Partito Democratico e nuova laicità

Di Agostino Giovagnoli Venerdì 01 Settembre 2006 02:00 Stampa

Il dibattito sul nuovo Partito Democratico si è intrecciato negli ultimi mesi con il problema del rapporto di questa nuova formazione politica con la tradizione e i valori cristiani. Ma, in Italia, dire cristianesimo significa dire Chiesa cattolica, scriveva De Gasperi, ed è inevitabile che anche oggi i due aspetti si intreccino strettamente. Ne è scaturita una notevole varietà di prese di posizione, da Francesco Rutelli, che ha ricordato l’atteggiamento di Togliatti verso le istituzioni ecclesiastiche, a Livia Turco, che ha indicato la via di un rapporto con le realtà più vive e significative del mondo cattolico, e a Franco Monaco, che ha posto l’accento sulla dimensione personale e coscienziale del riferimento ai valori cristiani. Oppure da Pietro Scoppola e Giorgio Tonini, che hanno insistito sulla questione di un’ispirazione cristiana del nascente Partito Democratico, a Massimo Salvadori ed Emanuele Macaluso che hanno sottolineato gli effetti della secolarizzazione in Europa e affermato l’esigenza di fondare il nuovo partito su basi rigorosamente laiche. Ma si potrebbero ricordare anche tanti altri interventi, come quelli di Ranieri, Acquaviva e molti altri.

Il dibattito sul nuovo Partito Democratico si è intrecciato negli ultimi mesi con il problema del rapporto di questa nuova formazione politica con la tradizione e i valori cristiani. Ma, in Italia, dire cristianesimo significa dire Chiesa cattolica, scriveva De Gasperi, ed è inevitabile che anche oggi i due aspetti si intreccino strettamente. Ne è scaturita una notevole varietà di prese di posizione, da Francesco Rutelli, che ha ricordato l’atteggiamento di Togliatti verso le istituzioni ecclesiastiche, a Livia Turco, che ha indicato la via di un rapporto con le realtà più vive e significative del mondo cattolico, e a Franco Monaco, che ha posto l’accento sulla dimensione personale e coscienziale del riferimento ai valori cristiani. Oppure da Pietro Scoppola e Giorgio Tonini, che hanno insistito sulla questione di un’ispirazione cristiana del nascente Partito Democratico, a Massimo Salvadori ed Emanuele Macaluso che hanno sottolineato gli effetti della secolarizzazione in Europa e affermato l’esigenza di fondare il nuovo partito su basi rigorosamente laiche. Ma si potrebbero ricordare anche tanti altri interventi, come quelli di Ranieri, Acquaviva e molti altri.

Sono così emersi elementi e spunti interessanti, alcuni di grande valore, tutti caratterizzati, però, da una certa frammentarietà di approccio, lasciando insolute alcune questioni di fondo intorno alla natura e agli obiettivi del futuro PD. Evocando Togliatti o richiamando la formula morotea del partito di ispirazione cristiana, ma anche insistendo sul primato della coscienza o sulla dimensione della laicità, inoltre, si corre il rischio di guardare più al passato che al futuro, mentre la nascita di una nuova formazione politica dovrebbe sollecitare – non solo in chi la promuove – una riflessione di fondo su dove stiamo andando e dove vogliamo andare. Nel caso del PD, tale riflessione appare addirittura necessaria. Da troppo tempo, infatti, si prolunga in Italia una transizione incompiuta verso un nuovo sistema politico e la nascita di questo partito costituisce un’occasione unica per uscire dal «bipolarismo imperfetto» che ha segnato le vicende italiane dal 1994. Non si vuole certamente affermare, in questo modo, che le lezioni della storia siano inutili, tutt’altro. Ma in un campo così importante e complesso, in cui molti sono i precedenti che è possibile richiamare, occorre distinguere tra ciò che è ormai impossibile recuperare e ciò che invece è ancora attuale.

