I tempi lunghi della transizione araba

Di Renzo Guolo Mercoledì 03 Ottobre 2012 14:59 Stampa

Le recenti manifestazioni di violenza scatenate in tutto il mondo arabo dal film sulla vita di Maometto hanno condotto in Occidente a
una riflessione su quale sia, a quasi due anni dalle prime proteste in Tunisia, l’esito delle primavere arabe. La vittoria elettorale dei partiti islamisti egiziano e tunisino hanno alimentato i sospetti di quanti ritengono che la democratizzazione di quei paesi sia sostanzialmente fallita. È, però, ancora troppo presto per giudicare dei processi di transizione che richiedono tempi molto più lunghi.

L’ondata di proteste scatenata dal film “Innocence of Muslims”, sfociata nella drammatica morte in Libia dell’ambasciatore degli Stati Uniti J. Christopher Stevens e in mobilitazioni antiamericane in tutto il mondo della Mezzaluna, ha alimentato in Occidente la discussione sull’esito delle “primavere arabe”.

Nostalgici dell’ordine, o del disordine, dell’era Bush, insieme ad analisti e commentatori da sempre scettici sul corso emerso dopo la caduta dei regimi autocratici, hanno messo in dubbio la politica di apertura dell’Amministrazione Obama, a loro dire colpita da una nemesi storica. L’aver lasciato cadere i dittatori amici, sostituiti in alcuni paesi da leader e partiti islamisti che complicano le relazioni internazionali, non si sarebbe rivelata una buona mossa. Al potere sarebbero saliti movimenti, come quelli affiliati ai Fratelli Musulmani, che restano sostanzialmente antioccidentali. Inoltre, senza adeguato contrasto repressivo, le ali estreme islamiste, quella salafita e quella qaidista, ora prospererebbero.

Questa concezione “pessimista” della complessa transizione araba ignora alcuni elementi. È vero che, dopo la caduta dei regimi militar-nazionalisti, lo scenario internazionale è divenuto molto più complesso e che la fi ne delle rendite fondate sullo scambio politico tra sostegno alle dittature e inamovibilità dei regimi autocratici pone ai paesi occidentali responsabilità inedite. Altrettanto vero è, però, che l’esito dei processi di democratizzazione non può essere valutato dopo così breve tempo. I critici dei nuovi assetti sostengono che la democrazia ha condotto al potere proprio i suoi nemici, i partiti islamisti che si sarebbero convertiti al nuovo corso solo per ragioni tattiche; ma si dimentica che un panorama pluralista, purché rimanga tale, consentirà in futuro a forze diverse da quelle islamiste di organizzarsi, mobilitare risorse, competere per governare. E che proprio la prova del governo obbligherà i partiti islamisti a misurarsi concretamente con valori e interessi diversi dai propri, in un contesto interno e internazionale profondamente mutato rispetto a quello precedente all’esplosione delle primavere arabe. Mostrandone le capacità o i limiti. In ogni caso sperimentando parole d’ordine che sin qui hanno goduto dell’aura della mancata verifica.

Naturalmente i processi di democratizzazione – il termine è preferibile poiché la democrazia non si esaurisce nella sola, pur rilevante, possibilità di scegliere da chi farsi governare – saranno lunghi, contraddittori, conflittuali. Non si passa dall’oggi al domani da un panorama in cui la forza è, di per sé, fattore legittimante del sistema a uno in cui sono il consenso e il pluralismo a esserlo. Tanto più in un ambiente in cui la cultura politica diffusa non è quella della tradizione democratica. Valutare negativamente gli esiti delle primavere arabe in base a considerazioni a breve termine rischia, dunque, di oscurare i benefici politici innescati dal mutamento. Certo, il tasso di complessità politica aumenta, sul piano interno e internazionale: basti pensare a questioni come la sicurezza di Israele in un contesto in cui non ci sono più dittatori “amici” in grado di garantire la “pace fredda” e i governi divengono sensibili agli orientamenti dei diversi attori politici, anche estremisti, e dell’opinione pubblica. Ma, al contrario, si può osservare che le responsabilità di governo indurranno le leadership islamiste, almeno quelle vicine ai Fratelli Musulmani, a ridurre il tasso ideologico delle loro scelte. La “costituzionalizzazione democratica” dell’ala maggioritaria islamista riconduce quella componente a una partecipazione inclusiva, sino a qualche decennio fa politicamente e religiosamente impensabile. Contribuendo a radicare la democrazia.

 

IL CASO NORD AFRICA: EGITTO, TUNISIA, LIBIA

Si guardi ai paesi del Nord Africa, area di particolare interesse per la politica estera e di sicurezza italiana. In Egitto e Tunisia le elezioni sono state vinte rispettivamente da Libertà e giustizia e da Ennahda, entrambi partiti legati alla Fratellanza.

