Appunti per una discussione sulla cultura politica del partito dell'Ulivo

Di Roberto Gualtieri Venerdì 01 Settembre 2006 02:00 Stampa

Il processo di costruzione dell’Ulivo-partito non nasce oggi, ma attraversa da molti anni la politica italiana. Fin dalla sua costituzione nel 1995, l’Ulivo si è configurato come qualcosa di più di una semplice alleanza elettorale tra partiti distinti, mentre la decisione presa alle elezioni europee del 2004 di presentare la lista unitaria in una competizione di tipo proporzionale ha definitivamente connotato l’Ulivo come l’embrione di un nuovo soggetto politico. La riproposizione di quella scelta ha infine sancito il carattere irreversibile di un processo che, con la formazione dei gruppi unitari nei due rami del parlamento, si presenta già in una fase assai avanzata. D’altronde, il crescente appeal elettorale della lista unitaria dimostra in modo inequivocabile due cose.

Il processo di costruzione dell’Ulivo-partito non nasce oggi, ma attraversa da molti anni la politica italiana. Fin dalla sua costituzione nel 1995, l’Ulivo si è configurato come qualcosa di più di una semplice alleanza elettorale tra partiti distinti, mentre la decisione presa alle elezioni europee del 2004 di presentare la lista unitaria in una competizione di tipo proporzionale ha definitivamente connotato l’Ulivo come l’embrione di un nuovo soggetto politico. La riproposizione di quella scelta ha infine sancito il carattere irreversibile di un processo che, con la formazione dei gruppi unitari nei due rami del parlamento, si presenta già in una fase assai avanzata. D’altronde, il crescente appeal elettorale della lista unitaria dimostra in modo inequivocabile due cose. In primo luogo, le trasformazioni interne e internazionali dell’ultimo quindicennio hanno progressivamente fatto venir meno le profonde fratture sociali (divisione tra classe operaia e ceto medio), culturali (incomunicabilità ideologica tra movimento socialista e cattolicesimo politico), internazionali (guerra fredda) e politiche (presenza di un forte partito comunista con le caratteristiche del PCI) che avevano dato forma al sistema politico della prima Repubblica e alla divisione dei diversi filoni del riformismo. Esiste insomma uno spazio elettorale consistente, al cui interno si è determinata in questi anni una convergenza molto significativa in cui gli elementi di unità sono assai superiori a quelli di distinzione e che quindi costituisce la potenziale base sociale e la constituency di un nuovo partito. In secondo luogo, l’Ulivo appare in grado di occupare questo spazio politico-elettorale. Non è certo necessario in questa sede richiamare l’analisi dei risultati elettorali per affermare che la superiore espansività della lista unitaria rispetto alle liste di DS e Margherita, sia nei confronti dell’elettorato moderato che di quello di sinistra, nonché la sua compiuta «ambientazione» anche nelle zone in cui le subculture tradizionali sono più forti e radicate, costituiscono ormai un dato acquisito. A questo quadro le successive elezioni amministrative hanno aggiunto un ulteriore elemento di riflessione che riguarda l’elettorato che dal 1993 in poi aveva votato per il centrosinistra al maggioritario (per il sindaco, per il presidente di regione o per il candidato di coalizione nei collegi uninominali), ma non per i partiti. La presenza di un forte gap tra voto maggioritario e voto proporzionale ha costituito uno degli indicatori più affidabili della difficoltà e dei limiti del sistema politico della seconda Repubblica, e dell’incompiutezza di una transizione verso un nuovo assetto in cui alla politica non fosse assegnato un ruolo residuale. Ora alle ultime elezioni è avvenuto che, nelle città dove si è presentata la lista unitaria, il gap tra il voto ai partiti e quello al sindaco si è notevolmente ridotto, nonostante l’altissimo livello di popolarità e di consenso di figure come Chiamparino e Veltroni. Questa inedita tendenza alla «partitizzazione» del voto di coalizione e la capacità della lista unitaria di intercettarlo costituiscono quindi l’ennesima dimostrazione dell’esistenza di una forte domanda per il nuovo partito e della capacità dell’Ulivo di rispondere ad essa.