Evocare Togliatti, come ha fatto Rutelli, significa inevitabilmente richiamare un approccio realista ai rapporti tra Stato e Chiesa, ma seguire quel modello potrebbe rivelarsi troppo poco per il futuro PD. La politica ecclesiastica di Togliatti, infatti, aveva alle spalle una formazione politica molto diversa dal quella che sarà la nuova formazione, e cioè il Partito Comunista Italiano, parte di un movimento comunista internazionale in profondo contrasto con la Chiesa cattolica. Il voto comunista per l’articolo 7 e la costituzionalizzazione dei Patti lateranensi furono perciò giustamente considerati una scelta di importanza storica. Ma per il PD, paradossalmente, le cose saranno meno facili, perché questo partito nasce in un contesto molto diverso, non ha alle spalle decenni di lotta contro la Chiesa e il suo retroterra è ideologicamente molto meno distante di quello del PCI. Una semplice «astensione» dallo scontro sul piano dei rapporti Chiesa-Stato, perciò, non avrebbe altrettanta importanza storica e non risponderebbe alle attese del mondo cattolico. Ma giustamente Rutelli è andato oltre quando ha fatto riferimento all’esortazione togliattiana a cercare il «radicamento» del mondo cattolico: è il Togliatti del discorso di Bergamo del 1963, che riprendeva gli appelli giovannei alla pace nel mondo, più utopico che realista, più mounierano che marxista, come ha scritto il suo biografo Aldo Agosta. Ma quello fu solo un inizio: è stato Berlinguer ad assumere le radici ideali della presenza sociale e politica dei cattolici come fondamento di un’intera strategia politica.

Un approccio puramente istituzionale, inoltre, sarebbe troppo riduttivo anche sotto un secondo profilo. Rutelli ha parlato di ritorno della «Chiesa di popolo», che però non può essere identificata tout court con i frequentatori della messa domenicale nelle parrocchie, così come non basta rilevare che c’è ascolto delle indicazioni della gerarchia per ritenere sufficiente la cura di rapporti con i vertici ecclesiastici, come fece Togliatti che, votando l’articolo 7, tolse un ostacolo rilevante al rapporto con le «masse cattoliche». Oggi, infatti, le cose sono più complicate di ieri, non siamo più nel tempo dei comitati civici e il rapporto tra autorità e fedeli è profondamente cambiato nella Chiesa cattolica. C’è oggi convergenza, in Italia, tra vescovi e laici sull’escludere indicazioni di voto per uno specifico partito da parte delle autorità ecclesiastiche: è uno dei tanti riflessi dell’accresciuta importanza riconosciuta allo spazio della soggettività personale anche all’interno del cattolicesimo. Sono intervenute trasformazioni profonde per cui il voto dei cattolici – come ha scritto il sociologo Paolo Segatti – non è più «fidelizzato» come in passato, non è più cioè rivolto in modo costante ad un partito di riferimento, come la Democrazia Cristiana. Anche sotto il profilo strettamente elettorale, perciò, la questione del «consenso cattolico» richiede uno sforzo più ampio della semplice cura del rapporto con la gerarchia ecclesiastica, per incontrare davvero tendenze e orientamenti riferibili ad un’area cattolica non sempre facile da identificare. Si pone, in altre parole, il problema di un approccio né episodico né strumentale, ma costante e «sincero» per attirare questo consenso: il PD non potrà sperare nei voti dei cattolici se non avrà già, nelle sue corde più profonde, motivi reali di sintonia.

È il problema, toccato da Scoppola e da Salvadori, dell’ispirazione cristiana o della laicità del futuro Partito Democratico. Anche in questo campo, però, è importante utilizzare con cautela categorie valide in un’altra epoca della storia d’Italia e, soprattutto, della storia del mondo. È infatti necessario rivolgere molta attenzione alle novità emerse negli ultimi anni, come le questioni riguardanti la bioetica e più in generale le materie dove sono in gioco «principi non negoziabili». In un certo senso, il problema è sorto già con l’introduzione della legge sull’aborto: in occasione del referendum abrogativo di tale legge, a differenza di quanto avvenuto con il referendum sul divorzio, i cattolici si ritrovarono uniti in difesa del «valore della vita». La graduale emersione di queste nuove problematiche nel corso del pontificato di Giovanni Paolo II ha coinciso con il progressivo declino del partito di ispirazione cristiana e, in parte, della tradizione cattolico-democratica nel suo complesso. Non appare però convincente neanche la posizione di chi contrappone a questa prospettiva il principio della laicità. Ispirazione cristiana e laicità, infatti, non sono incompatibili, almeno nelle forme più mature di quest’ultima, e si sono anzi felicemente saldate, abbandonando le antiche contrapposizioni tra anticlericalismo e confessionalismo. Il punto è che al declino del principio dell’ispirazione cristiana ha corrisposto anche un declino della laicità, intesa come spazio comune in cui possano non solo confrontarsi ma anche ritrovarsi uomini e donne di fedi e valori diversi (o anche senza alcuna fede religiosa). È tramontata infatti la laicità europea, nata sul terreno delle lotte di religione, passata attraverso il filtro dell’illuminismo, consolidata dall’esperienza degli Stati liberali e maturata attraverso il superamento delle ideologie novecentesche. Al posto della laicità è facile incontrare oggi il relativismo, una pianta ben diversa, maturata nel giardino di un mondo post-secolare e insieme assetato di sacro, il mondo della globalizzazione, della contaminazione fra le culture, della contestazione dell’universalismo occidentale.

