Il Partito Democratico e le famiglie politiche europee

Di Denis McShane Venerdì 01 Settembre 2006 02:00 Stampa

La creazione del Partito Democratico in Italia rappresenta una svolta decisiva – oltre che stimolante – nella storia della politica progressista europea. Per la prima volta si assiste a un serio tentativo di superare le divisioni, spesso settarie, dei partiti europei durante il XX secolo. In alcuni momenti chiave della storia dell’Europa di quegli anni sono state proprio le divisioni della sinistra, così come la sua indifferenza al retaggio del liberalismo europeo, a consentire a una destra democratica più flessibile di riorganizzarsi, formando coalizioni in grado di attirarsi il favore degli elettori e di conquistare così il potere per lunghi periodi.

La creazione del Partito Democratico in Italia rappresenta una svolta decisiva – oltre che stimolante – nella storia della politica progressista europea. Per la prima volta si assiste a un serio tentativo di superare le divisioni, spesso settarie, dei partiti europei durante il XX secolo. In alcuni momenti chiave della storia dell’Europa di quegli anni sono state proprio le divisioni della sinistra, così come la sua indifferenza al retaggio del liberalismo europeo, a consentire a una destra democratica più flessibile di riorganizzarsi, formando coalizioni in grado di attirarsi il favore degli elettori e di conquistare così il potere per lunghi periodi.

È ormai giunto il momento di un nuovo allineamento tra Marx e Keynes. Il laburismo è solo una componente della società. I partiti laburisti classici hanno mancato di riconoscere l’importanza della questione femminile, e dopo il 1968 hanno dovuto prendere in considerazione anche le nuove comunità di europei che non sono né bianchi, né cattolici. Nuove tematiche, quali la questione ambientale e i cambiamenti nella politica di genere e in quella della famiglia, hanno reso necessarie risposte che non figurano nei testi classici. Anche la questione dell’Unione europea esige dalla sinistra una risposta che richiede nuove riflessioni. Per citare un esempio, il leader laburista britannico Hugh Gaitskell aveva detto al suo partito che l’ingresso nella comunità economica europea avrebbe tradito «mille anni di storia britannica»; e più recentemente Laurent Fabius ha sostenuto il «no» al referendum sulla Costituzione europea. La sinistra deve invece sostenere l’Europa, anche per fronteggiare il potere d’attrazione dell’antieuropeismo di stampo populista. Ma la SPD tedesca è stata a lungo ostile al Mercato comune, al pari dei comunisti francesi e dei gruppi trotzkisti. Il testo classico dell’UE – il Trattato di Roma – è un documento liberale, che pone l’accento su quattro libertà: la libertà di circolazione dei capitali e quella dei cittadini, la libertà degli scambi, la libertà degli investimenti; ma difficilmente questi criteri possono essere priorità socialiste. I riferimento agli obblighi e ai doveri sociali contenuti nel Trattato di Roma e in quelli successivi si collocano nella tradizione della Sozialmarktwirtschaft (l’economia sociale di mercato) di Erhard, ma anche in quella del pensiero sociale dell’enciclica «Rerum Novarum», o della più recente «Laborem Exercens» di Giovanni Paolo II. Il fatto è che la maggior parte delle organizzazioni sindacali, al di là delle dichiarazioni più o meno retoriche sull’internazionalismo, hanno concentrato la loro attività organizzativa all’interno dei confini nazionali, cercando di tener testa al capitale attraverso leggi nazionali sul lavoro. La divisione delle organizzazioni sindacali dopo il 1945, quando i sindacati di ispirazione comunista quali la CGT e la CGIL, affiliati alla Federazione Sindacale Mondiale (WFTU) controllata da Mosca, si contrapponevano a quelli socialdemocratici e cristiano-sociali (che a loro volta avevano creato organismi sindacali internazionali indipendenti), ha fatto sì che negli anni della formazione della CEE e quindi dell’UE i sindacati non abbiano mai potuto parlare con una voce sola.

