Infrastrutture: come ridisegnare la collettività

Di Patrizio Bianchi Mercoledì 26 Ottobre 2011 12:48 Stampa
Infrastrutture: come ridisegnare la collettività Illustrazione: Alessandro Sanna

Discutere di infrastrutture significa porre al centro dell’attenzione i beni della collettività, veicolo di cittadinanza e di modernizzazione di un paese. Solo un ritorno alla concretezza e all’economia reale potrà aiutarci a superare la crisi e a trovare stabilità nel nuovo mondo globale; solo un’opera di “ricostruzione” e “integrazione” potrà avviarci verso un cammino di crescita.


Gli anni in cui il presidente del Consiglio si crogiolava in televisione disegnando grandi lavori sulla cartina del suo immaginario paese sono lontanissimi. Il tempo della verità si è avvicinato a grandi passi, al ritmo di una crisi che ha dimostrato quanto pericolosa si sia rivelata quell’ideologia iper-liberista che per vent’anni ha dominato la riflessione accademica e inquinato la stessa concezione della politica. Tra le prime vittime di questa ideologia dobbiamo registrare proprio le infrastrutture, che per definizione sono essenza stessa e collante della vita collettiva. Resta ancora oggi impressionante la primissima lista di interventi che Obama fece appena eletto: si trattava di azioni di ricostruzione delle reti essenziali, dall’acqua potabile alle fognature, che l’Amministrazione Bush non riteneva necessarie essendo tutta rivolta a esaltare l’interesse dei singoli e a ridurre gli interessi della comunità.

Tornare a ragionare di infrastrutture significa tornare a porre al centro dell’attenzione i beni comuni. È quanto ci ha indicato il referendum sull’acqua: discutere di acquedotti, tubature, distribuzione, tariffe non è possibile senza dare un senso alla natura di quel bene che le infrastrutture rendono accessibile. Questo non vuol dire certo che dobbiamo rinunciare a individuare il modo migliore e più adeguato per finanziare e gestire in maniera ottimale le singole opere infrastrutturali e i servizi connessi; anzi, vuol dire uscire dalla banalizzazione di considerare tutto come un bene di mercato, cioè appropriabile ed esclusivo. In una economia complessa e dinamica ci sono beni che per definizione debbono essere pubblici, cioè disponibili a tutti, perché di lì passa la qualità stessa dei diritti di cittadinanza effettivi, e molte volte anche la modernizzazione del paese, la sua unificazione reale, la sua capacità di essere parte integrante di un mondo più grande e aperto. Tornare a parlare di infrastrutture significa quindi tornare a pensare al paese che vogliamo per il nostro futuro, vuol dire ridisegnare ancora una volta una visione di comunità, in cui l’effettiva partecipazione dei cittadini non sia discriminata dalla mancanza di quei servizi, che per loro natura costruiscono e sedimentano la stessa vita collettiva.

Le reti di comunicazione (viarie, ferroviarie, aeree, portuali) e di telecomunicazione (dai telefoni a internet, alle televisioni), l’energia nelle sue diverse forme, l’acqua, ma anche i servizi essenziali alla vita collettiva (dalla sicurezza alla salute) e certamente, non ultime, le reti della conoscenza (dalla scuola di base all’università e oltre) sono la trama sui cui la vita economica e civile di un paese si proietta, permettendo poi ai singoli di concentrare le proprie forze sulle loro attività.

Di tutto ciò si discusse molto nella Commissione economica della Costituente: la nuova Repubblica si interrogava infatti sul profilo economico del paese, che usciva dagli anni del fascismo e della chiusura autarchica. In quello straordinario dibattito si opposero in maniera evidente due tesi, sostenute – diremmo oggi – trasversalmente nei diversi campi politici e sociali. Da una parte vi erano coloro i quali ritenevano che l’Italia fosse irrimediabilmente debole, con imprese non in grado di competere sul nuovo mercato aperto, e quindi coerentemente si chiedeva una politica di protezionismo e di chiusura nei confronti di un mercato internazionale di cui si avvertivano i rischi. Dall’altra parte vi era invece un variegato fronte che sosteneva la necessità di strutturarsi per stare nel nuovo mercato aperto, sia perché in questo risiedevano le opportunità di sviluppo economico di un paese ancora arretrato e diviso, sia perché esso rappresentava la nuova dimensione politica dell’integrazione internazionale dopo il disastro della guerra. E quindi bisognava agire per un verso per avviare processi di integrazione europei, e per l’altro per creare quelle infrastrutture indispensabili alla crescita in una economia aperta.