Mentre i richiami all’ispirazione cristiana e le affermazioni di laicità appaiono oggi meno incisivi del passato, sembra emergere una contrapposizione sempre più aspra sul terreno dei valori, da cui potrebbero scaturire esiti diversi. Potrebbe infatti prevalere anche in Italia (e in Europa) un conflitto a tutto campo e senza regole tra espressioni di fondamentalismo e forme di relativismo, come avviene già in altre parti del mondo. Oppure, la contrapposizione potrebbe dar luogo ad un estenuante dibattito pubblico cui corrisponderebbero specifiche decisioni politiche e legislative, riguardanti le singole questioni, prese in base alle maggioranze che si formerebbero di volta in volta. La storia e la situazione italiana inducono a ritenere che la seconda prospettiva abbia più probabilità di prevalere sulla prima e che le procedure democratiche e il confronto in base ai numeri potrebbero rappresentare i criteri ultimi cui affidare il contenimento del conflitto. Si vivrebbe, in questo modo, in un clima di perenne scontro referendario.

Per molti motivi, però, anche questa seconda possibilità, benché di gran lunga preferibile alla prima, non può considerarsi ottimale. Implicherebbe, infatti, una spaccatura permanente sul piano culturale, negativa per quanto riguarda la coesione sociale e l’unità nazionale e, alla lunga, anche per la tenuta delle istituzioni democratiche. Oggi si enfatizza molto il pericolo rappresentato dallo scontro di civiltà tra culture diverse, ma tale impostazione trascura di considerare i conflitti sempre più frequenti che sorgono all’interno delle stesse culture, assai meno omogenee e uniformi di quanto ci piace rappresentarle: non senza fondamento, ad esempio, qualcuno denuncia uno scontro sempre più acceso tra etiche diverse all’interno della stessa civiltà occidentale. L’epoca in cui viviamo, infatti, non accende solo scontri interculturali, ma anche lacerazioni intraculturali, che possono rivelarsi anche più pericolose dei primi. In ogni caso, una conflittualità culturale di questo tipo produrrebbe una situazione molto critica per il PD e per altri partiti «generalisti», portatori cioè di un disegno politico complessivo sull’insieme della realtà italiana e dei suoi problemi. Tali partiti, infatti, dovrebbero estendere sempre di più lo spazio lasciato alla libertà di coscienza di elettori, militanti e rappresentanti. La politica, in altre parole, si ritirerebbe progressivamente da questioni destinate a diventare in futuro sempre più importanti, lasciando ad altri – tra cui la Chiesa cattolica, altri soggetti religiosi, associazioni o partiti legati a specifiche issues, come i radicali ecc. – la loro discussione e soluzione.

L’alternativa a questi scenari è rappresentata dalla possibilità di creare un nuova sintesi politico-culturale, in cui possano riconoscersi sia credenti di varie confessioni e religioni sia non credenti di diverso orientamento, e che si potrebbe definire una «nuova laicità». È questa una delle sfide principali davanti a cui si troverà una formazione come il PD, che ambisce a guidare il paese. Come la «vecchia laicità», anche la nuova dovrebbe offrire una base comune per elaborare prospettive e soluzioni accettate da tutti o almeno orientamenti condivisi su cui fondare regole di (buona) convivenza. Ma, a differenza della vecchia, la nuova laicità non potrebbe più essere fondata sull’assoluta neutralità dello Stato o, ancor meno, su un pregiudizio anticlericale delle istituzioni pubbliche. Dovrebbe trattarsi di una laicità «porosa» o «aperta» ai valori e agli orientamenti di una società sempre più multiculturale, multietnica e multireligiosa, indirizzando il confronto tra le diverse posizioni verso la convergenza più che verso lo scontro, verso la creazione di una convivenza comune più che verso l’affermazione identitaria delle diverse minoranze. Per raggiungere questo difficile obiettivo dovrebbe trattarsi di una laicità dinamica, basata sullo sviluppo dei processi storici piuttosto che sulla cristallizzazione dei fondamenti valoriali. Lo scontro sui valori è, infatti, per sua natura allergico alle mediazioni politiche o alle soluzioni pratiche, evoca l’assoluto e irrigidisce le distanze. Ma la verità ha una dimensione universale, è radicata nella coscienza profonda dell’umanità, è implicita nell’affermazione di qualunque diritto. A questa nuova laicità competerebbe anche di individuare, per la «componente cattolica», lo spazio che le compete nel contesto italiano. Si tratta di una sfida molto difficile, per affrontare la quale non sono necessarie solo grandi risorse culturali, ma anche una robusta visione storica per interpretare i cambiamenti in atto.

