Attacco angloamericano alle forze dell'Asse

Di Giosuè Calaciura Lunedì 02 Settembre 2002 02:00 Stampa

La città bruciava deturpata senza riuscire a capire da che parte c’era entrata in quella guerra moderna dove non si vedeva mai il nemico, di scannatine nordiche, di marce lunghe al passo dei cingoli dei carri armati, di conquiste strategiche e nodi ferroviari, territori ampi per avanzare e per ripiegare. Qui i soldati venivano a farsi i bagni di mare e di sole perché non c’era nulla da conquistare se non la disgrazia millenaria e l’indifferenza. I militi stanziali stavano seduti tutto il giorno al limite delle trazzere di campagna e guardavano passare gli scecchi da soma caricati a nespole rubate giunte a maturazione solo per istinto naturale nei feudi di nobili morti per disabitudine all’indigenza, e non potevano imporre l’altolà a qualcuno perché erano animali addestrati a tornare a casa da soli secondo itinerari di sentieri stabiliti.

La città bruciava deturpata senza riuscire a capire da che parte c’era entrata in quella guerra moderna dove non si vedeva mai il nemico, di scannatine nordiche, di marce lunghe al passo dei cingoli dei carri armati, di conquiste strategiche e nodi ferroviari, territori ampi per avanzare e per ripiegare.

Qui i soldati venivano a farsi i bagni di mare e di sole perché non c’era nulla da conquistare se non la disgrazia millenaria e l’indifferenza. I militi stanziali stavano seduti tutto il giorno al limite delle trazzere di campagna e guardavano passare gli scecchi da soma caricati a nespole rubate giunte a maturazione solo per istinto naturale nei feudi di nobili morti per disabitudine all’indigenza, e non potevano imporre l’altolà a qualcuno perché erano animali addestrati a tornare a casa da soli secondo itinerari di sentieri stabiliti.

Non c’erano fabbriche belliche né di alcun altro tipo, ma solo strade ferrate di un solo binario che portavano al nulla di zolfatare abbandonate. Gli eserciti sbarcavano su una spiaggia e marciavano trionfali per una sola giornata su strade che dovevano tracciare da se stessi perché non c’erano collegamenti e ciascuno viveva dove nasceva. E dopo avere costruito la strada, dopo averla attraversata, i soldati in marcia di conquista arrivavano sempre in un’altra spiaggia di mare. E bisognava ricominciare daccapo. Le strade erano le cose buone della guerra. Ma non solo. Accanto al dirupo di bombardamento della fatiscenza secolare delle grotte preistoriche, all’abbattimento di edifici pericolanti sin dal giorno dell’inaugurazione, di ruderi che bisognava aggirare per arrivare da qualsiasi parte e che nessuno sapeva a cosa fossero mai serviti, costruiti in forma di maceria per vocazione edile, l’effetto devastante delle bombe che cadevano per errore tra mare e terra apriva porti naturali protetti a tutti i venti dei quadranti, ampi e ospitali per barche e mercantili di passaggio che incrementavano i commerci inesistenti. E con le pietre ricavate dalla distruzione benefica di quelle case che contagiavano la loro vecchiaia, si allargava il lungomare in passeggiate moderne, si spostava un po’ più in là il limite del bagnasciuga per inedite attività di cantiere.

E nuovi bombardamenti venivano a definire e completare il lavoro lasciato in sospeso dalle incursioni precedenti. Si vedeva come viveva la gente nello spaccato didattico di mezze camere da letto matrimoniali dove restava a dormire un coniuge solo perché l’altro era crollato nello schianto silenzioso; si vedeva il cesso comune del palazzo di tugurio di scarafaggi con l’inquilino di incontinenza senile vergognato di fare pipì lunghissima sotto gli occhi di tutti; si vedeva la tristezza di stampe in cornice e carte da parati fiorate e spiccicate a nascondere muri ventriloqui perché dai tubi dell’acqua usciva solo il sibilo dell’aria compressa dalla siccità e i rubinetti servivano per bella figura e per mettere una conclusione alla conduttura. Gli edifici tagliati a metà perfette dal coltello delle bombe crollavano definitivamente lasciando spazi a costruzioni nuove col cesso in ogni appartamento.

Alla bontà rinnovativa della guerra faceva da contrappeso il numero ingente di cadaveri dispersi fra le macerie e i sopravvissuti che morivano come i topi perché era così impenetrabile la ragnatela dei vicoli, così soffocante la vicinanza faccia a faccia dei palazzi che pompieri e soccorsi non riuscivano ad avvicinarsi e con le ruspe ammonticchiavano tufo e cadaveri per farsi strada. I vigili del fuoco e gli infermieri della Croce Rossa cercavano tra i muri cadenti dell’ultima incursione, tra i ruderi pericolanti che oscillavano minacciando ora cado ora cado, sopravvissuti da rifocillare, feriti da suturare e cadaveri da seppellire. Indagavano a fiuto di naso segni di vita nei quartieri del lungomare, i più bersagliati dalla furia aerea, per sbaglio di mira e accanimento, perché i nemici volevano colpire invece le navi del porto.

