questo tema esca dal recinto delle cronache giudiziarie o dei fatti di costume e venga percepito per quello che è: una grande opportunità per fare sviluppo e insieme lotta alla mafia degna di comparire nei primi posti dell’agenda politica.

I beni confiscati alle mafie hanno una caratteristica di grande importanza: se vengono utilizzati esaltandone l’uso sociale, come è previsto nell’attuale legislazione, sono in grado di enfatizzare entrambe le componenti della lotta alla mafia, quella repressiva – rappresentata da magistratura e forze dell’ordine – e quella preventiva, portata avanti da istituzioni nazionali e locali e dal privato sociale. Attraverso un uso visibile e partecipato dal territorio del bene confiscato infatti si fa percepire sia il successo dello Stato nella repressione degli atti illeciti che la capacità della comunità di rifiutare i comportamenti criminali. Si colpiscono le mafie nella loro credibilità, minando quel consenso che ottengono laddove sono presenti e attive.

Per capire l’importanza del tema basta osservare qualche numero. I beni immobili confiscati – case e terreni – al 9 ottobre 2001, erano ben 3297, le aziende 337, i beni mobili – gioielli, mobili, conti correnti, partecipazioni azionarie e mille altri tipi di valori – 1524 e infine i beni mobili registrati – automobili, natanti, aeromobili – erano 2157 (i dati sono del Commissario straordinario per la gestione dei beni confiscati alle organizzazioni criminali). E si tratta di numeri ancora non completi, pur provenendo dalla banca dati sicuramente più attendibile tra quelle disponibili. La loro localizzazione poi li rende ancora più interessanti, perché sono collocati nella gran parte in zone in ritardo di sviluppo. Vedendo infatti in particolare la categoria di beni forse più interessante per quantità e per le diverse possibilità di utilizzo, quella dei beni immobili, non si può non notare che tra le prime dieci province selezionate per numero di beni ben nove si trovano nel Mezzogiorno. Palermo con i suoi 1147 beni ospita addirittura più di un terzo dei beni immobili confiscati di tutto il paese, poi Reggio Calabria (325 beni immobili), Napoli (299), Caserta (177), Roma (148), Catanzaro (143), Trapani (134), Catania (91), Cosenza (87), Brindisi (78). Sono quasi tutte province – Roma è un caso a sé – dove la presenza criminale si è manifestata in tutta la sua forza e pervasività ma anche dove non sono molte le risorse disponibili sul territorio. I beni confiscati sono quindi p a rticolarmente interessanti perché rappresentano un valore economico tangibile, spesso anche di notevole consistenza che, se utilizzato in modo appropriato, come previsto dall’attuale normativa, allo scopo di far crescere la comunità sul piano economico e sociale è in grado di esaltare anche gli aspetti etici dell’agire economico finendo, se le cose funzionano in modo corretto, per rappresentare sul territorio un esempio di attività imprenditoriale improntata all’etica e alla legalità.

Sembra dunque naturale chiedersi perché l’opportunità rappresentata dall’utilizzo dei beni confiscati alle organizzazioni criminali non abbia avuto fino ad oggi lo sviluppo che era lecito attendersi. La ragione è forse nella relativa giovinezza della normativa, frutto anche di una consapevolezza probabilmente non ancora pienamente matura dell’importanza dell’aggressione ai patrimoni mafiosi come elemento fondamentale della lotta alle organizzazioni criminali. Se si ragiona in termini storici non si può non notare che la lotta ai patrimoni mafiosi comincia in modo massiccio e consapevole solo con la legge Rognoni-La Torre del 1982 che introduce nell’ordinamento giuridico del nostro paese per la prima volta il reato di associazione mafiosa. Si comincia a considerare la mafia come un fenomeno collettivo e non individuale, il centro dell’indagine non è più il singolo ma il gruppo, si cercano allora gli strumenti dell’azione criminale associata e le risorse economiche degli uomini delle cosche diventano allora un obiettivo molto importante da colpire come elemento di primo piano dell’azione criminale dell’intero gruppo. Dal 1982 si inizia quindi a sequestrare prima e a confiscare poi beni alle organizzazioni mafiose come misura di prevenzione. Da allora i beni confiscati continuano ad accumularsi nel patrimonio dello Stato.