I precedenti sono, in questo senso, illuminanti. Nel corso della storia unitaria, almeno nei momenti di maggior consapevolezza, le classi dirigenti italiane si sono poste in modo complessivo il problema del rapporto tra la realtà nazionale nel suo insieme e la «componente cattolica» nei suoi vari aspetti. Nella destra storica, ad esempio, c’è stato chi – in un’ottica conciliatorista – si è interrogato contemporaneamente sul rapporto con il Papa e la Santa Sede, sul contributo che i cattolici potevano dare al processo di unificazione nazionale e sul ruolo della tradizione cattolica nella società italiana. L’attenzione è stata così profonda da far maturare anche progetti di «riforma religiosa» o di «riforma della Chiesa» per favorire gli aspetti, religiosi, pastorali e politici, più consoni alla prospettiva della conciliazione. Meno profonda, ma più fortunata, fu l’attenzione giolittiana al problema, che ha prodotto l’attenuazione del non expedit e avviato l’ingresso dei cattolici nella vita politica nazionale, attenuando il conflitto tra Stato e Chiesa. Anche i cattolici hanno dovuto porsi questi problemi e il Partito popolare, caratterizzato da un felice approccio alla questione del rapporto tra i cattolici e la vita politica e al problema dell’apporto della tradizione cattolica alla crescita della società italiana, è finito anche per aver trascurato la questione del dissidio tra Chiesa e Stato. Una notevole politica ecclesiastica va indubbiamente riconosciuta a Mussolini, di cui uno dei maggiori successi fu la conciliazione tra Stato e Chiesa, causa di un diffuso consenso tra i cattolici verso il regime. Egli invece cercò di contrastare l’influenza della tradizione cattolica su una società che avrebbe voluto fascistizzare interamente e si alienò gradualmente il sostegno della Santa Sede con una politica estera filo-tedesca e aggressiva. Successivamente, De Gasperi fu uno degli statisti italiani che, benché cattolico, più riuscì a «pensare» con lucidità il rapporto tra componente cattolica e realtà italiana e di Togliatti si è già detto. Ancora poco studiato, sul piano storico, è stato finora il comportamento di democristiani e comunisti nei decenni successivi, ma indubbiamente personalità come Fanfani, Moro e, in modo diverso, Andreotti, hanno avuto un disegno originale sul ruolo della Chiesa cattolica nella società italiana, mentre, su un’altra sponda, il progetto politico berlingueriano assegnava una notevole importanza alla «componente cattolica». A Craxi si devono infine riconoscere alcune intuizioni notevoli, come quelle che lo portarono alla revisione del Concordato nel 1984, mentre l’ultima generazione democristiana è stata complessivamente meno attenta a questi problemi.

Si tratta di vicende molto diverse tra loro e su cui vanno formulati giudizi differenti. Tuttavia, anche uno sguardo superficiale sulla storia unitaria mostra che, almeno nei momenti di maggior consapevolezza, le classi dirigenti italiane non hanno soltanto curato il rapporto politicodiplomatico con la Santa Sede o cercato i voti dei cattolici o orientato, favorendoli o contrastandoli, aspetti all’influenza cattolica nella società italiana. Hanno anche collegato questi aspetti specifici al ruolo che la «componente cattolica» nel suo insieme poteva svolgere nella complessiva vicenda italiana: in altre parole, hanno considerato il cattolicesimo come una risorsa da utilizzare, collegandola ad altre componenti e inserendola in un progetto di costruzione nazionale. Non hanno, invece, ridotto il rapporto con la Santa Sede, la Chiesa e i cattolici a questioni specifiche e cioè a problemi settoriali cui certo occorre dedicare attenzione, considerandoli però irrilevanti rispetto agli aspetti cruciali del sistema-paese. Per la politica italiana, infatti, l’atteggiamento verso la «componente cattolica» non costituisce una variabile indipendente o un elemento accessorio, ma è una chiave essenziale per entrare in sintonia con la realtà profonda di un paese così complesso e variegato come l’Italia. Una politica di questo genere è stata realizzata dalle classi dirigenti indipendentemente dalla loro ideologia e dai loro valori, dato che spesso si è trattato di classi dirigenti laiche o, addirittura, anticlericali, che tuttavia hanno seguito un approccio storico e non ideologico. Lo stesso vale anche per le classi dirigenti cattoliche che, richiamandosi al principio dell’«ispirazione cristiana» non hanno seguito una logica confessionale, pur facendo del cattolicesimo un perno del loro progetto politico. È la laicità della storia, infatti, non quella dei principi ciò di cui c’è maggior bisogno su questo terreno.