La sinistra del XXI secolo non può fondarsi sulle organizzazioni dei lavoratori. I sindacati sono certo una sua parte integrante e un alleato di vitale importanza, ma le nuove alleanze per un riformismo progressista richiedono una base di sostegno politico molto più ampia. L’importanza dei partiti rimane centrale. Quando Kurt Schumacher, fondatore dell’SPD dopo il 1945, lasciò il campo di concentramento di Buchenwald dichiarò «Deutschland muss ein Parteienstaat werden», ossia «la Germania deve diventare uno Stato fondato sui partiti politici». E aveva ragione. Negli Stati Uniti, che pure hanno una cultura e una tradizione molto diverse da quelle europee, la centralità dei partiti politici è suprema. In America le cariche elettive di alti funzionari e giuristi sono assai più numerose che in Europa. Per aver successo nella sfera pubblica statunitense è di importanza vitale far parte di un partito e aderire pubblicamente alla sua causa.

La creazione di un nuovo Partito Democratico, il cui nome si richiama a quello del grande Partito Democratico di Roosevelt, Kennedy, Johnson, Carter e Clinton, è un segnale importante del nuovo corso nel quale si è impegnata la politica progressista italiana. Esistono ovviamente vari precedenti di unificazioni tra partiti diversi dell’area della sinistra, ma l’importanza del Partito Democratico risiede nella fusione organica col partito della Margherita, per giungere all’unità di tutte le forze anticonservatrici in Italia. Si pone in particolare rilievo la necessità di lavorare nel quadro di un partito per risolvere i problemi, stabilire le priorità e dirimere i personalismi che precedono le elezioni, anziché ricorrere alla creazione artificiale di una coalizione di governo. Il Partito Democratico sostituirebbe alla formazione post-elettorale di una coalizione la costruzione permanente del partito: è la strada verso una politica egemonica, anziché eterogenea, nel contesto delle attuali condizioni dell’economia di mercato e della caleidoscopica situazione sociale odierna. Le forze unificatesi nel Partito Democratico potranno concentrare le proprie energie per dedicarle non alle contese con i fratelli-rivali socialisti, comunisti o liberali, bensì alla lotta contro i veri oppositori di una politica progressista: i partiti della destra, che rifiutano gli obblighi sociali per promuovere un’accumulazione non inclusiva della ricchezza, fino a sovvertire lo stato di diritto e la democrazia pur di rimanere al potere.

Un Partito Democratico con una base ampia deve puntare su un progetto per il futuro, piuttosto che voltarsi indietro verso la propria storia, o peggio, attardarsi su nostalgie incompatibili con i nuovi problemi politici e con l’elettorato giovanile. Ma la definizione di un progetto politico nel panorama economico, sociale, culturale e comunitario quanto mai mutevole dell’Europa dei primi anni del XXI secolo esige un’opera costante di adattamento e rinnovamento. È necessario ad esempio affrontare realtà quali le migrazioni di massa dall’Africa, che certo non rappresentavano un problema per il socialismo del XX secolo. La sinistra del XX secolo è riuscita, lentamente e non senza difficoltà, a riconciliare il suo versante laico con quello cristiano. La comparsa dei militanti islamici come forza ideologica, e la presenza dei musulmani europei come elettori e cittadini comporta nuove sfide che la sinistra non può ignorare. Queste sfide esigono nuove risposte, che non si trovano nelle formule politiche e classiche e nei manuali.

Perciò acquistano importanza strutture partitiche a base più ampia, che si tratti della creazione del nuovo Partito Democratico in Italia o di alleanze e intese formali o informali, come ad esempio quella dei partiti laburista e liberaldemocratico del primo governo Blair. In Francia, all’inizio del 2006, al momento del conflitto col governo di destra guidato da Chirac e Villepin sulla legge per i giovani lavoratori, l’UDF francese, capeggiata da François Bayrou, offrì generosamente il suo sostegno ai socialisti francesi. Ma il deputato Henri Emmanuelli, parlando a nome del PS, disdegnò quella proposta di alleanza tattica. La sua posizione è ovviamente quella della corrente protezionista e isolazionista del partito socialista francese, che pone in primo piano la nazione, e ha partecipato alla campagna contro il Trattato costituzionale europeo. Il suo principale esponente è Arnaud Montbourg, che ha fatto dell’ostilità all’integrazione europea il suo feticcio. L’ala populista-protezionista del partito, capeggiata da Emmanuelli e Montbourg, crede nella santificazione del Partito socialista francese come unica fonte di autorità di governo in Francia. Questo errore non è mai stato fatto da Mitterrand, che era maestro nell’arte di costruire coalizioni e alleanze includendo tutti, dai cristiani riformisti di tradizione sindacale come Jacques Delors ai trotzkisti lambertisti come Lionel Jospin. Mitterrand ha avuto ragione nel gettare le sue reti molto al largo, e la tragedia del suo governo, durato quattordici anni, è stata quella di non essersi impegnato con tutto il suo coraggio politico a costruire, attraverso larghe alleanze, una struttura permanente: un partito che avrebbe trasformato la Francia, evitando il decennio sprecato di Jacques Chirac all’Eliseo.