Nel 1989 fu introdotta una prima normativa per regolare l’assegnazione di questi beni, per definirne il destino, ma con scarso successo. I beni continuavano ad accumularsi a migliaia senza che si riuscisse a trovare per essi un utilizzo efficace. Il risultato era sconfortante perché il valore di questi beni, senza utilizzo e nella maggior parte dei casi senza manutenzione, finiva per deperire. E gli uomini delle cosche avevano gioco facile nel mostrare l’azione dello Stato come distruttiva di risorse e di posti di lavoro; che invece, quando i beni erano in mano ai mafiosi, godevano ottima salute portando un vantaggio anche all’intera comunità. I numeri parlano chiaro: dal 1982 al 1996, l’anno in cui fu promulgata la legge attuale, di fronte alle migliaia di beni disponibili solo 34 erano stati assegnati a nuovo utilizzo.

La situazione doveva cambiare. Nel 1995 una petizione popolare proposta da Libera, un nascente network composto da circa quattrocento associazioni (oggi più di mille), si proponeva di sostenere la riforma della legge interpretandola in modo assolutamente innovativo: la parola d’ordine doveva diventare l’uso sociale dei beni confiscati. La petizione ha un grande successo e vengono raccolte oltre un milione di firme in tutta Italia. Il senso della proposta era di non disperdere questi beni accumulati attraverso l’azione repressiva dello Stato contro le mafie nel grande calderone del patrimonio pubblico ma di esaltarne il valore simbolico e le possibilità di utilizzo sul territorio. Lo slogan della campagna era: la mafia restituisce il maltolto. I cittadini che componevano le comunità in cui agisce il gruppo criminale e dove sono stati confiscati i beni dovevano percepire questo patrimonio come proprio ed essere in grado di apprezzarne il nuovo utilizzo. Sia questo una caserma dei carabinieri, una biblioteca comunale o un centro associativo gestito da una cooperativa di giovani del posto. In questo modo, i promotori della petizione auspicavano che sia il lavoro dell’apparato repressivo sia quello di coloro impegnati nella prevenzione nei confronti delle mafie potesse essere valorizzato.

In seguito alla petizione venne presentata una proposta di legge che raccolse le richieste dei promotori del documento. Il 7 marzo del 1996 le camere promulgarono una legge che raccoglieva, anche se con alcune mediazioni, le proposte dei firmatari e sanciva l’uso sociale dei beni confiscati. Si trattava della legge 109/96, che andava ad inserirsi nella legge 575/65 in materia di misure di prevenzione nei confronti della mafia. Il destino delle diverse tipologie dei beni è stato così definito: i beni immobili possono venire destinati allo Stato ma limitatamente a scopi di giustizia, ordine pubblico o protezione civile oppure ai comuni che, a loro volta, li possono cedere in comodato gratuito ad associazioni, cooperative sociali o comunità di recupero per tossicodipendenti. In questo modo si ribadiva la volontà di favorire le due componenti della lotta alla mafia: quella repressiva e quella preventiva. I beni immobili infine non possono essere venduti né locati. Altra categoria sono i beni mobili e mobili registrati, che devono essere valutati e venduti se di un qualche valore (se invece di nessun valore possono essere alienati gratuitamente o distrutti). La terza categoria è quella dei beni aziendali, che possono essere venduti o locati a titolo oneroso ad enti pubblici o privati oppure a titolo gratuito a cooperative formate dagli ex dipendenti in modo da tutelare l’occupazione. Naturalmente queste cooperative non devono avere tra i soci parenti o sodali dei mafiosi che possedevano l’azienda in precedenza.

Dopo oltre sei anni dalla promulgazione della legge è oggi possibile fare una prima valutazione dei risultati ottenuti, cercando di cogliere gli elementi positivi e quelli negativi. Rispetto ai 34 beni assegnati dal 1982 al 1996, dal 1996 all’ottobre del 2001 sono stati assegnati ben 1205 beni. Sicuramente non tutte queste assegnazioni sono divenute effettive ma certo il risultato è straordinario e dimostra che oggi, con un grande impegno, è possibile utilizzare un bene confiscato. Non mancano tuttavia, anche per la legge 109, i problemi di applicazione. A cominciare da quelli legati alla lunghezza dei tempi che passano tra il sequestro e la confisca definitiva, con una media che si aggira intorno ai mille giorni, e quelli che passano tra la confisca definitiva e l’assegnazione, circa duemila giorni. Tempi così lunghi, causati essenzialmente da inefficienze burocratiche, provocano il deperimento dei beni e quindi un significativo calo del valore dei beni stessi. Un’altra questione importante è quella della mancanza di risorse che colpisce chi prende in carico un bene. La legge 109 aveva previsto la nascita di un fondo gestito dalle prefetture che avrebbe dovuto convogliare le risorse ottenute con la vendita dei beni mobili, mobili registrati e aziendali per finanziare i progetti di utilizzo dei beni immobili e altre iniziative di promozione della legalità e di lotta al disagio. Purtroppo questo fondo era previsto con un termine di tre anni e oggi si considera esaurito. Le risorse per chi utilizza i beni confiscati alle mafie provengono oggi da alcune leggi regionali, anche se poche, parziali e scarsamente finanziate, e dall’interessamento di enti di promozione allo sviluppo, centrali cooperative, banche, programmi di utilizzo dei fondi strutturali e di alcuni enti locali.