Perché da questa potenzialità scaturisca una nuova soggettività politica, cioè un partito, occorre però affrontare un nodo ineludibile, la cui importanza è persino superiore a quella delle regole e delle tappe del processo unitario: il nodo della cultura politica. Se vorrà essere un organismo vitale e dotato delle risorse necessarie a garantire la propria riproduzione, il partito dell’Ulivo dovrà infatti affondare le proprie radici in una nuova cultura politica. Dovrà cioè essere in grado di motivare le ragioni della sua esistenza non solo sulla base di argomentazioni di natura politologica (ridurre la frammentazione), ma anche sulla capacità di individuare e rendere esplicita la propria «necessità storica» e di fondare su di essa la sua identità. L’identità di un partito non è data infatti solo dagli interessi che esso rappresenta (o che aspira a rappresentare), né solo dai valori che proclama, ma dalla «funzione» che esso intende assolvere. E la definizione di una funzione non può che discendere dall’elaborazione di una visione originale dei processi storici nazionali e internazionali, dall’individuazione dei compiti che tali processi assegnano alle forze di progresso, e infine dalla capacità di ricondurre a tali compiti i caratteri specifici della forza politica che vuole interpretarli.

È dunque su questo tema che occorre cimentarsi. Sapendo che è del tutto evidente che una nuova cultura politica non potrà che nascere dall’incontro tra culture, tradizioni ed esperienze diverse. Ma anche che i DS devono giungere a quell’incontro definendo e precisando la propria visione del problema dell’identità e della cultura politica del nuovo partito. Senza un impianto politico-culturale forte, in grado di fondare la costruzione di una grande forza nazionale, popolare e democratica sulla consapevolezza della sua necessità storica, del suo ruolo, della sua missione, un partito dotato di tali caratteristiche, e quindi un partito «utile per l’Italia», difficilmente potrà nascere. E se è vero che un tale impianto non potrà scaturire solo dai DS, dalla loro cultura, dalla loro tradizione (altrimenti non avremmo avuto bisogno di fare l’Ulivo), al tempo stesso è del tutto evidente che esso non può fare a meno del contributo della cultura politica che deriva dal meglio della nostra storia.