A questo punto sorge il problema di come il Partito Democratico italiano potrà inserirsi nelle organizzazioni partitiche europee e internazionali. Allo stato attuale le organizzazioni internazionali dei partiti della sinistra presentano un certo grado di incoerenza. La venerabile Internazionale Socialista continua ad esistere, e consente a livello globale il raggruppamento di tutti i partiti socialisti democratici. La difficoltà sta nel fatto che essa non ha mai accolto il Partito Democratico americano, poiché questo chiaramente non è socialista, né interessato all’affiliazione. In questo vuoto Bill Clinton, uomo di forti convinzioni ideologiche, capace di valutare i risultati ottenuti da Willy Brandt al congresso della SPD a Bad Godesberg, o da Felipe Gonzales, quando riuscì a indurre il PSOE a eliminare il marxismo dal suo statuto, ha contribuito a creare tra i partiti progressisti, verso la fine degli anni Novanta, il network Progressive Policy, con la partecipazione di Tony Blair, Massimo D’Alema, Goran Persson e Gerhard Schroeder. Clinton vive di politica e di ideologia moderna. Tra le personalità finora espresse dal mondo politico statunitense Bill Clinton è quella che più si avvicina a una figura classica di leader socialdemocratico europeo. Negli anni Novanta, fu proprio la sua capacità di parlare un linguaggio europeo a stabilire migliori rapporti tra gli Stati Uniti e l’Europa, ben diversi dalla distanza, o anche dall’antipatia che ha diviso l’Europa dall’amministrazione Bush a partire dal 2001. Le conferenze del progetto Progressive Governance volute da Clinton e Blair hanno consentito a politici quali il brasiliano Lula o il sudafricano Mbeki di intrattenere rapporti con leader progressisti della Corea del Sud, del Cile, della Nuova Zelanda e del Canada, al di fuori dell’Internazionale Socialista, di cui questi partiti di governo non sono membri.

Tradizionalmente, per ovvie ragioni storiche, i partiti di sinistra sono sempre stati i più organizzati a livello internazionale. Fin dal 1860, i socialisti hanno proclamato che solidarietà e identità internazionale erano elementi centrali della loro stessa esistenza. E dopo il 1917 l’affiliazione politica internazionale è stata una questione di vita o di morte, talora anche nel senso letterale del termine. Nei rapporti con i partiti di sinistra e con i sindacati, Lenin e Stalin si sono serviti dell’internazionalismo di sinistra per distruggere o indebolire le formazioni socialdemocratiche rivali. Durante la guerra civile spagnola i commissari comunisti venuti da ogni parte d’Europa hanno dedicato più tempo a eliminare – su incarico di Stalin – gli oppositori marxisti, che a combattere Francisco Franco. Tra il 1945 e il 1989, Mosca ha sottoposto a un controllo costante le organizzazioni sindacali internazionali legate all’URSS, col risultato di creare divisioni di fondo nel movimento sindacale mondiale, favorendo di fatto gli avversari degli interessi dei lavoratori. Come risultato, in Francia, in Italia, in Spagna e in Portogallo i sindacati, anziché unirsi in organizzazioni di massa e convergere in un’unica confederazione sindacale in grado di assumere un ruolo di partner sociale responsabile, sull’esempio dei paesi dell’Europa del Nord o della Germania, si sono divisi a seconda dell’appartenenza ideologica e confessionale dei loro affiliati mettendosi in concorrenza tra loro. Particolarmente duro è stato il conflitto tra la CGT comunista francese e i sindacati rivali della CFDT e della FO. Di conseguenza, in Francia il numero dei lavoratori sindacalizzati è sceso al livello più basso di tutti i paesi dell’OCSE; e i sindacati francesi non hanno potuto dare alcun contributo di rilievo né alla costruzione europea, né ai rapporti internazionali di solidarietà tra i lavoratori in un contesto più ampio, al di là dei confini dell’UE.