Un ulteriore problema è costituito dalla scarsa trasparenza delle informazioni. Non esiste un soggetto che raccolga efficacemente e trasmetta al pubblico gli elenchi dei beni. Solo il Commissario straordinario per la gestione dei beni confiscati alle organizzazioni criminali – figura nata nel 1999 per cercare di affrontare quanto non funzionava nella legge 109/96 ma priva di poteri tali da metterla in grado di imporsi realmente sui problemi – è riuscito a raccogliere una banca dati di una certa attendibilità. Manca però un luogo accessibile al pubblico, formalizzato e conosciuto ai più, dove chi è interessato a operare su di un bene confiscato trovi un elenco aggiornato delle confische. Questa mancanza di trasparenza aumenta i pericoli di favoritismi nelle assegnazioni. La stessa gestione dei beni immobili può rappresentare un problema. Se essa è poco efficiente, se non c’è impegno da parte degli amministratori giudiziari, dei giudici conservatori durante la fase del sequestro e dell’Agenzia del demanio dopo la confisca, i beni deperiscono. Non si può infatti trattare un vigneto che perde buona parte del valore se non viene curato ogni anno alla pari di un appartamento che può rimanere chiuso per anni senza grandi problemi. Infine esiste il problema dei beni immobili confiscati ma ancora occupati dai precedenti proprietari, cioè dai mafiosi stessi. Si tratta di una vera e propria vergogna, assai diffusa in tutta Italia ma diventata fenomeno di massa in alcune province come Reggio Calabria. L’effetto è devastante perché permette a quei mafiosi di dimostrare a tutti i cittadini che essi sono più forti dello Stato, più forti di una sentenza passata in giudicato.

A fronte però di tutti questi problemi si vanno moltiplicando le iniziative dedicate all’utilizzo dei beni confiscati alle mafie, alcune delle quali sono andate nel tempo assumendo una vera e propria funzione di progetti-pilota capaci di offrire un modello di intervento ripetibile sul territorio. Il principale di questi progetti è sicuramente Liberaterra. Il progetto nasce nell’aprile del 2000, quando l’associazione Libera viene chiamata dalla prefettura di Palermo, insieme ad altri, per essere partner di un progetto-pilota relativo alla messa in produzione di 180 ettari di terreno confiscato nei comuni di Corleone, Piana degli Albanesi, Monreale, San Giuseppe Iato e San Cipirello. Comuni che successivamente daranno vita al Consorzio «Sviluppo e Legalità». Gli altri partner, ognuno con una funzione propria, dalla progettazione alla formazione, sono Sviluppo Italia, Italia Lavoro, Consorzio Sudest coordinati dal prefetto di Palermo, Renato Profili. Compito di Libera, oltre a produrre azioni di animazione sociale sul territorio, attraverso fondi di Sviluppo Italia, è stato quello di affiancare gli altri partner del progetto, in particolare Sudgest e Italia Lavoro, con propri esperti nelle varie fasi del progetto: la realizzazione del piano agronomico di massima e la definizione dei profili professionali da occupare nella nascente cooperativa che sarebbe andata a lavorare sui terreni. Libera inoltre ha curato l’animazione del bando di selezione dei cooperatori e ha fatto parte della commissione per la selezione dei 15 soggetti, provenienti per il 76% dai territori interessati, che in seguito hanno dato vita alla cooperativa sociale «Placido Rizzotto-Libera terra».

Un primo evidente successo è stato raggiunto quando in risposta al bando di selezione sono arrivate 157 domande di cui 120 di residenti nei cinque comuni del consorzio. Territori dove alcuni anni fa era vietato guardare negli occhi i padrini. Successivamente è cominciata la formazione dei 15 prescelti in Emilia Romagna attraverso fondi di Italia Lavoro. In quel periodo uno dei principali problemi da affrontare è stato lo scarso sostegno dato dalle famiglie ai futuri cooperatori. Ma il gruppo ha resistito e alla fine è nata la cooperativa sociale «Placido Rizzotto - Libera Terra» che oggi gestisce i fondi agricoli conferiti dai comuni del consorzio «Sviluppo e Legalità». Parallelamente alla costituzione della cooperativa sono entrati in gioco altri due soggetti: la regione Sicilia e il ministero degli Interni attraverso il Piano operativo nazionale «Sicurezza per lo sviluppo del Mezzogiorno d’Italia». Quest’ultimo soggetto in particolare ha finanziato tutte le opere infrastrutturali necessarie per permettere ai terreni e alle strutture di funzionare al meglio. Così a progetto concluso – si prevede l’estate del 2003 – la cooperativa potrà disporre di due agriturismi, un laboratorio di piante officinali e di una cantina, oltre ai terreni su cui coltivare grano, meloni, piante officinali e vite.