Il primo punto su cui è necessario impostare una riflessione riguarda l’idea d’Italia su cui deve fondarsi il nuovo partito, ossia l’interpretazione dei caratteri e delle radici dei mutamenti del paese, delle sfide e delle opportunità che esso ha dinanzi a sé. È un tema che a sua volta rimanda all’esigenza di un’analisi differenziata che collochi le specificità della situazione italiana nel quadro di una visione più generale dell’Europa e del nuovo scenario della globalizzazione. Si tratta del terreno su cui in realtà la nostra elaborazione è più avanzata. Al di là del carattere omnicomprensivo e dei limiti del programma dell’Unione, nelle prime scelte del governo sono già ben visibili alcune delle linee di un «programma fondamentale» sotteso ad esse che appare adeguato a definire la missione e i caratteri di un nuovo partito. Un programma fondamentale che è stato al centro del III congresso dei DS, e che per le sue caratteristiche incorpora un’interpretazione della crisi italiana e del nuovo scenario globale assai diversa da quella che ha dominato il discorso pubblico nel passato decennio. Non è necessario in questa sede richiamare le linee di fondo di tale programma sul terreno interno e internazionale. Più utile forse, ai fini del discorso sulla cultura politica, è esplicitarne il presupposto, che può essere sinteticamente individuato nella consapevolezza che Berlusconi è il sintomo e non la causa della malattia dell’Italia, e che la malattia non è dovuta alla natura partitocratica, statalista, centralista, parlamentarista e consociativa del regime politico della prima Repubblica. La crisi è più profonda, e affonda le sue radici nel venir meno delle condizioni interne e internazionali di quello straordinario (e virtuoso) compromesso economico, territoriale e politico su cui si era fondata la costituzione materiale del paese e che, intorno al peculiare bipolarismo DC-PCI, ne aveva garantito per decenni lo sviluppo e il progresso sociale e civile. Se dunque siamo di fronte ad una crisi storica, che mette in discussione le basi stesse dell’organismo statuale italiano, della sua unità e della sua collocazione nella divisione internazionale del lavoro, una terapia che, conformemente alla diagnosi sopra richiamata («il problema è la partitocrazia, lo statalismo, il centralismo e il consociativismo della prima Repubblica»), si basi sulle ricette della riduzione del ruolo dei partiti, della privatizzazione per fare cassa, del federalismo e del leaderismo è non solo inadeguata, ma diviene essa stessa causa di un aggravamento del male. Non è nemmeno necessario sottolineare che ciò non significa negare che il paese abbia bisogno anche di un chiaro confine alle prerogative e all’invadenza dei partiti, di un superamento del vecchio statalismo, di una valorizzazione del ruolo (e delle responsabilità) degli enti locali e di un assetto delle istituzioni adeguato a sorreggere un moderno regime dell’alternanza. Ma l’inedito intreccio, che costituisce il cuore del nostro programma, tra un deciso sforzo per il mercato e la concorrenza e un impegno per la rifondazione di una statualità capace di garantire i beni collettivi essenziali e di accompagnare la modernizzione competitiva, il rilancio del Mezzogiorno, la reindustrializzazione e l’europeizzazione del paese, indica la raggiunta consapevolezza che la riscossa dell’Italia richiede ben altro che le ricette neoliberali in auge negli anni Novanta. Lo stesso vale per il piano internazionale, che naturalmente può essere distinto da quello interno solo convenzionalmente. Anche qui le linee già chiaramente visibili di una nuova politica estera dell’Italia e l’impostazione stessa del tema della modernizzazione incorporano un grado di elaborazione assai avanzato sui caratteri del processo di globalizzazione e sullo stretto nesso che lega tra loro il modello attuale di divisione internazionale del lavoro, l’architettura del sistema finanziario internazionale (la «nuova Bretton Woods» del noto saggio del 2004 di Dooley e altri) e l’unilateralismo dell’attuale Amministrazione statunitense. È una visione che enfatizza i rischi derivanti da un assetto che rischia di marginalizzare l’Europa e ancor più l’Italia di fronte all’asse tra Stati Uniti e Cina, ma che allo stesso tempo mette in evidenza anche le straordinarie opportunità di crescita e di sviluppo che derivano dal processo di globalizzazione. E che perciò costituisce il fondamento di un attivo impegno per rendere l’Europa un attore internazionale capace di contribuire a costruire una nuova governance globale. Di una linea cioè che appare assai distante sia dal neo-nazionalismo economico protezionista della destra, sia dall’idea (che ad esempio sembra trasparire invece dal «manifesto» per il Partito Democratico recentemente pubblicato da Michele Salvati) secondo cui il quadro internazionale andrebbe considerato come una semplice variabile indipendente a cui adeguarsi passivamente. È una visione, insomma, significativamente diversa da quelle che scaturiscono dalle due principali interpretazioni di matrice liberale del processo di globalizzazione, che per comodità possiamo ricondurre rispettivamente ad Huntington e a Fukuyama.

Il secondo ambito tematico riguarda il nodo dei soggetti politici e delle istituzioni. È un ambito strettamente legato al primo per due ragioni. In primo luogo, perché un programma come quello sopra sommariamente richiamato non può essere realizzato senza una forte soggettività politica che lo incarni e lo faccia vivere nella società. In secondo luogo, perché quel programma si basa su un’analisi della crisi italiana che ne individua il cuore e la sostanza in un «deficit di politica», ossia nel vuoto di visione e di direzione politica determinatosi negli anni Ottanta per effetto dell’incapacità del vecchio sistema dei partiti di evolvere in un moderno regime dell’alternanza. Un’incapacità che a sua volta andrebbe ricondotta non tanto ai caratteri originari delle culture politiche dei principali partiti italiani (assenza di una adeguata «teoria dello Stato» nel PCI, incapacità congenita del cattolicesimo politico di fare i conti con il processo di secolarizzazione), quanto alla progressiva perdita, da parte delle elite del paese, della capacità di rielaborare l’interesse nazionale di fronte alle imponenti trasformazioni interne e internazionali avviatesi nel corso degli anni Settanta. Tematizzare il problema delle riforme nella chiave della costruzione di una moderna «democrazia dei partiti», necessaria a colmare quel deficit di politica che è alla base della crisi del paese (e che si manifesta nell’assenza in entrambi gli schieramenti di partiti comparabili, per dimensione e per natura, alle grandi forze politiche europee), costituisce quindi un elemento di innovazione culturale assai significativo. Questo naturalmente non esaurisce il tema delle riforme istituzionali, ma implica lo sforzo di affrontare in modo coerente con questo assunto le questioni della forma di Stato, della forma di governo, della legge elettorale. Al tempo stesso, ciò apre un terreno di riflessione assai ricco sulla natura di un partito politico nel XXI secolo, sulle forme del suo rapporto con la società, sul modo di organizzare le competenze, sul ruolo del sindacato (una questione che appare particolarmente urgente affrontare in modo adeguato), sui caratteri di un nuovo collateralismo.