In riva al Nilo, il presidente Mohamed Morsi ha vinto la prova di forza con i militari dopo una lunga crisi politica e istituzionale che aveva di fatto sospeso la democrazia (scioglimento del Parlamento eletto, concentrazione di poteri nelle mani del Consiglio supremo delle forze armate, dimezzamento dei poteri presidenziali). La fine di quel braccio di ferro consegna ora a Libertà e giustizia la possibilità di governare senza condizionamenti. Il partito islamista al potere dice di battersi, non per uno Stato islamico, ma per uno “religiosamente ispirato”. È inevitabile che questa espressione implichi un irrigidimento sul piano dei costumi e, prevedibilmente, una produzione normativa in tal senso. La “moderazione” nel campo delle relazioni internazionali e la decisione di mantenere il paese aperto agli investimenti esteri – segnale inviato con la richiesta di un prestito al Fondo monetario internazionale – hanno come corollario una connotazione più marcatamente islamista sul piano interno. Anche perché Libertà e giustizia deve fare i conti con la pressione dell’ambiente salafita – Nour, il Partito della luce, ha ottenuto il 25% dei consensi alle elezioni legislative del 2012 – che si propone come autentico interprete del “gergo dell’autenticità” dell’antica fede, la salaf, alla quale anche i Fratelli Musulmani fanno riferimento ideale, seppure ormai sul piano religioso più che su quello politico. Ma il governo guidato da Libertà e giustizia dovrà misurarsi anche con la crisi economica, con la questione degli investimenti esteri, con il problema del turismo, che in passato garantiva cospicue entrate valutarie; inevitabilmente dovrà tenere conto di valori e interessi diversi da quelli che stanno a cuore al pur vasto bacino elettorale islamista. La prova del governo mostrerà se i partiti islamisti sono in grado di dare o meno risposte a questioni che non possono essere affrontate con slogan ideologici. Come si è visto dai risultati delle presidenziali, vinte da Morsi con un margine ristretto su Ahmed Shafiq, il consenso elettorale è già in calo. A dimostrazione che in un panorama politico aperto non vi sono rendite garantite per nessuno. Solo se riuscirà a fronteggiare la crisi economica, il governo sostenuto dai Fratelli Musulmani conserverà il consenso. In caso contrario, dovrà passare la mano.

Ennahda ha lo stesso problema in Tunisia. Il governo a guida islamista subisce la pressione dei salafiti – che pure hanno ottenuto risultati assai insoddisfacenti alle elezioni –, decisi a incalzarlo sul piano dei valori e dell’islamizzazione della società. La cattiva gestione dell’ordine pubblico durante la “crisi del Profeta”, l’ambiguità di alcuni settori di Ennahda verso i “fratelli-rivali” salafiti, l’insoddisfazione per la crisi economica, erodono il consenso al principale partito di governo, che conseguiva anche dal fatto che il partito di Rashid Ghannushi è stato a lungo il più coerente oppositore del regime di Ben Ali.

Il caso libico è ancora diverso. Le elezioni legislative hanno registrato una sconfitta del frammentato movimento islamista. Qui la Fratellanza non è forte come nel vicino Egitto. E la mancata affermazione del movimento di ispirazione salafita di Abdelhakim Belhadj, ex combattente del jihad in Afghanistan divenuto importante comandante militare durante i lunghi mesi della guerra civile, ha condotto verso la clandestinità e la lotta armata gli elementi meno convinti dall’esperimento democratico. La concentrazione jihadista nell’area di Derna, che vede fianco a fianco reduci dall’Afghanistan, dall’Iraq, “pendolari” dalla Sira e qaedisti, è diventata un problema. Quanto ai salafiti, tendono a comportarsi come attori della deculturazione, attaccando le culture locali – si veda l’assalto ai luoghi storici delle confraternite sufi – in nome del progetto di ricomposizione dell’Islam sotto un’unica bandiera ideologica. Una scelta che divide.

Il tutto in un contesto in cui il governo centrale non riesce a venire a capo dei vari gruppi armati su base politica, clanica, etnica, tribale, che componevano il vasto fronte antigheddafiano. E mentre si ripropone il classico conflitto centro-periferia che contribuisce ad approfondire le tradizionali linee di frattura. Negli scontri di Bengasi, in cui ha perso la vita l’ambasciatore statunitense Stevens, sincero amico della transizione libica, jihadisti e filoqaedisti si sono inseriti su tensioni che avevano a che fare non solo con il famigerato film sul Profeta, ma anche con l’insoddisfazione per il mancato riequilibrio degli antichi assetti di potere tra Tripolitania e Cirenaica.

La galassia salafita, tanto magmatica quanto variegata nelle sue componenti, è elemento di complicazione della capacità di governo dei partiti al potere nella regione, siano essi islamisti o meno. Essa sfrutta le tensioni che derivano da una situazione in cui è aumentata la libertà politica ma i problemi economici restano irrisolti. In Egitto e Tunisia i salafiti hanno come obiettivo strategico quello di mettere in crisi i “revisionisti islamici” della Fratellanza e la loro alleanza di necessità con gli Stati Uniti; in Libia essi puntano a indebolire, invece, le forze nazionaliste e liberali. Ritenere, di fronte agli inevitabili stop and go delle diverse transizioni, che le primavere arabe siano clamorosamente fallite è, dunque, un errore. Il processo non è lineare, ma può condurre a una progressiva inclusione di quei paesi nell’area delle democrazie. I paesi occidentali, in particolare quelli dell’Unione europea come l’Italia che nello spazio mediterraneo ha una naturale proiezione geopolitica, devono favorire i mutamenti politici ed economici capaci di accrescere la pluralità interna, sociale ed economica. Se, davanti alle inevitabili contraddizioni di quel mutamento, adottassero una posizione di attesa non contribuirebbero certo a rendere i processi di democratizzazione difficilmente reversibili. Un atteggiamento politicamente pro-ciclico richiede però un surplus di capacità e di iniziativa politica. L’alternativa sarebbe fatale.

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