In questa fase, in cui alla crisi dell’economia si assomma la malattia della politica, diviene necessario recuperare il livello e la visione di quella discussione che i padri costituenti affrontarono negli anni della ricostruzione. E di “ricostruzione” dobbiamo oggi parlare, tenendo conto del nuovo contesto in cui ci troviamo a operare. Il primo dato che salta all’occhio è l’evidente difficoltà, o meglio l’impossibilità, di risolvere a livello nazionale la complessa equazione della riduzione del debito e del rilancio dell’economia. Sulla riduzione del debito pubblico Carlo Azeglio Ciampi ci ricorda che nel 1997, quando si decise di entrare nell’euro, lo spread nei confronti dei titoli tedeschi era di quasi 600 punti base e il deficit era al 7,2% del PIL. Si giunse ad annullare lo spread e a ridurre al 2,7% il deficit, fissando chiaramente un obiettivo, cioè l’entrata nell’euro e quindi nella nuova Europa, e utilizzando un metodo, ovvero la concertazione che chiamava tutti a un obbligo di partecipazione. Ciò avvenne ricostruendo una credibilità internazionale, che è la prima leva della politica economica. Oggi, mentre molte sono le forze che lavorano per decretare la fine dell’euro, sostenendo il ritorno a piccole patrie o a magici mercati autoregolantisi, diviene necessario rilanciare la nostra visione dell’Europa, tornando a ripensare quest’ultima come una unità, a cui conferire quei poteri che negli ultimi dieci anni sono stati concessi solo a metà. L’esplodere del debito pubblico – anche per porre a carico della collettività il salvataggio delle banche private – ha dimostrato efficacemente come una unità monetaria senza un’effettiva politica comune di bilancio risulti squilibrata e squilibrante, ma ha dimostrato anche come nessun equilibrismo da parte dei singoli governi, e nessun meeting intergovernativo (da parte di due o più “grandi” e “grandini” della scena internazionale) possa risolvere la crisi, se non si riavvia un meccanismo di crescita della produzione e quindi dell’economia reale. E qui torniamo alle infrastrutture, se riposizionate opportunamente nella giusta dimensione europea.

A questo proposito Romano Prodi e Alberto Quadrio Curzio hanno avanzato una proposta per la costituzione di un Fondo europeo di emissione di eurounionbond, sostenuto dal contributo proporzionato dei singoli Stati, sia con il conferimento di parte delle riserve d’oro delle banche centrali, facenti parte del sistema monetario europeo, sia trasferendo al nuovo soggetto unitario azioni di quelle società ancora in mano pubblica, che in realtà sono tuttora l’asse portante dei servizi di trasporto, di comunicazione, di produzione ed erogazione di energia dell’intera Europa.1 La proposta è di usare questo capitale in parte per fronteggiare la crisi fiscale degli Stati – con garanzia di partecipazione equilibrata e proporzionata di tutti i membri, all’interno di un organismo europeo unitario –, ma in parte anche per investimenti comuni nelle grandi reti infrastrutturali, che servono per ammodernare il Vecchio Continente.

L’iniziativa ha il pregio di unire finalmente le problematiche macroeconomiche della gestione del debito pubblico, a quella microeconomica del rilancio degli investimenti. Si disegna infatti uno strumento comune mirato a governare la crisi fiscale degli Stati da coordinare alla gestione della politica monetaria, ma nel contempo in grado di rendere concreta una prospettiva di politica industriale, che possa agire direttamente sul rilancio di grandi investimenti nei settori aventi capacità di essere infrastruttura per lo sviluppo e traino tecnologico per l’industria europea.