Il terzo ambito tematico riguarda il problema della visione del passato. È un tema cruciale, perché il principale fondamento della cultura politica di un partito, il terreno su cui si definisce la sua funzione e quindi la sua identità, è proprio quello della lettura del passato. Come ho già avuto modo di accennare, una delle ragioni di fondo che spiegano i limiti e il carattere incompiuto della transizione italiana risiede nel carattere inadeguato dell’interpretazione della storia della Repubblica («cinquant’anni di partitocrazia e di consociativismo») e di quella del Novecento («il secolo delle ideologie e dei totalitarismi») su cui si è fondata la cultura politica della seconda Repubblica. È una lettura di cui ritroviamo le tracce nel modo in cui alcune forze impostano ancora oggi la questione del Partito Democratico, denunciando i rischi di un nuovo «compromesso storico» sulla base dell’idea, come scrive sempre Michele Salvati nel suo manifesto, che fin dal dopoguerra «la politica è stata quasi sempre un pezzo del problema e non la soluzione». In realtà, proprio questa idea demonizzante della storia della prima Repubblica e l’ostinata volontà di fare «tabula rasa» del suo retaggio ha prodotto l’esito opposto (tipico di ogni tentativo di rimozione del passato) di impedire una compiuta elaborazione di quell’esperienza e un effettivo superamento di molti dei suoi aspetti più caduchi. Ciò ha favorito il protrarsi di un’interminabile transizione, in cui il passato riaffiora costantemente nella vita pubblica non già come un patrimonio di idee e di esperienze da cui attingere l’eredità migliore e più viva, quanto piuttosto come un «morto che afferra il vivo» e gli impedisce di crescere e di svilupparsi. Non è questa la sede per soffermarsi sui risultati dello sforzo di «revisionismo» che su questo terreno vede impegnata la Fondazione Istituto Gramsci da oltre un decennio in una collaborazione feconda con l’Istituto Sturzo e con altre correnti storiografiche e culturali italiane e internazionali, né sui caratteri di un metodo di lavoro incentrato sull’innovazione dei paradigmi e sull’uso delle nuove fonti di archivio. Può essere qui sufficiente limitarsi a sottolineare come la rilettura della vicenda storica italiana in cui siamo impegnati dia conto, forse meglio di altre, delle ragioni profonde che stanno dietro la necessità di unire tradizioni politiche diverse. Se infatti si considera il sistema politico della prima Repubblica non già come un’anomalia a cui attribuire la responsabilità dell’infinita serie di «occasioni mancate» che avrebbe punteggiato la storia del dopoguerra, bensì come un potente fattore di modernizzazione e di europeizzazione di un paese arretrato, e si attribuisce la crisi di quei partiti innanzitutto al successo di tale azione, che li rese obsoleti in un paese divenuto a capitalismo maturo, alcune caratteristiche obbligate del processo di costruzione del nuovo partito risultano di più semplice comprensione. Da un lato, l’interpretazione della storia del PCI che scaturisce da questa lettura contribuisce a spiegare perché la peculiare eredità del «riformismo comunista» costituisca una risorsa a un tempo necessaria e non sufficiente per la nascita di una grande forza riformista e democratica. Dall’altro, una giusta considerazione dello spessore del riformismo espresso dalla DC, che faccia giustizia di una vulgata assai radicata tra i gruppi intellettuali italiani, consente di comprendere meglio perché senza il contributo di quella tradizione non potrà mai nascere una forza analoga, per funzione e dimensioni, ai grandi partiti del socialismo europeo. Il che, tra l’altro, può essere di qualche aiuto per spiegare l’apparente paradosso in base al quale in Italia un grande partito riformista di tipo europeo non possa dirsi socialista, mentre ponendo tale questione in modo pregiudiziale si otterrebbe l’effetto opposto di impedire di fatto la nascita di una formazione a tutti gli effetti comparabile all’SPD, al Labour Party o al PSOE (questione diversa è quella che riguarda le alleanze e la collocazione internazionale del nuovo partito).