Gli angloamericani ritenevano a torto che proprio sulla costa cittadina si agglomerassero le forze dell’Asse per bagni fuori stagione. E invece era il quartiere di chiese secentesche, di palazzotti nobiliari, gli unici della città che vantassero ancora facciate di pregio e lavori costanti di manutenzione. Gli aristocratici di residuo approfittavano delle case alla marina per le feste di ricorrenza e per sfruttare i balconi abbandonati alla fantasia delle erbacce in occasione dei festini con processioni tra mare e terra e giochi pirotecnici di sapienza esplosiva. Cercavano sopravvissuti e in seconda istanza i loro cadaveri. E invece sulle pietre di rudere del quartiere si trovarono di fronte l’orizzonte del mare dove si consumava la nave polveriera ferita e in fiamme, colpita da una bomba al centro del porto. Un rimorchiatore tentava di spingerla al largo in attesa della catastrofe sicura. Nessuno capiva perché quegli uomini imbarcati rischiassero la vita quando l’esplosione ormai ineludibile della polveriera avrebbe soltanto portato a termine il lavoro di sfacelo e rinnovamento. Seguivano la scia del fuoco al guinzaglio del rimorchiatore che prendeva alla brezza, videro l’accecamento del botto, sentirono il vento caldo del tritolo, lo scoppiettio simultaneo di tutte le pallottole, le mine, le bombe a mano, le cartucciere, le polveri da guerra, l’eco di rimbombo ossessivo che rimbalzava sulle colline a fortificazione della città alle spalle e che si ripeteva non più per voce propria del tuono, ma per lo schianto simultaneo di tutti i vetri alle finestre della città. Seguirono la parabola dell’ancora ammiragliata che dalla nave esplosa si alzava per sorvolare l’intera città con una volontà autonoma di percorso, si abbassava sfondando il tetto della caserma dei pompieri e atterrava precisa sul piedistallo dell’ingresso che l’avrebbe conservata per semp re in memoria dell’eccidio dei volontari nell’adempimento eroico del proprio dovere.

Sentirono il vento infuocato che potava gli alberi d’abbellimento lungo le strade, che falciava le rondini in volo di ricognizione, sollevava gli animali domestici, gli uomini e tutte le cose non ancorate alla terra, lasciando galleggiare nell’aria il mondo intero ben oltre il tempo dello schianto che sembrò infinito, perché il tritolo aveva annullato la forza di gravità delle cose. La città si trovò sospesa, con i tram di guerra sbigottiti che continuavano la loro corsa a pagamento scivolando su rotaie invisibili a pelo d’aria, le carrozzelle da passeggio con i cavalli trattenuti al passo che portavano le famiglie sfollate di benestanti a fare acquisti di borsa nera a tre metri dal suolo, e contrattavano le merci non riuscendo a passarsi i soldi di resto dall’uno all’altro perché si oscillava come tra due barche nel mare agitato. E la gente ci prese gusto a stare in aria, dimenticando persino gli obblighi di guerra, il coprifuoco e i cadaveri, galleggiavano anche loro, ma un po’ più in basso a causa del rigor mortis che li appesantiva.

Si sentirono sollevati dalla forza gentile di quell’esplosione e guardarono il mondo dall’alto. Videro la moria dei pesci uccisi dall’onda esplosiva e i pescatori a mezz’aria che si dannavano per quella pesca miracolosa che non serviva a nessuno perché, nonostante gli sforzi e i contorcimenti, dall’alto non riuscivano ad afferrare nemmeno una preda. Videro la città abbandonata a se stessa perché gli abitanti volteggiavano guardando senza nostalgia la strada di casa, i catoi di miseria, la fatica di sempre e la solitudine che per la pesantezza erano rimaste a terra, videro le statue dei santi e degli apostoli che benedicevano dai frontoni delle chiese e li guardarono negli occhi perché galleggiavano alla loro altezza e neanche quelli sapevano spiegare quel miracolo. I feriti e i mutilati nella città aerea sapevano muoversi meglio dei sani perché quel prodigio era regolato da leggi capovolte, mentre i borseggiatori dei mezzi pubblici avevano perso la facoltà sensibile del tatto e venivano scoperti con le mani nelle tasche altrui e inseguiti in corse senza nemmeno un angolo per nascondersi perché correvano nel cielo aperto. E tutti si guardavano con lo stupore dei corpi sospesi e si raccontavano vicende di normalità terreste per non turbare con la loro meraviglia la leggerezza di quello stato.

Quando la fisica di quel prodigio esaurì le sue facoltà di sollevamento e riportò tutti nei luoghi d’origine, la città si scoprì esausta, schiacciata dalla propria disgrazia senza rimedio e mai più trovò la chiave della sospensione. Quel volo di galleggiamenti aveva fermato gli orologi e il tempo stesso perché ciascuno riprese le proprie incombenze di disperazione nel momento in cui lo scoppio le aveva interrotte con un dolore pungente di nostalgia e di risveglio.

Da quel giorno l’amministrazione carceraria decise che i detenuti portassero una palla di piombo pesante al piede nell’eventualità di un altro galleggiamento, affinché restassero per sempre ancorati al suolo.