Ci sono stati mesi difficili in cui la cooperativa è dovuta andare avanti solo con le sue forze (anche perché un limite del progetto era l’assenza di risorse per lo start-up). Vi sono state provocazioni di pregiudicati vicini ai clan «corleonesi», sono state mandate le pecore a mangiare il grano che spuntava e solo la risposta delle forze dell’ o rdine ha evitato che la provocazione andasse a buon fine e creasse scompiglio nelle fila della cooperativa. Poi l’8 luglio la grande soddisfazione: si trebbia il grano. Un raccolto davve ro straordinario: i terreni erano inutilizzati, e quindi a riposo, da sei anni e le terre dei mafiosi sono le più belle e con più acqua. Ma adesso esse non sono più «le terre dei mafiosi». Ora nascerà il grano Liberaterra disponibile da settembre nelle grandi catene di distribuzione. A registrare questo momento di gioia – la trebbiatura è un momento autentico di gioia contadina – arrivano da tutto il mondo: BBC, CNN, TV europee, venuti tutti a registrare che nella terra dei boss si dà lavoro pulito. Ma è solo l’inizio, il progetto Liberaterra prosegue con gli agriturismi, le altre produzioni e tutte le piccole e grandi difficoltà che sorgeranno.

Cosa ci insegna l’esperienza di Liberaterra? Innanzitutto che è possibile utilizzare il metodo della rete nella progettazione sui beni confiscati alle organizzazioni criminali. Si chiamano a partecipare allo stesso tavolo soggetti diversi – istituzioni, enti di promozione economica, privato sociale, enti locali – dove ognuno è chiamato a fare la sua parte. Un tavolo pubblico, trasparente, dove gli impegni di ogni partecipante sono messi nero su bianco in un documento sottoscritto da tutti (e nel caso di Liberaterra è stata stilata una carta degli impegni). Così se qualcuno cerca scorciatoie o non mantiene gli impegni questo emerge di fronte a tutti i partecipanti al tavolo e all’opinione pubblica. Un tavolo di collaborazione tra soggetti diversi di questo tipo non è altro che una modalità di concertazione. Una concertazione che si pone obiettivi molto concreti, verificabili a breve termine. In questo differisce da altri modelli di concertazione rivolti ai temi della sicurezza e della lotta alla criminalità come i patti per la legalità. Sovente infatti questi patti hanno prodotto pochi sviluppi pratici proprio per la loro genericità e per la mancanza di obiettivi verificabili a breve termine. Obiettivi capaci, come i progetti sui beni confiscati, di attirare l’attenzione dell’opinione pubblica e quindi consenso. Il metodo della rete e del coinvolgimento di soggetti diversi sembra particolarmente efficace anche perché offre una risposta alla complessità di progetti dove è necessario occuparsi simultaneamente di promozione allo sviluppo, ordine pubblico, agricoltura e diritto pubblico. Il tavolo inoltre è uno strumento interessante perché aiuta ad aumentare i contatti e la collaborazione tra soggetti pubblici e privati che hanno lo scopo comune di valorizzare la comunità facendola crescere e mettendo ai margini i gruppi criminali e la loro capacità di condizionamento sociale. Se il tavolo diventa un luogo reale dove vengono prese le decisioni, i mafiosi sono naturalmente emarginati. E la messa ai margini della comunità degli uomini delle cosche è la sola strategia antimafia che garantisce risultati a lungo termine.