Non a caso riprendendo questa prospettiva bisogna tornare al Libro bianco “Crescita, competitività, occupazione” del 1993, che il presidente Delors pose alla base del rilancio dell’Unione dopo i pesanti anni di oscuramento successivi alla lunga crisi scatenatasi negli anni Settanta. Proprio quella crisi, infatti, dimostrò nel più crudo dei modi come di fronte ai grandi stravolgimenti economici e politici, i paesi europei si richiudessero in se stessi, tentando di risolvere al loro interno il conflitto tra inflazione e disoccupazione, anche a costo di mettere in discussione e a rischio i risultati raggiunti nel cammino di integrazione. Dopo aver ragionato in lungo e in largo sui costi della “non-Europa” si giunse tuttavia alla evidente considerazione che la “nuova Europa” necessitava comunque di un’accelerazione nel ritmo di crescita, recuperando occupazione attraverso un aumento significativo della competitività del “sistema Europa”. E in quel quadro le reti transeuropee – i corridoi europei in cui consolidare linee di comunicazione in grado di unire le coste atlantiche ai confini russi, dal Mare del Nord al Mediterraneo – divenivano le vertebre di una nuova intelaiatura dell’integrazione e nel contempo dello sviluppo europeo. In maniera altrettanto chiara la Strategia di Lisbona del 2000 sottolineava con grande forza come – nel momento in cui si avviava l’euro e l’unificazione monetaria e si estendeva all’estremo limite orientale l’unità europea – bisognasse investire in risorse umane, ricerca e formazione, evidenziando il fatto che le nuove infrastrutture dello sviluppo dovessero essere proprio le scuole, le università, i centri di ricerca, i luoghi di formazione permanente.

Nei dieci anni successivi questo richiamo alla concretezza si è progressivamente affievolito, sotto la spinta di una radicalizzazione ideologica, che rilanciava la centralità di un mitico “mercato”, che nel frattempo diveniva senza regole, senza vincoli, senza moralità, fino ad accumulare nella deresponsabilizzazione collettiva le condizioni per il disastro degli ultimi anni.

L’inflazione drogata degli assets finanziari è divenuta debito nel momento in cui si è dimostrato che “sotto il vestito” fascinoso della nuova elegante finanza privata e della estrosa finanza creativa pubblica non c’era nulla o almeno non vi erano quella produzione, quel lavoro, quelle competenze, che potevano dare solidità ai cosiddetti fondamentali dell’economia. E oggi che le insolvenze dei privati e le incurie dei pubblici si sono trasformate in debiti sovrani, vi è ancora chi invoca la dissoluzione dell’Europa e la vanificazione dell’unità monetaria, piuttosto che un forte rilancio di quell’azione comune che sola può permettere all’Europa, e in particolare a noi stessi, di rientrare in un cammino di crescita.

In questo senso la proposta di Prodi e Quadrio Curzio è certamente affascinante e da discutere in profondità nonché da sottoporre a stringenti critiche, tuttavia essa guarda lontano e pone sul tavolo le questioni essenziali del nostro difficile presente. Occorre infatti tornare a legare il bisogno di porre regole alla gestione dei bilanci nazionali con l’esigenza di investimenti in grandi infrastrutture transeuropee, come politica necessaria di rilancio di una competitività di sistema; premessa necessaria anche per la competitività delle singole imprese, ma soprattutto di quei sistemi di medie imprese che ancora caratterizzano la parte più dinamica della nostra industria.

Purtroppo questa riflessione mette a nudo tutte le fragilità delle attuali leadership europee, che oggi lamentano la debolezza dell’Unione, dopo aver concorso per anni all’indebolimento dell’Europa.

Non bisogna solo tornare a ragionare sulle infrastrutture necessarie allo sviluppo, ma anche sui modi per governarne i processi di integrazione, fino a giungere a reti di estensione effettivamente europea, ma è fondamentale per noi che questo avvenga con un governo che riacquisti la visione lungimirante che lega lo sviluppo locale al rilancio dell’Europa, i diritti dei cittadini alla crescita economica, la responsabilità e la partecipazione dei diversi attori istituzionali a un processo di concertazione che ritrovi il comune obiettivo di una nuova stagione di protagonismo europeo, come elemento essenziale di stabilità di questo nuovo mondo globale, così improvvisamente piccolo e ancora incredibilmente sconosciuto.

 


 

[1] “Il Sole 24 ore”, 23 agosto 2011.

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