Laica, perciò, deve essere anche l’osservazione della realtà, necessaria per fondare qualunque progetto politico. Sarebbe ad esempio importante che i politici italiani, credenti o non credenti, guardassero bene dentro ciò che chiamano la «Chiesa di popolo». Qualche anno fa Andrea Riccardi ha lanciato questa espressione in sede storica per sottolineare la complessità nel cattolicesimo italiano, in cui non è possibile separare nettamente istituzione e carisma, vescovi e laici, parrocchie e movimenti, religiosità popolare e spiritualità intellettuale. La Chiesa di popolo, insomma, non è riducibile ai frequentatori della messa domenicale e anche restando nell’ambito delle parrocchie è molto cresciuta al loro interno la presenza di movimenti e comunità ecclesiali. Abituati in passato a sopravvalutare i fenomeni di dissenso interni al mondo cattolico, i politici tendono oggi a sottovalutare realtà che non si esprimono nelle forme del contrasto eclatante. Ma la presenza dei movimenti e delle comunità ecclesiali rappresenta uno dei segni più evidenti delle articolazioni oggi presenti nel cattolicesimo italiano. Si tratta di un modo di essere peculiare del cattolicesimo post-conciliare, come in altre epoche storiche lo sono stati gli ordini monastici, le congregazioni religiose, gli istituti secolari e le associazioni laicali. In ogni epoca storica, infatti, il cattolicesimo ha cercato di rispondere alle sfide del proprio tempo, assumendo le forme di volta in volta più adeguate alla società che si trasformava. Quando lo Stato laico ha soppresso gli ordini monastici, sono nate le nuove congregazioni religiose, quando si è sviluppata la società di massa si è diffusa l’Azione cattolica. Oggi, movimenti e comunità ecclesiali si muovono in una società che è insieme secolarizzata e post-secolare, sempre più scettica e alla ricerca del sacro, relativista e fondamentalista. La politica italiana dovrebbe interrogarsi su queste articolazioni del cattolicesimo contemporaneo. Non si tratta solo dell’interesse che possono rivestire quale tramite con l’istituzione ecclesiastica, per raccogliere voti o in quanto terminali di strutture educative, enti bancari, imprese o cooperative. Sintonizzarsi con queste realtà del nostro tempo serve soprattutto per costruire una politica adatta al nostro tempo, in Italia e nel mondo. La Pira è stato considerato da molti un eccentrico, insopportabilmente clericale nelle sue manifestazioni pubbliche; eppure l’Italia ha oggi una politica in Medio Oriente anche grazie ad un «carismatico» come lui, capace di aprire – in modo sostanzialmente laico – imprevedibili finestre sul mondo in un’Italia molto provinciale.

Per concludere, in questi mesi molti esponenti della tradizione socialista o comunista hanno invocato la propria storia e la propria identità per escludere la presenza di un’ispirazione cristiana del futuro PD in cui, in tal caso, non si potrebbero ritrovare. Del tutto analoga, sulla sponda opposta, è la posizione di quei cattolici che rifiutano un’ispirazione socialista o socialdemocratica nella nuova formazione. Anche i leader della Margherita e dei DS hanno discusso della quota di cattolicesimo o di socialismo che ci deve essere nel futuro PD. Malgrado il rispetto e l’apprezzamento dovuto a quanti – liberali, democristiani, socialisti, comunisti o altro – hanno contribuito con il loro impegno e il loro sacrificio a far progredire la storia d’Italia, si tratta di discussioni che non aiutano. Porsi il problema di «non morire democristiani» o di «non morire socialdemocratici» è un modo per guardare indietro, impedendo al PD di nascere con una costituzione robusta. Se il problema è trovare una casa a chi ha alle spalle una lunga militanza, è più confortevole per tutti restare nelle vecchie abitazioni. Se invece si ha l’ambizione di contribuire incisivamente al futuro della politica italiana, è necessario confrontarsi spregiudicatamente su ciò che è vivo e ciò che è morto, sia nella tradizione dell’ispirazione cristiana sia in quelle socialista, socialdemocratica e anche comunista, alla luce dei principali problemi dell’oggi e del domani.

Insomma, non ha molta importanza quanti riferimenti al cattolicesimo o al socialismo devono essere inseriti nello statuto del PD. Importa soprattutto sapere quale sarà il suo progetto politico.