Il quarto e ultimo ambito tematico è quello delle cosiddette questioni eticamente sensibili, del rapporto tra etica e politica e di quello tra la politica e la Chiesa. Il tema cioè della definizione di un orizzonte etico comune e della laicità della politica. Non entro nel merito di questo complesso e denso nodo tematico, ma mi limito a formulare alcune considerazioni di carattere metodologico. La prima riguarda l’esigenza di considerare l’etica e la politica come attività distinte, ossia reciprocamente autonome anche se in rapporto tra loro. È una distinzione importante, perché la tendenza attualmente così diffusa a politicizzare le questioni etiche o ad affrontare i problemi politici con gli strumenti dell’etica costituisce un indicatore allarmante di una duplice crisi, che investe sia la sfera della politica che quella dell’etica. Evitare commistioni tra etica e politica è quindi la prima condizione per misurarsi con il problema vivissimo della decadenza morale del paese, che rappresenta uno dei sintomi e al tempo stesso una delle cause più profonde del suo declino. Da questo punto di vista, il principale problema che ci troviamo di fronte non mi sembra essere quello dell’ingerenza della Chiesa nella vita pubblica. Il vero problema è quello, duplice, che la politica è debole di fronte alla Chiesa come di fronte ad ogni altro corpo organizzato della società, e che la cultura laica ha sostanzialmente abbandonato il campo del discorso sull’etica (tranne che nelle forme deteriori del moralismo politico, a cui solitamente si accompagna l’immoralità più sfrenata), lasciando su questo terreno la Chiesa in un totale stato di solitudine. Ma in che modo dunque andrebbero affrontati i problemi morali?

È opportuno a questo punto introdurre una seconda distinzione, quella tra «etica normativa», fondata sui valori, ed «etica condivisa». Sulla base dell’etica normativa, sia nella versione dogmatica tipica delle religioni che in quella laica dell’imperativo categorico kantiano, è assai difficile ricercare le basi etiche del vivere comune, perché i «valori» dividono la società e non la uniscono, e devono perciò essere lasciati alla sfera individuale. Addirittura esiziale sarebbe poi affrontare i problemi politici sulla base dello scontro tra valori. Il terreno per il discorso etico deve essere quindi quello dell’etica condivisa, che si fonda non sulle norme, ma sulla capacità degli individui di unirsi e di superare le difficoltà della vita. È un’etica del lavoro, che si concentra sul fare e sui progetti, ed è un’etica del dialogo, perché è aperta al confronto tra posizioni diverse e non si arrocca in principi non negoziabili. Su questa base, un confronto con la Chiesa diventa così finalmente possibile e utile. Possibile perché mentre sulla base dell’etica normativa il discorso etico religioso è inevitabilmente assai distante da quello di un non credente (e viceversa), questo secondo approccio consente di riconoscere che l’etica cristiana costituisce in buona misura il fondamento morale della società europea. Utile perché un dialogo fecondo tra non credenti e cattolici è indispensabile per affrontare i grandi problemi morali del nostro tempo, e perché solo sgombrando il campo da ogni impropria commistione tra etica e politica e dalla trappola del discorso sui «valori» sarà possibile misurarsi con successo con i problemi eminentemente politici che riguardano la formazione del partito dell’Ulivo. Nella consapevolezza che, con la fine della guerra fredda e dell’unità politica dei cattolici, il campo delle forze riformiste da unificare è in misura significativa rappresentato dal riformismo cattolico, e che quindi la mediazione etica su cui si ridefinisce la laicità della politica va realizzata insieme ad esso nel nuovo spazio politico condiviso.1

 

 

Nota

1 L’articolo è tratto dalla relazione svolta il 6 luglio 2006 ad un seminario sul contributo dei centri di ricerca di area DS alla cultura politica del partito dell’Ulivo.