Più di recente, mentre perduravano le divisioni nella sinistra, i partiti di destra hanno intensificato i loro rapporti internazionali. George W. Bush è stato il primo presidente americano a dare importanza all’internazionalismo politico in campo conservatore. Ha partecipato, intervenendovi, agli incontri della federazione globale dei partiti di destra, e ha seguito con attenzione le sue attività, in particolare in Sud America e in Europa orientale. Ha inoltre attribuito un ruolo chiave a José Maria Aznar sia come primo ministro spagnolo, sia, dopo la sua sconfitta nel 2004, come organizzatore della nuova confederazione dei partiti della destra. Il presidente americano spera in particolare che Angela Merkel e, qualora venga eletto alla carica di presidente francese, Nicolas Sarkozy prendano in seria considerazione questa organizzazione mondiale dei partiti di destra. Se il XX secolo è stato contrassegnato dal fallimento dei tentativi della sinistra di costruire un internazionalismo coerente, il XXI si è aperto con un serio tentativo della destra di stabilire legami tra i partiti conservatori e democristiani di tutto il mondo.

L’Europa annovera, accanto al Partito dei Socialisti Europei (PSE), i democratici e conservatori aderenti al PPE e altri raggruppamenti dei partiti liberali, dei Verdi e di formazioni dell’estrema sinistra e dell’estrema destra. Un terzo livello di aggregazioni sopranazionali è rappresentato dai gruppi politici del parlamento europeo. Conseguenza di questa cacofonia è l’assenza di una chiara linea d’identità. Il leader del PSE Paul Nyrup Anderson, già alla testa dei socialdemocratici danesi, siede al Parlamento europeo accanto al leader del gruppo socialista, il tedesco Martin Schultz. Il risultato è un’eccessiva attenzione all’assemblea di Strasburgo, in quanto sede dell’attività del PSE. Al tempo stesso però gli attivisti europei della sinistra tendono per lo più a rimuovere i dibattiti e le decisioni del Parlamento europeo, per quanto interessanti e importanti, dalle loro lotte quotidiane per l’attuazione di politiche progressiste a livello locale, regionale e nazionale.

I gruppi parlamentari europei non seguono regole di affiliazione ben definite. Ad esempio, due parlamentari polacchi che nel loro paese appartengono a partiti di estrema destra, attualmente coalizzati col partito di governo PIS capeggiato dai fratelli Kaczinski, hanno aderito al gruppo socialista. In Polonia si diventa parlamentare europeo per designazione personale da parte dei leader di partito (che a volte scelgono per questi incarichi i loro parenti e amici), e si è liberi di aderire a qualunque gruppo parlamentare. D’altra parte, i socialisti di Strasburgo, ansiosi di mantenere alto il numero dei membri del loro gruppo, chiudono ambedue gli occhi di fronte agli stravaganti precedenti politici di alcuni loro colleghi. Allo stesso modo, il PPE deve convivere col partito conservatore del Regno Unito, violentemente anti-europeo. Il nuovo gruppo dirigente conservatore britannico ha annunciato che dopo le elezioni europee del 2009, il partito uscirà dal PPE per formare un nuovo gruppo di euroscettici, insieme al partito ODS della Repubblica Ceca. Il partito estremista austriaco di Haider ha fatto parte del Partito liberale europeo, e gli stessi liberali europei sono divisi tra partiti nettamente schierati a destra, favorevoli a un approccio economico simile a quello propugnato dalla scuola di Chicago, e formazioni più articolate e aperte al sociale quali i liberaldemocratici britannici o l’UDF francese.

La confusione che regna al Parlamento europeo è ulteriormente aggravata dalla necessità di stabilire accordi trasversali tra i partiti per l’assegnazione di alcuni importanti incarichi istituzionali. Ad esempio, benché alle elezioni del 2004 il gruppo del PPE abbia conquistato il maggior numero di seggi, la carica di nuovo presidente del Parlamento europeo è stata conferita al socialista catalano Josip Borrell, eletto per la prima volta a Strasburgo. Senza alcun dubbio Borrell, oltre a essere poliglotta, è un politico europeo di prim’ordine, e all’assemblea di Strasburgo si è dimostrato un ottimo presidente; resta però il fatto che è arrivato a quell’alta carica europea non in quanto eletto o designato attraverso un processo democratico trasparente, ma in seguito a una decisione presa dopo una discussione interna a porte chiuse tra i leader dei partiti e i loro funzionari internazionali. Vi sono state forti pressioni per nominare leader del PSE il socialdemocratico italiano Giuliano Amato, una figura molto autorevole e rispettata; ma né Tony Blair, né Gerhard Schroeder erano disposti a battersi per lui, e i suoi oppositori di Parigi e Madrid, che diffidavano del suo atlantismo, si sono organizzati efficacemente per impedire la sua nomina.