Ad oggi l’esperienza di Liberaterra ha fatto scuola: si sono aperti, o si stanno aprendo, nuovi tavoli e nuovi progetti simili a Napoli, a Siracusa, a Trapani, a Bari, a Brindisi e in provincia di Reggio Calabria. I prossimi mesi saranno quindi decisivi per testare l’efficacia del metodo e la sua applicabilità in contesti diversi. Tutte queste iniziative e i successi ottenuti non ci devono far dimenticare che l’intero tema dei beni confiscati alla mafia corre seri pericoli. Il primo dei quali è quello della vendita dei beni immobili. Argomento, questo, davvero devastante perché porterebbe alla fine dell’uso sociale dei beni confiscati e di tutti quegli aspetti di crescita comunitaria ad esso legati. Vendendo i beni immobili si finirebbe fatalmente per favorire la mafia, perché è praticamente impossibile che un imprenditore o un cittadino qualsiasi si comprino un bene appartenuto ad un mafioso sapendo il potere che questi ha in certi contesti territoriali. L’esito più probabile sarebbe che il bene lo ricomprerebbero gli stessi mafiosi, per pochi soldi, attraverso qualche prestanome con un gravissimo effetto pubblico di «beffa allo Stato». Qualcuno però, per fare cassa, pare sordo a questi richiami di semplice buonsenso ed il pericolo di una modifica legislativa in questo senso è tutt’altro che remoto.

Così come non è lontano il pericolo, sempre sui beni immobili, che sia allargato l’elenco dei possibili recettori dei beni stessi includendo imprenditori e cooperative generiche e non solo quelle sociali come è previsto con l’attuale legislazione. Anche in questo caso verrebbe messo a rischio l’uso sociale dei beni confiscati ed inoltre sarebbe assai più facile per i mafiosi riprendersi i beni attraverso qualche prestanome dato che gli imprenditori e le cooperative generiche sono molto più infiltrabili dagli uomini delle cosche che le cooperative sociali o le associazioni. Un ulteriore motivo di preoccupazione deriva da un possibile allentamento della legislazione, che oggi considera il bene confiscato come acquisito a titolo originario dallo Stato annullando ogni gravame precedente – ipoteche, affitti, ecc – e facendo prevalere l’interesse generale sulla tutela dei terzi. Così facendo i trucchi dei mafiosi diventano più difficili. Ma come mantenere un regime di questo tipo in un periodo di «garantismo» spesso così interessato? Se si riuscirà ad evitare questi rischi, sarà possibile aprire una grande stagione per i beni confiscati allo scopo di renderli quel forte strumento di sviluppo locale che le esperienze compiute fino ad oggi ci segnalano. Uno strumento di uno sviluppo che nasce e si compie nel senso dell’antimafia attraverso la collaborazione tra istituzioni e privato sociale. L’obiettivo in fondo non dobbiamo inventarcelo oggi, era già scritto in calce alla petizione del 1995: «Vogliamo che i beni confiscati siano rapidamente conferiti, attraverso lo Stato e i comuni, alla collettività per creare lavoro, scuole, servizi, sicurezza e lotta al disagio». Tutto questo deve diventare prassi comune senza progetti speciali o leggi eccezionali.

Ma perché quanto detto possa realizzarsi bisogna fare alcuni passi in avanti. Bisogna affrontare una modifica legislativa in modo serio ed incisivo. Senza accelerazioni o scelte non ponderate espresse solo per amor di novità. Una modifica che tenga conto delle esperienze fin qui fatte, sia quelle positive che quelle negative. Bisogna infatti ricordare che la legge del 1996 non è stata in buona parte applicata e quindi prima di farne un’altra bisogna rifletterci. Detto questo è evidente che ci sono molte cose da migliorare, e di queste la principale è la costituzione di un’agenzia specializzata, che faccia capo alla presidenza del Consiglio, che si occupi dei beni fin dalla fase di sequestro e ne garantisca l’integrità fino a confisca avvenuta. Uno degli obiettivi è giungere alla fase delle confisca definitiva con una istruttoria già compiuta sul territorio, in modo che si abbia già un’idea su dove il bene debba essere destinato e per fare che cosa. In questo modo le procedure verrebbero accelerate di molto. Questa agenzia dovrà servire a superare il ruolo dell’’Agenzia del demanio che sino ad oggi, pur avendo una funzione fondamentale assegnatole dalla 109/96, ha sempre considerato i beni confiscati alle mafie come un valore qualsiasi da trattare burocraticamente come tutti gli altri. È infine necessario che ci sia, da parte delle forze politiche, la capacità di vivere questa opportunità offerta dai beni confiscati senza tatticismi strumentali o polemiche di corto respiro. La materia è complessa e lo sforzo per non cadere in eccessive semplificazioni non è modesto, e si richiede inoltre alle forze politiche la capacità di mettersi in rete con altri soggetti come il privato sociale, e quindi la capacità di ascolto, cosa che non è affatto scontata. Però i beni confiscati sono una grande opportunità per leggere lo sviluppo del Mezzogiorno e la lotta alla mafia in modo complesso e innovativo ma bisogna sapere avvicinarcisi in modo strategico senza farsi bruciare dai tatticismi.