I gruppi parlamentari europei sono costantemente sottoposti alle pressioni delle strutture politiche nazionali e condizionati dalla cultura e dalle priorità di ciascun paese. L’ostilità tedesca e austriaca nei confronti della Turchia e dell’identità musulmana in Europa ha portato ad alcune affermazioni anti-turche assai sgradevoli, così come a tentativi di inserimento di un riferimento al cristianesimo nella Costituzione europea – una proposta estranea alla cultura laica e secolare della Francia. I socialisti tedeschi e italiani hanno chiesto all’Europa una decisione sugli orari di lavoro, senza tener conto dell’esempio di due paesi chiave dell’Unione quali la Francia e la Germania, dai quali appare chiaro che senza un mercato del lavoro moderno e flessibile la disoccupazione di massa aumenta.

I parlamentari europei del Partito laburista britannico sanno che gli alti livelli occupazionali, gli aumenti salariali e i massicci investimenti nel settore del pubblico impiego sono possibili anche grazie alla maggior flessibilità del mercato del lavoro britannico. E si sono trovati nella scomoda posizione di doversi opporre agli appartenenti al loro stesso gruppo al Parlamento europeo. Se lo hanno fatto, è stato nell’interesse dei lavoratori del Regno Unito, che preferiscono lavorare con orari variabili – più brevi, o anche più pesanti di quelli francesi o tedeschi, a seconda delle esigenze – piuttosto che restare disoccupati per conformarsi alla rigida regola delle trentacinque ore difesa da alcuni partiti di sinistra dell’Europa continentale.

Inoltre i parlamentari europei del partito laburista britannico hanno dovuto cercare di moderare i fervori antiamericani e protezionisti dei loro colleghi socialisti francesi. La solidarietà europea è venuta meno anche nei confronti della Polonia, quando il governo tedesco a guida socialdemocratica e i governi di destra francese e italiano hanno negato ai cittadini polacchi la possibilità di concorrere per posti di lavoro in Francia e in Germania anche dopo l’entrata della Polonia nell’Unione nel 2004. Né i gruppi del PPE e del PSE a Strasburgo, né le organizzazioni partitiche europee sono state in grado di sostenere le aspirazioni europeiste polacche, dato che a livello nazionale prevalevano posizioni contrarie ad aprire il mercato del lavoro all’«idraulico polacco», e più in generale ai lavoratori dell’Est europeo. Si è così rifiutato di accettare, come sarebbe stato normale, uno degli elementi chiave della costruzione europea: la libera circolazione dei cittadini e dei lavoratori. In questo modo, a causa dell’incoerenza delle posizioni in politica interna nei singoli paesi, i gruppi parlamentari europei, lungi dal rafforzare l’autorità e l’identità dei partiti politici dell’UE, non fanno che allontanare sempre più la costruzione di un’effettiva politica europea. Il politico italiano Enrico Letta ha rifiutato questa argomentazione e ha invece sostenuto che i gruppi «possono garantire alle famiglie politiche europee un rafforzamento del loro ruolo, stabilendo un’area istituzionale autonoma nell’arena politica europea, promuovendo in tal modo anche il processo di integrazione europea; lo sviluppo di partiti europei forti e moderni ha il significato di una richiesta di maggior potere decisionale a livello europeo e costituisce un incentivo a portare avanti il processo di costruzione di un’autentica governance sopranazionale».

Enrico Letta ha così espresso quella che è la comune ambizione della sinistra europea fin dagli anni Novanta e in questi primi anni del XXI secolo, di dar vita a una politica coerente a livello paneuropeo. Purtroppo però, un nuovo realismo ci costringe a riconoscere che una politica complessiva così concepita ha scarse possibilità di soppiantare le mutevoli esigenze e le priorità di politica interna dei partiti della sinistra. In occasione delle elezioni europee del 1999, Robin Cook e Henri Nallet scrissero a nome dei rispettivi partiti (il partito laburista britannico e quello socialista francese, allora entrambi al governo) un manifesto comune. Come ricorda Nallet, dovettero concordare non solo ogni parola, ma addirittura ogni virgola. Nulla, in quel documento, avrebbe dovuto offendere Tony Blair o Lionel Jospin i cui partiti, ancorché di sinistra, avevano posizioni fondamentalmente divergenti sulla maggior parte delle questioni interne e internazionali. Di conseguenza, il manifesto ha finito per essere talmente appiattito da non avere più alcuna risonanza in campagna elettorale. In vista delle elezioni del 2004, il PSE e il gruppo socialista del Parlamento europeo avevano ormai perduto ogni interesse alla elaborazione di un manifesto nel senso pieno del termine. I partiti di sinistra erano troppo divisi sulla politica estera, e trovandosi all’opposizione in numerosi paesi (Francia, Spagna, Italia, Danimarca e Portogallo) tendevano ad essere ideologicamente meno cauti di quando avevano responsabilità di governo. Per queste ragioni non si è ritenuto possibile accordarsi su un manifesto che non fosse soltanto un vago elenco di aspirazioni generiche.

L’esigenza di mettere a punto una coerente politica paneuropea a fronte delle nuove tematiche della globalizzazione, delle sfide legate alla tutela dell’ambiente, di una politica europea per il Medio Oriente e il Mediterraneo occidentale, oltre che delle necessarie misure per rilanciare l’occupazione in Europa, non è mai stata tanto grande. Ma per raggiungere questi obiettivi l’unica via possibile è il rilancio del networking europeo, rinunciando all’aspirazione di riprodurre in Europa le organizzazioni classiche dei partiti politici, dei gruppi parlamentari e persino le posizioni di singoli leader.

In questo contesto, è importante che il Partito Democratico in Italia agisca come un ponte tra le due famiglie politiche europee non di destra. A livello europeo, le due principali componenti del nuovo Partito Democratico appartengono ai gruppi socialista e liberale. Il nuovo partito dovrebbe mirare alla continuità di questa duplice affiliazione. La nuova politica in Europa non è definita da una singola ideologia, da un singolo manifesto o da un’élite di partito. I partiti stanno diventando più eterogenei. E devono aprirsi ad altre realtà in campo economico e sociale, ai gruppi comunitari e alle ONG politicamente impegnate. I partiti politici sono comunque indispensabili per far convergere le domande contraddittorie dell’economia, della società, dell’ambiente e dei nuovi gruppi etnici presenti in Europa, nonché per stabilire le priorità in grado di conquistare il sostegno elettorale.

Non esiste però alcun monopolio di idee o di proposte. A livello sopranazionale vanno inoltre affrontate nuove difficoltà. L’orientamento europeo è quello dei protezionisti della sinistra francese, schierati per il «no» al referendum sulla Costituzione europea? O la via giusta per andare avanti è il nuovo modello laburista fondato su un’economia aperta e sulla piena accettazione di un compromesso con la globalizzazione? Quali sono esattamente i poteri da conferire a Bruxelles, e quali devono essere esercitati dai governi nazionali? Come costruire nuovi rapporti tra l’Europa e l’America del dopo-Bush? La Russia rappresenta un pericolo o un’opportunità?

Su tutte queste problematiche è necessario un dialogo, e ove possibile un’azione comune tra i partiti classici della sinistra e altre formazioni politiche. I gruppi parlamentari e i partiti politici europei non possono essere solo formazioni settarie, alla ricerca di un’identità sacralizzata a livello europeo, quando a quello nazionale si sta facendo strada una nuova politica fluida, aperta agli esponenti politici e ai partiti suscettibili di aderire a obiettivi comuni.

Il PSE dovrebbe dare un’accoglienza favorevole e priva di ambiguità al Partito Democratico italiano, realizzazione del sogno a lungo coltivato dell’unificazione di tutte le forze progressiste e riformiste in Italia. La doppia affiliazione – almeno in una prima fase – al PSE e al Partito liberaldemocratico europeo non dovrebbe porre problemi. Le organizzazioni e i gruppi politici paneuropei si trovano tuttora in una fase embrionale, o quanto meno di apprendimento. Il Partito Democratico italiano potrebbe rappresentare una forza importante per il riallineamento della politica europea e la costruzione di ponti tra i partiti della sinistra europea, che hanno perso la capacità di dialogare e di agire in maniera efficiente sulla base dell’unità e della solidarietà.